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Femmine Sempre ribelli:
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Freccia Rossa Saturday, Mar. 18, 2006 at 7:05 PM |
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Con lo sguardo dell'inizio Pubblicata da Donzelli «Hannah Arendt. La vita, le parole», la biografia della filosofa tedesca che, insieme a quelle della scrittrice Colette e della psicoanalista Melanie Klein, compone il trittico dedicato da Julia Kristeva al «genio femminile».
SIMONA FORTI A tutta prima, sembra un'inedita Kristeva l'autrice di Hannah Arendt. La vita, le parole. (Il volume, uscito per le edizioni Fayard nel `99 e ora tradotto da Donzelli - pp. VI-296, € 23, traduzione di Monica Guerra -, è parte di una trilogia intitolata «Il genio femminile», dedicata ad Hannah Arendt, Melanie Klein e Colette). Insolito, infatti, è il tocco leggero e chiaro della scrittura con cui l'intellettuale di origine bulgara e di cultura francese dipana il racconto biografico. Ironico e paradossale può apparire l'intento del libro: esporre il pensiero di Hannah Arendt - così esplicitamente avverso alla psicoanalisi - a una sorta di sguardo «analitico». Il risultato, per quanto teoreticamente discutibile, è comunque molto interessante. Credo, infatti, che sebbene vogliano tenersene lontano, le opere arendtiane si prestino più di quanto si possa credere a questo tipo di lettura. Il messaggio che Kristeva tacitamente invia ai suoi lettori richiama innanzitutto l'esemplarità dell'esistenza di Hannah Arendt: una vita femminile che riesce a rendere «produttivi» i paradossi del secolo che attraversa. E il gioco di specchi tra la vita di chi racconta e la vita raccontata, che senza dubbio trapela tra le righe, riesce a tenersi distante da ogni fastidioso narcisismo. Con grande finezza vengono ritratti tutti i segni della «differenza» arendtiana: il suo essere una donna, costantemente immersa in ambienti quasi esclusivamente maschili; il suo essere ebrea, ma non praticante e non sionista, studiosa appassionata di teologia cristiana e filosofia tedesca.
Per Kristeva, insomma, tutto nella vita di Hammah Arendt, dalle opere alle scelte personali, parla dal punto prospettico di un'irriducibile estraneità. Non soltanto gioca un ruolo centrale l'esilio, che la vede a Parigi negli anni Trenta e poi a New York dal 1940. Ogni episodio della sua esistenza, persino i lineamenti somatici così precocemente invecchiati, reca tracce di una lotta, la lotta tipica di chi è costretto a strapparsi da ciò che è familiare: luoghi, abitudini, lingua.
Ecco allora che la differenza tra il semiotico e il simbolico - nucleo teorico della riflessione kristeviana - trova nel dedalo dei segni offerti dall'«universo-Arendt» una possibilità d'applicazione particolarmente promettente. Questo fa del testo non un volume di semplice «esegesi» arendtiana, che si aggiungerebbe a una produzione ormai sterminata, ma un godibile esempio di come possono interagire tra loro, in maniera intelligente e misurata, narrazione e psicoanalisi, analisi testuale e critica filosofica. Alla fine, Julia Kristeva riesce davvero a trasformare la biografia di Hannah Arendt nella testimonianza di un percorso tortuoso, sofferto, contraddittorio quanto si vuole, ma «riuscito», in quanto capace di rispondere alla chiamata del proprio daimon. Il «demone» arendtiano chiedeva già tirannicamente alla giovane ebrea di cultura tedesca di spendere l'esistenza nella ricerca del senso, nell'interminabile inseguimento di una verità: la radicale finitezza del mondo umano intessuta da una pluralità irriducibile.
