Via da Gaza per restare in Cisgiordania
Il capolavoro di Sharon & Bush Chi pensa che il ritiro da Gaza sia un atto di buona volontà del governo Sharon nei confronti dei palestinesi o, tutt'al più, una questione meramente demografica: troppi un milione e duecentomila palestinesi da controllare, troppo pochi gli israeliani, otto mila, per giustificare il dispendioso dispiegamento di forze, si sbaglia di grosso. Ciò che ha innanzitutto determinato lo storico evento va ricercato all'interno del progetto di pax americana che da anni i vari governi di Washington hanno tentato di realizzare. Da Bush padre a Bush figlio, passando per la doppia amministrazione Clinton, sanare la questione palestinese significava eliminare la principale fonte d'opposizione alla penetrazione americana nell'area. Non a caso, dopo la guerra del Golfo del 91, stabilita una serie di alleanze petrolifere, si è cominciato a parlare di due popoli e di due stati in terra di Palestina. Prima dell'invasione dell'Afghanistan e dell'Iraq, puntualmente, il governo di Washington ha rispolverato la questione per tenere a bada i governi e, soprattutto, le popolazioni arabe, che dell'imperialismo predatore americano e dell'arroganza israeliana non ne potevano più. Il progetto del futuro stato palestinese spariva e ricompariva secondo le esigenze geo politiche americane. Dal 2001 ad oggi le cose sono cambiate. Il doppio fallimento degli obiettivi petroliferi in Afghanistan e in Iraq, la recrudescenza dell'opposizione terroristica e non dei paesi musulmani, il crescente isolamento americano nell'area, la crisi economica e la preoccupante dipendenza energetica hanno spinto il governo Bush ad accelerare i tempi. Questa volta lo ha fatto con determinazione, minacciando il governo Sharon di stringere i cordoni della borsa se non avesse iniziato a mostrare comprensione, non per la causa palestinese, ma per le pressanti richieste americane. Pur non mettendo mai in discussione la ferrea alleanza con Israele, Bush ha fatto comprendere al falco Sharon, che i margini di resistenza alle richieste americane si erano ristretti e che qualche concessione ai palestinesi doveva essere fatta. Il capo del Likud, suo malgrado, ha capito l'eccezionalità della situazione e ha preferito scontrarsi con l'opposizione interna al suo stesso partito che con l'alleato di sempre. E lo ha fatto traendone i maggiori vantaggi possibili. In primo luogo ha ribadito che non si sarebbe in ogni caso ritornati ai confini del 1967, come recitano le risoluzioni 242, 338, gli accordi di Camp David, gli accordi di Oslo e il tracciato politico della Road map. Poi, in termini unilaterali, ha tracciato i confini dello stato d'Israele costruendo il muro attorno alla Cisgiordania. In terzo luogo ha creato le condizioni geografiche perché gli insediamenti più importanti della Cisgiordania, caratterizzati dal controllo delle acque a scopo agricolo e dei terreni più fertili, rimanessero nelle mani dei coloni. Infine, con l'abbandono degli insediamenti nella striscia di Gaza, ha ribadito che la colonizzazione della West Bank è un fenomeno irreversibile e che proseguirà anche nel futuro, a seconda delle necessità dello stato e dei suoi cittadini.
Un'opera d'arte. In un sol colpo il governo Sharon, liberandosi di un lembo di terra pressoché insignificante, rinunciando a soli 25 insediamenti, soddisfa le aspettative dell'alleato americano, rinnova la sua immagine sullo scenario internazionale, dà il contentino alla traballante borghesia palestinese di Abu Mazen e si garantisce la possibilità di prendersi della Cisgiordania quanto gli è funzionale da un punto di vista economico e strategico. In più, ottemperando alle richieste americane, lo stato d'Israele potrebbe continuare ad avanzare richieste più consistenti. La prima è quella d'avere più cospicui finanziamenti di quelli che già riceve e di rinnovare quasi gratuitamente le sue strutture militari d'avanguardia. La seconda è di ottenere, sempre che le cose in Iraq vadano per il giusto verso, la riapertura dell'oleodotto che dalla zona curda arrivava sulle coste mediterranee palestinesi, chiuso nel 1948, in occasione della nascita dello stato d'Israele.
Per la sempre più rinunciataria borghesia palestinese rappresentata da Abu Mazen, il ritiro israeliano da Gaza rappresenta una sorta di vittoria di Pirro. In realtà non ha ottenuto quasi nulla rispetto alle richieste precedenti, ma questo quasi nulla può essere sbandierato come un successo se paragonato ai fallimenti dell'amministrazione d'Arafat. Per la frangia borghese più radicale di Hamas e della Jihad si grida al tradimento, all'ennesima disfatta, ma solo perché non sono loro a gestire il dopo Israele nelle striscia di Gaza. In tempi recentissimi, l'integralismo palestinese aveva già abbassato il tiro, dalla distruzione dello stato d'Israele, condizione necessaria per la riconquista di tutta la Palestina, era passato ai confini stabiliti dalla risoluzione 181 del 1947 che prevedeva la nascita dello stato d'Israele, e avrebbe accettato anche la restituzione di Gaza e la rinuncia ad una parte del territorio della Cisgiordania, alla condizione di essere ufficialmente riconosciuto come forza politica rappresentativa del popolo palestinese in alternativa all'Olp di Abu Mazen.
Per il diseredato proletariato palestinese cambia ben poco. A parte la fallace idea di essere entrati in possesso di un primo tassello di quello che dovrà essere il futuro stato palestinese, le sue condizioni economiche non cambieranno certo sotto la gestione della sua corrotta e inefficiente borghesia. Per avere un posto di lavoro precario e sotto pagato dovrà ancora varcare la frontiera e recarsi nelle fabbriche israeliane. Lo stesso vale per i lavoratori della terra. La gestione dell'acqua e le verdeggianti monocolture della Cisgiordania, vero obiettivo di Sharon, resteranno nelle mani degli israeliani. Per i contadini palestinesi il futuro si presenta privo d'ogni prospettiva, i loro campi senz'acqua e l'aridità dei terreni continueranno a fornire quello che non è nemmeno sufficiente a sopravvivere. E' pur vero che l'Ue ha deciso di stanziare 60 milioni d'Euro in favore dell'Anp in funzione della sua politica mediterranea in chiave anti americana, ma è altrettanto vero che questi soldi, se arriveranno, saranno destinati alla borghesia finanziaria palestinese che ha da tempo dichiarato di voler fare di Gaza la Las Vegas del Medio oriente, alla faccia di un qualsiasi sviluppo di tipo agricolo e industriale. Al di là dei progetti e delle buone intenzioni rimane il fatto che, nella strategia di Sharon, il ritiro da Gaza significa la permanenza israeliana all'interno dei territori più significativi della Cisgiordania, il potenziamento delle colonie esistenti e la possibilità di crearne di nuove là dove ci fosse la necessità economica. Un grande affare con la benedizione di Bush.
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