Contro quella mobilitazione il Partito nazionale fascista preparò una risposta armata in grande stile: con la connivenza di esercito e pubblica sicurezza, le squadre nere ebbero mano libera (quando non addirittura aiuto logistico e militare) nel reprimere la protesta dei lavoratori. Così, i capi socialisti e i leader dell’Alleanza del lavoro tornarono immediatamente sui propri passi e dichiararono la fine della mobilitazione, dando il via a nuove e più cruente violenze e aggressioni.
Lo “sciopero legalitario”, dunque, pur andando incontro alla volontà di lotta di ampi settori del proletariato italiano, fallì miseramente per il tatticismo e l’indecisione dei dirigenti socialisti. Dal 3 agosto, tuttavia, in alcune zone la mobilitazione si trasformò in una disperata resistenza contro le camicie nere di Mussolini. Scontri si ebbero nei quartieri popolari di Ancona, Brescia, Milano, Bari, Genova, Livorno e, soprattutto, Parma. In tutte le città, salvo quest’ultima, le spedizioni punitive terminarono con devastazioni di circoli, cooperative, sindacati e giornali operai, con dimissioni di amministrazioni comunali e pestaggi e uccisioni di esponenti e dirigenti dell’antifascismo. Nella città emiliana, invece, i fascisti si scontrarono per tre giorni con gli operai armati dei rioni dell’Oltretorrente e del Naviglio e dopo duri combattimenti la loro sconfitta fu completa.
I lavoratori di Parma avevano risposto compatti allo sciopero generale, e forti delle tradizioni locali del sindacalismo rivoluzionario, mostrarono ancora una volta una grande combattività. Dal giugno 1921, poi, nei rioni del capoluogo e nei paesi della sua cintura, operava la rete armata degli Arditi del popolo, animata dal deputato socialista Guido Picelli, in contatto con l’organizzazione nazionale tramite Giuseppe Mingrino. Per oltre un anno le squadre di arditi respinsero gli attacchi dei fascisti e ogni loro tentativo di radicarsi nel tessuto sociale della città popolare. Di fatto, nei rioni operai, gli arditi di Picelli finirono per costituire una sorta di contropotere armato tanto verso le forze dell’ordine della monarchia quanto verso gli uomini di Mussolini. L’organizzazione arruolava operai e contadini ex-combattenti della Grande guerra ma anche giovani lavoratori con alle spalle l’esperienza delle “guardie rosse” del 1919-20 e tutti coloro che, “senza distinzione di partito”, fossero disposti “a combattere risolutamente le orde avversarie” e osservassero la più “stretta disciplina” (art. 2 dello Statuto degli Arditi del popolo di Parma).
Nell’agosto 1922, dunque, entrambe le parti erano pronte: da un lato i fascisti, che finirono per mobilitare nella spedizione sulla città emiliana quasi 10 mila uomini, organizzati e diretti da Italo Balbo, arrivato a Parma da Ferrara per ordine della Direzione nazionale del Partito fascista; dall’altro i lavoratori e le famiglie dei quartieri più poveri della città, che sostennero senza riserve la resistenza degli Arditi del popolo. “Sono convinto – rifletteva Balbo durante i giorni dei combattimenti – che la partita che si sta per giocare supera come importanza tutte le precedenti. Per la prima volta il fascismo si trova di fronte un nemico agguerrito e organizzato, armato ed equipaggiato e deciso a resistere a oltranza” (Diario 1922, Mondadori, 1932).
Gli scontri durarono tre giorni. La popolazione dell’Oltretorrente e del Naviglio asserragliata dietro le barricate respinse, uno dopo l’altro, gli attacchi delle truppe fasciste che occuparono il centro borghese della città, compiendo devastazioni e saccheggi ai danni di notabili democratici. Dietro le fortificazioni improvvisate, agli ordini di Picelli, resistettero, fianco a fianco, socialisti e comunisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari, repubblicani e giovani cattolici in dissenso dalle direttive del Partito popolare che li invitava a rimanere neutrali. Nel corso degli scontri morirono cinque uomini tra i popolani e numerosi furono i feriti su entrambi i fronti.