In controtendenza rispetto a tante recenti interpretazioni «iperpolitiche» della filosofia arendtiana, l'autrice francese ritiene che l'interrogativo che assorbe, affatica e appassiona Hannah Arendt - dalla tesi di dottorato su Agostino a La vita della mente - sia in fondo uno solo: che cos'è diventata la vita umana; che cosa resta di essa dopo il crollo dei sistemi di riferimento normativi? Se ancora la vita ci appare il «bene ultimo», come pensarla a partire dal fatto incontrovertibile che ciò che ha accomunato e accomuna tutti gli «animali totalitari» - quelli del passato e quelli latenti - è esattamente la pulsione a renderla superflua e a distruggerla nella sua singolarità? Sarebbe infatti questa la minaccia a fronte della quale The Human Condition, l'opera del `58, intona un inno all'unicità della vita spesa nell'azione e nella narrazione (bios), di contro a una vita biologicamente riproducubile (zoe). E' la disperazione prodotta dalla storia del secolo, a far scommettere Hannah Arendt su un agire politico pensato come espressione e prolungamento del «miracolo della natalità». «Donna senza figli - ci dice Julia Kristeva - la Arendt ci lascia in eredità una versione moderna (e secolarizzata?) del legame giudaico-cristiano con l'amore per la vita, attraverso il suo canto reiterato del `miracolo della nascita', dove si coniugano la casualità dell'inizio e la libertà degli uomini di amarsi, pensare e giudicare». E' perché ci sono nascite - frutto della libertà di donne e di uomini, prima che prodotti delle combinazioni genetiche - che esiste la possibilità di essere liberi. La nostra libertà, infatti, - commenta Kristeva - non è soltanto una costruzione psichica, è la conseguenza dell'inizio come esperienza della rinnovabilità del senso.
Proseguendo in modo assai eterodosso il discorso arendtiano - in questo caso portandolo al limite del tradimento - l'autrice francese ribadisce qui la propria visione dello psichismo materno come luogo di passaggio dalla zoe al bios. Più in generale, presenta il legame con la madre - o meglio, l'incontro primario col femminile - come radice, nel singolo, della possibilità di «amore per il qualunque», condizione, in ognuno, dell'apertura verso il prossimo, verso la sua stessa fragilità. E questo varrà, conclude Kristeva, almeno fino a quando la tecnica non avrà eliminato, oltre alla novità della nascita, anche la minaccia della morte. Fino ad allora, l'unico modo per la vita umana di trascendere la propria «naturalità» sarà riposto nell'immortalità della narrazione, o nella possibilità istantanea, da parte della vita singolare, di essere «riconosciuta» dal gioco plurale delle parole e degli sguardi altrui.
Proprio sull'«enigmatica essenza» del chi arendtiano si concentrano le pagine più belle e penetranti del libro. Altamente problematica appare a Kristeva la sottovalutazione dell'espressività del corpo e della psiche nella «rivelazione» dell'identità del singolo che agisce. Per eccesso di coerenza con gli assunti della filosofia heideggeriana, Hannah Arendt si precluderebbe così la strada per una compiuta decostruzione della soggettività metafisica. Come sostenere, infatti, che la psiche è abitata in ognuno dalle stesse e identiche pulsioni? Come ignorare che anche a livello del Dna il corpo biologico è altissimamente individualizzato? Certo rifiutarsi di riconoscere la singolarità della psiche e del corpo è un gesto intenzionalmente provocatorio, la cui forza dovrebbe servire a marcare la differenza tra un soggetto che può essere tale solo se e quando agisce in mezzo agli altri e un individuo che diviene inevitabilmente un oggetto ogni volta che è preso nella rete delle funzioni sociali e dei determinismi biologici.
La nettezza di questa separazione sembra attenuarsi nell'ultima opera di Hannah Arendt, La vita della mente. La parte dedicata al Pensare, soprattutto, riuscirebbe a ridare al processo del pensiero il carattere di un'esperienza incarnata e sensibile. Tuttavia una nuova insidia teorica si ripresenta nella sezione su Volere. E' chiara, e per Kristeva anche condivisibile, la scelta nietzscheana della filosofa di contrastare una volontà, che in virtù del senso di impotenza verso il passato, si trasforma in risentimento, a sua volta foriero di appetito di vendetta e sete di dominio. Se, per sospendere l'accanimento contro il tempo, la risposta di Nietzsche è l'oblio, quella arendtiana è il perdono. Tuttavia, come è possibile per «qualcuno» perdonare, se si trova privato della sua interiorità psichica? E' ancora una volta il medesimo desiderio arendtiano di negare la profondità della psiche a rilanciare una libertà del tutto svincolata dalla volontà e abbandonata alla dinamica plurale dell'«io posso». Ma, si chiede polemicamente Julia Kristeva, il potere politico, quand'anche separato dal dominio, può davvero fare a meno dell'intenzionalità della volontà? Nella sua ricerca di un fondamento non soggettivistico della politica - polemico tanto nei confronti del marxismo quanto dell'esistenzialismo francese - Hannah Arendt non solo non risolve, ma nemmeno affronta queste aporie.
