Erano immaginabili i rischi che una mostra antifascista, organizzata all’aperto, senza protezione, con installazioni ben visibili in strade e piazze, avrebbe potuto correre. Eppure, nonostante questi possibili pericoli, la scelta è stata quella di trasmettere quel passato non solo rifiutando la retorica delle orazioni ufficiali ma uscendo dalle stanze ovattate e protette di chi in quella memoria già si riconosce.
Da almeno una ventina d’anni, infatti, la memoria dell’antifascismo e della lotta partigiana è sotto attacco, vittima di un’aggressione molto più sottile e pericolosa rispetto a quella dei decenni precedenti, quando era soprattutto la cultura neofascista ad avversarla. Con la crisi della Prima repubblica e dei partiti democratici che ne governavano il sistema politico, l’offensiva contro l’antifascismo si è fatta, purtroppo, efficace. Al di là della retorica dei discorsi d’occasione, l’antifascismo è stato trattato dall’intera classe dirigente degli ultimi vent’anni come una zavorra del Novecento, un peso del quale disfarsi per avere finalmente un paese “pacificato”, dove tutti quanti – rossi e neri, fascisti e antifascisti – potessero riconoscersi. L’antifascismo, dunque, e con esso la sua memoria pubblica, ha subito una sorta di delegittimazione politica, soprattutto tra le nuove generazioni, quelle appunto cresciute in questo clima disinteressato al passato.
Certo, la classe politica al potere non ha smesso di celebrare il 25 aprile, non ha smesso di utilizzarlo in situazioni specifiche e nemmeno di farne un monumento ossificato, e dunque inservibile. A Parma, addirittura, è stato inaugurato un busto a Guido Picelli in una delle fasi più decadenti sul piano della gestione del potere. Contemporaneamente, però, si è permessa l’inaugurazione di una lapide ai caduti militari della Repubblica sociale italiana – cioè a coloro che collaborarono con i nazisti nella lotta antipartigiana – e sono state concesse sale del Comune a organizzazioni che si richiamano esplicitamente al fascismo.
Un paradosso che si spiega con il disinteresse per qualsivoglia politica della memoria da parte della classe dirigente degli ultimi vent’anni, tutta proiettata in affari e profitti e nelle dinamiche edonistiche di un “presente permanente”. Un’orgia di ignoranza in cui quella classe dirigente ha trascinato gran parte della società, lasciando a una piccola minoranza la conservazione e la tutela della memoria antifascista. Gli atti di vandalismo alle sagome dei partigiani non si possono spiegare se non a partire da queste considerazioni.
Noi crediamo che non si possa diffondere l’idealità e la memoria dell’antifascismo e della Resistenza solo in determinate occasioni o in determinati luoghi. Abbiamo letto, ad esempio, che alcuni hanno avanzato la proposta di fare in città un museo della Resistenza. Un’idea positiva e utile, certo, ma che non risolverebbe il problema. La politica della memoria – e della memoria antifascista soprattutto – deve, oggi più che mai, scendere con forza anche nel campo della battaglia delle idee, deve uscire nelle strade della città e riconquistarle, sottraendole alla noncuranza e al disinteresse cui sono state costrette.
Esporre pubblicamente i volti partigiani, dunque, significa indicare le radici di una storia comune; mostrarli senza protezione significa chiamare i singoli lavoratori a confrontarsi con la loro vita e la loro scelta e a prendersene cura; raccontarli in modo così diretto e senza mediazioni significa che la loro storia è storia di noi tutti, non solo di chi fa ricerca storica o delle associazioni partigiane, che la scelta di quei partigiani deve vivere con noi.
Parma, 4 maggio 2013