Dopo un ennesimo tentativo di sfondare le trincee dell’Oltretorrente, fallito, all’alba del 6 agosto il comando militare di Balbo decise di abbandonare la città. La smobilitazione fu attuata frettolosamente dopo un compromesso con le autorità militari, che si impegnavano a dichiarare lo stato d’assedio. Tale soluzione mostrava l’evidente sconfitta dell’operazione repressiva del fascismo, incapace di penetrare nei
quartieri controllati dagli insorti. Simbolo di questo esito politico e militare, fondato su una strategia non solo difensiva ma anche aggressiva, i colpi di pistola indirizzati a Balbo nel momento in cui lasciava Parma: “I sovversivi – scrisse il comandante fascista – mi hanno dato il saluto delle armi sparando colpi di rivoltella contro la mia automobile davanti all’albergo. Ci siamo lanciati all’inseguimento, ma gli sparatori sono riusciti facilmente a dileguarsi”.
Una volta partiti i fascisti, i soldati vennero accolti nei borghi popolari al grido di “Viva l’esercito proletario!”, vino venne versato ai militari che si erano rifiutati di aiutare la repressione e la gioia e l’entusiasmo esplose in ogni strada. Nei giorni successivi le barricate vennero rimosse e la situazione tornò alla normalità. Ma anche quando alla fine di ottobre, con la marcia su Roma e l’incarico a Mussolini di formare il governo regio, finiva l’epoca dello stato liberale e iniziava quella del ventennio fascista, gli arditi di Parma non smobilitarono ma continuarono la vigilanza armata tentando di mettere a frutto sul piano nazionale l’esperienza vittoriosa.
Alla base del successo antifascista vi furono numerose ragioni, sociali e politiche, ma sicuramente tre furono determinanti. Innanzitutto i fatti dell’agosto 1922 si inserivano in una radicata tradizione di lotte dei quartieri popolari della città che, per la stessa conformazione urbanistica, erano qui più compatti e isolati che altrove. Parma, infatti, è attraversata da un torrente che la divide in due parti. Almeno fino agli Trenta, il corso d’acqua non era solo un confine topografico, ma sociale, culturale e politico: a est del torrente si ergeva la “Parma nuova”, la città storica, centro economico e finanziario, abitata dalla media e alta borghesia in signorili palazzi con strade larghe ed eleganti; viceversa verso ovest, nella “Parma vecchia”, la città si mostrava degradata e miserevole, qui trovavano sede le case e le osterie buie e strette degli operai, dei lavoratori a giornata, dei piccoli artigiani e del sottoproletariato. In Oltretorrente, così come nel Naviglio (che sorgeva a ridosso dello scalo merci ferroviario e della nascente zona industriale), il movimento operaio aveva gettato forti radici. La popolazione di questi borghi aveva partecipato al grande sciopero bracciantile del 1908, ma già nella seconda metà dell’Ottocento aveva mostrato un indomabile spirito di ribellione verso l’autorità statale, con numerosi tumulti e sommosse. Uno dei metodi di lotta, quasi “abituale”, della gente dell’Oltretorrente, infatti, era la difesa del proprio quartiere con lo sbarramento dei borghi stretti e torti, con il lancio di pietre nelle strade e di tegole dai tetti: una naturale autodifesa dall’esercito regio e dalle forze di polizia, visti come corpi estranei e ostili alla comunità. La rete degli Arditi del popolo era anche espressione di questa cultura popolare: per i lavoratori dei borghi, insomma, costruire sbarramenti e trincee nel 1922 significò ripetere un consueto gesto di difesa dagli “sgherri” a protezione della propria comunità.
Peraltro, nel dopoguerra, sotto l’impulso della Rivoluzione d’ottobre e dopo i sacrifici nelle trincee del grande conflitto mondiale, le masse proletarie nutrivano profonde speranze per la propria emancipazione. Sta qui la seconda ragione della vittoria antifascista. Nella rivolta di Parma l’esperienza “tecnico-militare” della guerra trovò un ampio utilizzo nella difesa operaia. Le fotografie di quei giorni mostrano numerosi lavoratori con gli elmetti e le decorazioni conquistate in trincea, i borghi sono chiusi con tecniche militari, filo spinato e picchetti, fossati e parapetti, le armi sono quelle portate a casa dal fronte. “In poche ore – scrisse Picelli anni più tardi – i rioni popolari della città presentarono l’aspetto di un campo trincerato. La zona occupata dagli insorti fu divisa in quattro settori… Ad ogni settore corrispose un numero di squadre in proporzione alla sua estensione… Ogni squadra era composta di otto-dieci uomini… Tutte le imboccature delle piazze, delle strade, dei vicoli, vennero sbarrate da costruzioni difensive. Nei punti ritenuti tatticamente più importanti i trinceramenti furono rafforzati da vari ordini di reticolato e il sottosuolo venne minato. I campanili, trasformati in osservatori numerati. Per tutta la zona fortificata i poteri passarono nelle mani del comando degli Arditi del popolo, costituito da un ristretto numero di operai, in precedenza eletto dalle squadre, fra i quali fu ripartita la direzione delle branche di servizio: difesa e ordinamento interno, approvvigionamenti, sanità” (La rivolta di Parma, “lo Stato Operaio”, ottobre 1934). Dall’esperienza della guerra, dunque, gli operai acquisirono la scienza bellica borghese e la trasformarono in arma contro le forze della reazione.