Secondo l'autrice francese, auspicare il perdono al posto della vendetta risentita, puntare sul legame della promessa invece che sul controllo del dominio, significa lasciar emergere, filosoficamente, le risonanze cristiane della formazione giovanile. E insieme a questa eredità, mai esplicitamente ammessa da Arendt, verrebbe alla luce la negazione - in senso propriamente analitico - su cui regge l'intero edificio arendtiano. Hannah Arendt avrebbe avuto bisogno, per continuare a vivere, ad agire e a pensare, di «attaccarsi» alla possibilità che da qualche parte - al di là forse delle singole persone concrete - e in qualche modo - al di fuori delle parentesi totalitarie - il «senso comune» rimanga «sano». Era questa già la tesi di Lyotard che Kristeva sviluppa rintracciandone i segni palesi. «Non è la lingua tedesca che è impazzita!»; perché Hannah Arendt ripete così spesso e ansiosamente questa affermazione? Come ad esempio nella bellissima intervista con Gaus (confronta Archivio Arendt 2. Feltrinelli, 2003). Perché, per quanto abbia genialmente ripensato alla vita come alla possibilità del miracolo dell'inizio, Hannah Arendt non è riuscita ad ammettere fino in fondo che in ogni cosa - sia essa la lingua, l'umanità, la madre, il padre, ogni singolo, persino l'essere - è racchiusa la sua possibilità di non essere. Resta, tuttavia, l'unica filosofa, non a caso una donna, che ci ha offerto un pensiero dell'inizio come possibilità per ciascuno di rilanciare la questione del senso della propria vita.
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Insurrezione Domestica
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una Saturday, Mar. 18, 2006 at 7:07 PM |
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«Il movimento delle donne ha lunghe pause - ha scritto una volta Rossana Rossanda - Penso che siano pause davanti a un vuoto che vedono, non pause d´indifferenza. C´è la inarticolatezza dei bambini e il silenzio di alcune persone molto anziane e non disposte a dare alle domande sul senso delle vita troppo facili risposte. Il movimento femminista non è nato giovane; sa secoli di cose, e ne è spesso atterrato». Altrettanto spesso, verrebbe da aggiungere dopo la giornata di ieri, si risolleva e ritorna visibile. Ma quasi sempre a sorpresa.
Più che alla politica o alla vita pubblica di un paese, questa andatura ciclica appartiene probabilmente alla vita. Resta da chiedersi quante, delle donne scese in piazza a Milano e a Roma, l´avevano fatto pure trent´anni orsono. E a questo punto magari anche valutare, con pacatezza, la perenne attualità di quello slogan: «Tremate, tremate - diceva - le streghe son tornate». Classica minaccia gioiosa e beffarda, come si ricorderà, accompagnata da cappellacci neri e fiocchi rosa, scopettoni e nastri d´argento, maschere e aquiloni; e quei gesti, quei «segni» così spudoratatamente primordiali, le mani alzate sopra la testa, i pollici e gli indici che si univano a significare l´organo sessuale femminile. Cortei colorati, serpentoni di gonne a fiori che attraversavano le città senza metterle - come allora succedeva con qualche frequenza - a ferro e fuoco.
