appello a Chi gestisce indy
NON "CONGELIAMOLO"
NON FACCIAMOLO MORIRE!
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Antagonisti in crisi d’identità Per Indymedia l’ora dell’addio
JACOPO IACOBONI TORINO Alle quattro di una domenica grigiolina, nello stanzone dell’Asilo occupato, nove ragazzi stanno, come dicono loro, «downloadando», tirando giù il report finale degli stati generali di Indymedia. «Kaos», in Indy ci si chiama coi nickname anche quando si è faccia a faccia, sta scrivendo la più pazzesca delle autocritiche di gruppo: «Indymedia è uno strumento fondamentale che ormai non funziona più. Questo però non è un limite suo, è un limite del movimento. È il movimento a essere litigioso, cazzaro, asociale e alienante, spesso». Spesso o sempre? Il futuro è in questo dilemma: chiudere oppure «chiudere per rinascere»? È tutto finito, bambina, cantava Bob Dylan. Lui chiuse per ricominciare.
Indymedia, il più importante network della sinistra radical italiana, rischia di chiudere e basta. Nella migliore delle ipotesi deve cambiare, e ha davanti la stessa sofferenza che ha chiunque cambia strada: rompere col passato, rassicurante ma esaurito, e incamminarsi verso l’ignoto, nuove amicizie, nuovi amori, nuovi progetti politici, la correzione della nostra stupidità di ragazzi. «Siamo tutti più vecchi», dice Antonio, storico militante del Gabrio, ora a Genova a lavorare nel supporto legale del dopo-G8. Tutti meno disposti a farsi etichettare come quelli che turbano la quiete pubblica, o come eterni bambini ammalati di radicalismo. «Se Indymedia diventa sfogatoio per slogan folli su Nassiriya, un po’ è colpa anche nostra», dice Elektrico. Indy è in crisi innanzitutto per questo: è in crisi di identità.
I soldi che mancano Poi sì, ci sono tanti guai materiali. Indy rischia di chiudere per due motivi. Uno, non ha più una lira e il server americano (nome in codice Jeff) non è disposto più a ospitarlo. All’assemblea dell’Asilo Jeff ha fatto arrivare un messaggio: «Ho fornito servizio di hosting a Indymedia per qualche anno, come hanno fatto altri: calyx, community colo, riseup, eccetera. Ho deciso di interrompere questo servizio». Indy, si scopre adesso, spende da un minimo di 10mila euro all’anno a un massimo di 36mila. E i soldi non ci sono più. «In passato arrivavano soprattutto dal network internazionale», racconta uno dei fondatori, una cinquantina di ragazzi che nel ‘99 inaugurarono il nodo italiano. Diversi di loro erano del Gabrio; altri di Askatasuna, o dell’Asilo, tendenza anarchica. Ora il network globale finanzia molto meno; anche da aree tradizionalmente simpatizzanti, come Indy venezuelana, i rubinetti si sono chiusi. E infatti una delle proposte è rilanciare una grande campagna di finanziamento, cene, concerti, vendita di magliette. Quella che s’acquista all’Asilo, fornita dal nodo Indy di Torino, potrebbe essere l’ultima, dunque è un cimelio: nera, col brand (((i))) in bianco in basso a destra, e dietro la scritta: «Do it yourself publish». Pubblica da te.
I post deliranti Era questo, in principio, il sogno. Fare da sé. Ma il progetto politico che c’era nel ‘99 adesso non c’è più, e Indymedia - da luogo mito dell’informazione orizzontale, l’open publishing - è diventato, come dice Kaos a nome della comunità, un refugium peccatorum: «Il 70% dei post sono repost da media mainstream, il 20% comunicati di movimento, il 10% stronzate di pazzi invasati. Non lo era, ma è Indy è diventata una triste bacheca di movimento». «Avevamo creato un gioiello», constata la bionda ragazza torinese che ora vive a Genova, mentre passeggia e si ferma a guardare l’amaca viola dentro il cortile interno dell’Asilo, accanto a due moto e un moto-triciclo. Qui, in questa scuola per bambini di tradizione ultrasabauda, si muore per rinascere come l’Araba fenice. Non più slogan dementi contro Israele, basta coi post scritti da sbandati, persino l’ipotesi di creare un filtro anti-boiate, sul modello di quello che già fanno in Nord America, o Indy di Madrid. Poi «dovremmo tornare per strada, spiegare cosa è Indy, come la si fa, perché abbiamo scelto di farla così»...
I sogni abortiti «Sette otto anni fa, prima di Praga, Napoli, e poi della tragedia alla scuola Diaz, sembrava che Indy potesse essere l’espressione più naturale di un movimento che s’espandeva, e credeva che un altro mondo fosse possibile», dice la ragazza. Adesso c’è come una sensazione di festa finita e di nausea, la sensazione di quando ti svegli dopo aver bevuto troppo la sera prima. All’ingresso dell’Asilo, sulla destra, tre carrelli di supermercato accanto a due biliardini sono pieni di bottiglie vuote, ciò che resta di due notti in cui il sogno è sembrato potesse persino rinascere. Di giorno, tutto è dannatamente più difficile.
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