La terza ragione della vittoria parmigiana sta nella linea politica espressa da Picelli e dagli uomini a lui vicini. Nato e cresciuto nell’Oltretorrente, durante il conflitto Picelli era stato decorato al valor militare e, nel
dopoguerra, aveva assunto la carica di segretario della Lega proletaria dei reduci, vicina al Psi. Grazie ai voti del quartiere era diventato deputato nelle elezioni del 1921 e così aveva lasciato il carcere, dove era detenuto da quasi un anno per una manifestazione contro l’invio di granatieri italiani in Albania. Anche da onorevole continuò a vivere e frequentare i rioni proletari, le osterie e le sedi politiche e sindacali di “Parma vecchia”. Picelli divenne il dirigente conosciuto in tutti i borghi, rispettato per la coerenza e il coraggio, apprezzato soprattutto per la sua proposta di unità del movimento operaio contro il fascismo.
In quel periodo, nella città emiliana, vi erano tre centrali sindacali, in polemica l’una con l’altra, e le forze politiche erano in altrettanto dissidio tra socialisti e comunisti, anarchici e corridoniani, popolari e repubblicani, divisi sia nell’analisi del fascismo che nel metodo per combatterlo. In questo contesto, Picelli propose una strategia di lotta unitaria: “Al fronte unico borghese, bisogna opporre quello proletario. Solo con l’unità avremo il sopravvento, poiché è indiscutibile che noi siamo una forza, forza che non s’impone oggi, solo perché divisa in tanti piccoli raggruppamenti in disaccordo fra di loro. Ma l’unità propriamente detta, non si ottiene certo nel campo politico, né si può pretendere che, chi segue un determinato indirizzo, faccia rinuncia delle proprie idee. No. Ognuno rimanga quello che è, fedele ai propri principii. È sul terreno economico che si deve scendere. Creare l’unione di tutte le forze divise e disperse, sulla base di un accordo, che miri ad un solo obiettivo e per quel fine che è a tutti comune: libertà e difesa della vita. Quando la reazione infuria e fa strage, quando il delitto elevato a sistema è ammesso dalla complicità del governo e dalla magistratura, quando la miseria costringe alla fame famiglie intere, quando le galere rigurgitano di proletari innocenti, quando ogni diritto è calpestato e tutti indistintamente, socialisti, comunisti, sindacalisti ed anarchici, sono sotto il continuo, incessante martellamento e sottoposti allo stesso martirio, colpiti dallo stesso bastone, occorre far tacere le passioni di parte, finirla con le accademie e le discussioni inutili, su questo o quell’indirizzo politico… La borghesia non si divide e non discute, uccide senza pietà” (Unità e riscossa proletaria, Tipografia Pelati, 1922).
Il dirigente degli arditi parmensi era consapevole che il fenomeno fascista rappresentava lo strumento repressivo del padronato, così come era certo che il movimento operaio avrebbe potuto salvarsi dalla reazione solo rispondendo colpo su colpo. Era la fase storica della lotta di classe che necessitava di una tale organizzazione: “Al proletariato occorre un nuovo organo di difesa e di battaglia: ‘il suo esercito’. Le nostre forze devono inquadrarsi e disciplinarsi volontariamente. L’operaio deve trasformarsi in soldato, soldato proletario, ma ‘soldato’”.
La proposta di un antifascismo unitario aveva in Picelli una chiara connotazione di classe e veniva accompagnata da una durissima critica ai dirigenti riformisti: “Chi oggi crede ancora o vuol far credere di poter trovare la via d’uscita con la semplice azione morale o si illude o tradisce”. E ancora: “Collaborare con la borghesia è offrire la testa al boia. Sappia quindi il popolo martoriato trovare in sé solamente le forze per difendersi, poiché non rimane ad esso altra via”. Con questa politica gli operai dell’Oltretorrente e del Naviglio trovarono l’unità e vinsero, ma l’esperienza dell’agosto di Parma arrivò troppo tardi. Poche settimane dopo il fascismo salì al potere. Tuttavia, nel buio del regime, quella vittoria diventò presto un racconto epico, una leggenda popolare densa di alterità e di antagonismo pronta a riemergere.