Alla fine di novembre del 1976 ventimila donne si diedero appuntamento alle otto e mezzo di sera a piazza Esedra, vicino a quella Stazione Termini che rappresentava la zona più mal frequentata e quindi più pericolosa della metropoli. Si trattava appunto di «riprendersi la notte». Diretta a piazza del Popolo, la fiaccolata femminista fece rapida sosta davanti al cine-teatro "Volturno", rinomato ma triste luogo di strip-tease, per strapparne le locandine. Quindi si riversò allegramente a piazza del Popolo, sparpagliandosi in piccoli spettacoli e girotondi. Racconta Giampiero Mughini ne «Il grande disordine» (Mondadori, 1998) che un cerchio si chiuse attorno al giornalista Giuliano Zincone, che ne ebbe un po´ paura: «Era la prima volta che mi vedevo considerato avversario di un movimento che dall´esterno avevo sempre fiancheggiato».
Commentò l´indomani Lietta Tornabuoni: «E´ una marcia indetta per esigere non si sa da chi qualcosa che nessuno può dare. Nello slogan "riprendiamoci la notte" si esprimevano infinite esperienze mortificanti, limitanti e anche paurose vissute da tutte le donne». Vero. Così come era vero che in quella come in tante altre manifestazioni sull´aborto, aperte o separatiste che fossero, non ci fu mai nessuna tensione.
O meglio: una volta, nel dicembre del 1975, per un «malinteso» a proposito del separatismo alcune donne di Lotta continua vennero aggredite e malmenate dal servizio d´ordine dell´organizzazione. Ma proprio questo episodio innescò il processo di autodistruzione del gruppo. Quando, nel 1977, Simon de Beauvoir venne a Roma volle informarsi: «E´ vero che le femministe hanno abbandonato Lc perché si trovavano oppresse?». Sì, le risposero quelli del giornale, «se ne sono andate quasi tutte». «Quindi eravate oppressori...». «E già - le risposero - ma da quando sono uscite, i nostri rapporti con loro sono molto migliorati».
Il sospetto è che questa specie di insegnamento è valso per qualche milione di italiani le cui mogli, figlie, sorelle e fidanzate scesero allora in piazza a gridare slogan che suonavano del tutto incendiari sul piano della costruzione del senso comune. Uno, forse il più giocherellone, pur nella sua drammaticità, recitava: «Col dito, col dito/ orgasmo garantito!». E proseguiva, crudamente: «Col cazzo, col cazzo/ orgasmo da strapazzo!». Un altro slogan, sempre in un modo che a quei tempi cupi suonava eccezionalmente creativo, faceva: «Finalmente siamo donne/ non più puttane, non più madonne». E rivolgendosi ai maschi, o almeno ai più brutali fra loro: «La vostra violenza/ è solo impotenza». E infine rivolgendosi a se stesse: «Io sono mia - era la premessa - e la liberazione non è un´utopia».
Diverse voci (22 donne di Forza Italia, l´onorevole Volontè, dell´Udc, il Movimento per la Vita) hanno ieri richiamato gli anni settanta. Per deplorarli: con qualche semplicismo, tuttavia. Perché è difficile, su due piedi, e forse è perfino impossibile stabilire che cosa è stato e cosa ha rappresentato in quel periodo il movimento delle donne. C´è un bel volume a più voci appena uscito, «Il femminismo degli anni Settanta», a cura di Teresa Bertilotti e Anna Scattigno, libreria editrice Viella, pieno di spunti ed erudite riflessioni.
Ma certo, dietro a quegli slogan, c´era tutto un mondo vitale. C´era una storia antichissima, come la intende la Rossanda; c´era una fantasia, una rabbia, un´ansia di legittimazione; c´erano madri fondatrici e intellettuali di vaglia, pratiche e problematiche, luoghi di ritrovo, riviste, librerie, case editrici. Mentre negli anni settanta gli uomini si pestavano e si scomunicavano gli uni con gli altri appresso al potere e alle ideologie, le donne - o meglio: certe donne - riversavano o almeno cercavano di riversare nella dimensione pubblica la centralità del corpo, la sessualità, la vita affettiva, il subconscio, le relazioni d´autocoscienza.
In qualche modo c´era, dietro quegli slogan degli anni settanta, un pezzo di futuro. Magmatico, a tratti superbo e incomprensibile come quello di chi vuole ricostruire il mondo, ma a suo modo profetico. Un´insurrezione domestica, intima, sotterranea; forse proprio per questo più riuscita di tante altre.
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frammenti
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A Monday, Mar. 20, 2006 at 2:15 PM |
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questo è un frammento della mia storia, niente citazioni niente favole.
La prima volta che sono andata a letto con un uomo nella mia vita sono stata violentata. Da un uomo di 28 anni. Lo sapevo dentro di me che sarebbe successo. Lo sapevo anche se poi non l’ho impedito. E si riannodano i frammenti del passato, da bambina, quando mio fratello mi faceva entrare nel letto per spogliarmi e mettermi le mani addosso; quando una notte dormivo con mio padre e lui mi ha baciata, pensando che fossi la sua donna del momento; quando avevo dodici anni, e l’uomo di mia madre continuava ripetutamente a mettermi le mani nelle mutande ed io mi ostinavo a credere che fosse solletico.. “è ora che impari il piacere”. A quattordici anni ero ancora una bambina. E lavoravo. Perchè nella mia casa mi è stato inculcato questo senso del dovere, di miseria, perché dovevo aiutare la famiglia. E questa persona che mi ha violentata era il mio datore di lavoro. M. Poi è arrivato l’ospedale psichiatrico. I sonniferi. I dottori. L’insonnia. Ci si rimette in piedi o si soccombe. Io mi sono rimessa in pedi e dopo quattro anni accadde di nuovo. Appena maggiorenne questa volta. La seconda infame violenza che ho subito. La peggiore. La più infame. Quella che mi ha portato definitivamente via dalla mia città. C. si chiama questa persona. La cosa grave è che questa persona era un “compagno”. Sto raccontando un frammento di storia che mi sono ripetuta talmente tante volte, che ora mi sale la nausea. Proprio così, la nausea. Posso non resistere a un bacio. Posso aver voglia di dare un bacio. Posso non volere niente di più. “No!” l’ho detto tante volte. Ma non è bastato. Anche qui è colpa mia. Anche qui non l’ho impedito. Mi sentivo come morta, cercavo di portare anima e spirito dal mio corpo, di non essere davvero lì. Non riuscivo a credere che mi accadesse di nuovo. E questo giro non sono riuscita ad opporre resistenza perché davvero non credevo che stesse accadendo veramente. Da una persona che conoscevo così bene, da un compagno. Mi ha tolto il sonno per mesi. Per un altro anno non sono stata capace di fare l’amore con nessuno. E ancora adesso mi capita di tremare nel letto a pensarci, di avere i conati sapendo che non posso liberarmene. Io la penso così: se una è tremenda e grave, la seconda lo è ancora di più. Soprattutto se arriva da una persona che mette a questo punto in discussione tutti gli equilibri che mi sono ricostruita lavorando disperatamente su me stessa.. Non sono né la prima né l’ultima donna a cui succede di essere violentata, non sono l’unica a cui è capitato di crescere nella perenne violenza sessuale, che sia più “grande” o più “piccola”. Non me la sono sentita nessuna delle due volte di fare denuncia, legale o pubblica, perché il senso di morte che ti lascia va al di là di ogni immaginario, perché anche se adesso è un reato punibile legalmente come reato contro la persona, non mi appartiene l’idea di mandare in carcere chicchessia. Questo non vuol dire che non abbia mai provato un sentimento di vendetta, ma una violenza così forte che comunque condiziona ancora oggi la mia quotidianità mi porta solo a desiderare una vendetta più atroce della galera. Per anni ho sognato questi uomini, di incontrarli per la strada, di strappargli gli occhi. Li sognavo mentre li picchiavo, fino a fargli sputare i denti, fino a farli morire ogni notte di una morte diversa sempre più atroce. Poi con gli anni ci si abitua anche a questa sensazione di disequilibrio e di morte interiore, la rabbia si consolida come sensazione “normale” e si entra in una apatia che ti permette di non sentirti vittima, ma di andare avanti. Perché o si reagisce anche a questo o si muore e basta. Mi sono anche convinta che la colpa sia mia, per non essere riuscita ad impedire che mi violentassero. Ora non è più questione di colpe o non colpe. È solo questione di riuscire a guarire, perché queste esperienze si legano al sangue come una cancrena, distruggendoti lentamente dall’interno se non hai dentro di se un forte spirito di sopravvivenza. Forse è proprio questo che mi tiene sospesa, che mi lascia ancora spazio per sorridere, e accettare che andare a letto con un uomo è assolutamente un desiderio normale, piacevole.
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[Stupri e sentenze] sempre peggio...
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un* Saturday, Apr. 01, 2006 at 1:34 PM |
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VIOLENZA SESSUALE: GIUDICI, MENO GRAVE SE CONTESTO DEGRADATO
Un reato di violenza sessuale puo' essere punito meno severamente se viene commesso in un contesto ambientale degradato. A pensarla cosi' sono stati i giudici della corte d'appello di Roma che hanno concesso le attenuanti generiche e applicato uno sconto di pena a due imputati accusati di aver violentato nel '98 e nel '99 una ragazzina prima e dopo il compimento dei suoi 14 anni. Nelle motivazioni della sentenza, conclusasi con la condanna di G.N. a un anno e mezzo di reclusione e di G.C. a due anni ("per la maggiore gravita' degli atti di libidine compiuti"), il collegio, presieduto da Afro Maisto, ha ricordato che "le degradatissime condizioni di vita nell'ambiente in cui i fatti sono maturati non coinvolgono, evidentemente, soltanto la parte offesa e sua madre ma anche gli stessi imputati, ai quali non possono essere negate le attenuanti generiche". Una valutazione, questa, ignorata dal tribunale che nel maggio del 2003 aveva inflitto sei mesi in piu' di carcere a G.N. (all'epoca convivente della madre della ragazza, poi costretto a lasciare la casa dopo la denuncia alla magistratura) e un anno in piu' a G.C., marito della donna cui la ragazzina si era rivolta per confidarle di essere stata oggetto in piu' occasioni di attenzioni di natura sessuale. Il tribunale si era pronunciato per la colpevolezza degli imputati ritenendo attendibile e dettagliato quanto raccontato in dibattimento dalla vittima, costituitasi parte civile attraverso l'avvocato Domenico Battista, dalla madre e dal personale della Cooperativa "Arca di Noe'" che aveva prestato assistenza alla famiglia, assai disagiata sul piano economico, sociale e psicologico.
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le attenuanti
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V Monday, Apr. 03, 2006 at 12:52 PM |
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v@email.it |
Abbiamo letto forse distrattamente che le due bestie che hanno ripetutamente violentato una bambina hanno ricevuto uno sconto di pena grazie alle condizioni precarie in cui tutto il gruppo di persone viveva.
Due considerazioni mi vengono su come un conato di vomito. La prima, le condizioni "precarie e disagiate", leggi povertà e ignoranza, servono a scontare mesi o anni di galera a due stupratori di bambine: invece, lo stupro di una bambina non aggrava la loro posizione di adulti violenti. Ma la "colpa" di quelle condizioni disagiate non è solodi chi la vive, ma anche del Paese e del Governo che scientemente smantella e terziarizza (facendo scadere la qualità e le professionalità di chi vi opera) i servizi sociali, scolastici, di supporto alle persone in difficoltà. La seconda, e provo vergogna a scriverlo, è che se è questo il livello della giustizia e questi i principi che essa difende, non possiamo strapparci le "candide vesti" quando massacrano a badilate un bimbo di un anno e mezzo. Se permettiamo la violenza fisica e no sulle donne, sulle bambine, sulle persone più indifese (giovani o meno, italiani o stranieri), se nessuno scende più in piazza per dire "vaffanculo, non voglio vivere così" non possiamo davvero lamentarci più. Chi tace ha torto.
Ecco perché stamattina, aprendo giornaqli e siti, mi sono vergognata di non trovare uno straccio di iniziativa pubblica, corteo o manifestazione, contro la violenza sui più deboli.
ciao
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che cos'é la violenza sessuale?
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hux73 Wednesday, May. 03, 2006 at 5:09 PM |
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yuohf98@ |
La violenza sessuale dovrebbe essere perseguita d'ufficio, senza una ufficiale denuncia della vittima. La stessa cosa dovrebbe accadere per i reati di mafia e per le associazioni a delinquere finalizzate alla riduzione in schiavitù. In riguardo alla legge sulla violenza sessuale vorrei, tuttavia, fare una osservazione. Nella maggior parte dei casi sono le donne vittima di questo turpe reato. Ma i casi in cui sono vittime gli uomini? Come mai non sono contemplati? Se una donna denuncia un uomo per violenza sessuale quest'ultimo, anche se innocente, nella stragrande maggior parte delle volte finisce in galera perché la donna è ancora considerata, secondo i canoni del vecchio femminismo anni '70, il "sesso debole". Sono tantissimi i casi in cui la donna denuncia un uomo per violenza sessuale senza alcuna base di fondo, soltanto per cattiveria, per ripicca, per minaccia o per estorcergli denaro. E tutti quei casi in cui gli uomini vengono picchiati, maltrattati, percossi ed umiliati dalle loro compagne o mogli senza potersi difendere, per evitare di essere incriminati di maltrattamenti verso il "sesso debole"? E la violenza sessuale..che cosa è? Sapete dare una definizione precisa? Se una donna è consenziente all'atto sessuale e MENTRE avviene l'atto sessuale cambia idea improvvisamente..cosa succede? L'uomo diventa improvvisamente un violentatore? Voi mi risponderete che le donne sono vittime degli uomini stupratori, che infibulano le donne in Africa o che hanno violentato le mogli quando le famiglie erano patriarcali.. Un messaggio alle femministe: smettetela di parlare di argomenti che richiamano alla lontananza nello spazio e nel tempo. Noi non viviamo nell'Africa delle infibulazioni e neanche nella società del patriarcato. Questa tecnica di parlare di cose lontane nel tempo e nello spazio è tipica degli adepti alle sette che, quando gli fai una domanda specifica, non sanno cosa rispondere allora si attaccano a parlare a cose che non ci entrano niente, lontane nel tempo e nello spazio. Un richiamo, invece alle donne in politica... E' vero che ci dovrebbe essere una maggiore presenza femminile nel Parlamento.. Ma quelle donne che nel Parlamento ci sono entrate... che cosa hanno fatto? Daniela Santanché è entrata in Parlamento ma non ha detto una parola quando il suo capo di partito, Gianfranco Fini (Alleanza Nazionale), ha approvato la legge Bossi-Fini che rende "criminali" le donne che sono state vittima della tratta degli esseri umani ed obbligate a prostituirsi sulle strade (oltre ad essere violentate dai loro sfruttatori), soltanto perché gli sfruttatori stessi le avevano sottratto il passaporto e, quindi, prive di documenti, risultavano "immigrate clandestine".. Forse alla Sig.ra Santanché fa comodo avere una immigrata clandestina anche in casa, magari una colf ucraina, che può governare la casa senza chiedergli troppi soldi e senza pagargli i contributi...
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i falsi compagni
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hux73 Wednesday, May. 03, 2006 at 5:53 PM |
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youof98@tin.it |
Quando si parla di "compagni" bisogna capire bene a chi ci si riferisce. Ci sono giovanotti che appartengono al "mondo bene", come si suol dire, che per "portarsi a letto" (utilizzo un eufemismo) una bella ragazza che frequenta un pub o un luogo di ritrovo per comunisti (o per gente povera), si mettono una sciarpa a quadretti sul collo, si fanno crescere i capelli rasta e si iniziano a professare "compagni" per entrare nell'ambiente e conoscere la ragazza. Dopo che hanno indotto questa ragazza a fumarsi qualche spinello e, creata la dipendenza dalla droga, magari anche a provare qualcosa di più forte tipo il crack o la cocaina, la stordiscono e la violentano. Il problema è che i veri comunisti ci vanno di mezzo e vengono disonorati, nella loro dignità, per colpa di questi balordi. Io difendo i "veri compagni"..
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