Tra Messico e Usa – Il posto delle fragole, in Baja California

—  Luca Celada, Confine californiano tra Messico e Usa,

Globalizzazione. In Baja California 120mila braccianti agricoli lavorano in condizioni disumane. Il 17 marzo sono scesi in sciopero per la prima volta, massacrati dall’esercito messicano e dal potere. Domenica hanno chiesto aiuto oltre la frontiera

Gli ultimi metri della linea di con­fine fra Mes­sico e Stati uniti sono il sim­bolo della fron­tiera che divide e allo stesso tempo uni­sce i due paesi a un comune destino di sto­ria e di svi­luppo. A Pla­yas de Tijuana la bar­riera di metallo alta sette metri taglia la spiag­gia e pro­se­gue per una cin­quan­tina di metri anche nel bagna­sciuga – come a fran­gere anche i flutti del Paci fico in due emi­sferi distinti.

Qui invece, sui due lati della bar­riera, si sono dati appun­ta­mento cen­ti­naia di mili­tanti per una mani­fe­sta­zione in soli­da­rietà coi brac­cianti della Baja Cali­for­nia in scio­pero da due set­ti­mane con­tro le con­di­zioni disu­mane di lavoro, con salari che si aggi­rano sugli 8 euro per una gior­nata di nove ore nei campi riarsi della valle di San Quin­tin – equi­va­lenti all’incirca al minimo sin­da­cale pagato ma all’ora 200 km più a nord, da que­sta parte del confine.

I cam­pe­si­nos mes­si­cani di quella regione agri­cola rac­col­gono fra­gole, more, pomo­dori e altre ver­dure ven­dute appunto sul mer­cato nor­da­me­ri­cano col mar­chio di grandi gruppi agroa­li­men­tari come la Ber­ry­Mex e la Dri­scoll con sede in Cali­for­nia. Molti di loro, in pre­va­lenza indi­geni emi­grati dallo stato meri­dio­nale di Oaxaca vivono con le loro fami­glie in barac­che senza acqua cor­rente in con­di­zioni spregevoli.

Il 17 marzo scorso i brac­cianti di San Quin­tin sono per la prima volta scesi in sciopero.

I lavo­ra­tori hanno incro­ciato le brac­cia e abban­do­nato i campi su cui la frutta pronta al rac­colto adesso rischia di mar­cire. I mani­fe­stanti hanno orga­niz­zato posti di blocco chiu­dendo il traf­fico sulla strada prin­ci­pale che attra­versa il paese. La rea­zione non si è fatta atten­dere; sul luogo sono giunti con­vo­gli con cen­ti­naia di poli­ziotti in tenuta anti­som­mossa che hanno cari­cato gli scio­pe­ranti. Cen­ti­naia di essi sono stati rin­chiusi e guar­dati a vista per 17 ore in un campo e suc­ces­si­va­mente molti di loro sono stati arrestati.

A San Quin­tin e nei cen­tri limi­trofi i lavo­ra­tori hanno occu­pato alcuni edi­fici gover­na­tivi e un com­mis­sa­riato. Sulle strade e i campi pol­ve­rosi ci sono state bat­ta­glie cam­pali con lan­cio di lacri­mo­geni, pro­iet­tili di gomma e manganellate.

«A San Quin­tin man­cano, case, acqua cor­rente, fogna­ture, tutto ciò che serve a vivere degna­mente — rac­conta Roge­lio Mén­dez, del Frente Indi­gena de Orga­ni­za­cio­nes Bina­cio­na­les (Fiob) che sta coor­di­nando la lotta dei brac­cianti. Dopo i disor­dini l’associazione dei col­ti­va­tori ha accet­tato di nego­ziare ma dopo diversi giorni di trat­ta­tiva l’offerta è stata un misero aumento del 6%, equi­va­lente a pochi cen­te­simi in più al giorno, una pro­po­sta defi­nita «offen­siva» dai cam­pe­si­nos che chie­dono un sala­rio di 200 pesos al giorno, circa 12 euro. Tutto que­sto lo hanno rac­con­tato attra­verso le maglie della rete di fron­tiera i 600 cam­pe­si­nos giunti da sud dome­nica scorsa con una caro­vana di pullma per sen­si­bi­liz­zare un’opinione pub­blica sta­tu­ni­tense abi­tuata a vedere le fra­gole solo nelle anti­set­ti­che con­fe­zioni dei supermarket.

Para­dos­sal­mente que­sta vicenda dimo­stra quanto siano irri­le­vanti le bar­riere di ferro e filo spi­nato che impe­di­scono il flusso dei pro­fu­ghi eco­no­mici ma favo­ri­scono invece quelli di un’economia trans­na­zio­nale in cui le aziende trag­gono il mag­gior pro­fitto pro­prio dalla dise­gua­glianza siste­mica. L’abisso che separa i lavo­ra­tori dai due lati del con­fine è il motore di una glo­ba­liz­za­zione dello sfrut­ta­mento, tanto più evi­dente qui in quanto para­dos­sal­mente con­ti­gua al «Gol­den State». Da un lato l’agribusiness cali­for­niano ha sem­pre sfrut­tato una vasta forza lavoro «clan­de­stina», non in con­di­zione di riven­di­care un trat­ta­mento equo. Il com­parto agri­colo della Cali­for­nia, infatti, è stato sto­ri­ca­mente costruito sulla base di mano d’opera sot­to­pa­gata e «indo­cu­men­tata» pro­ve­niente da oltre con­fine, con tutti gli abusi del caso.

La scorsa set­ti­mana, spe­cial­mente nel sudo­vest nor­da­me­ri­cano, si è osser­vato il «Cesar Cha­vez Day», la ricor­renza che ricorda il lea­der che negli anni ‘60 e ’70 orga­nizzò per la prima volta i lati­nos dei campi nel sin­da­cato Ufw (Uni­ted farm wor­kers) uti­liz­zando scio­peri, scio­peri della fame e boi­cot­taggi che all’epoca ebbero la soli­da­rietà di Robert Ken­nedy. Allora quelle bat­ta­glie vin­sero e otten­nero le prime tutele e i primi aumenti per brac­cianti che ave­vano lavo­rato in con­di­zioni di quasi schia­vitù — con­qui­ste comun­que costan­te­mente insi­diate dal vasto ser­ba­toio di lavo­ra­tori potenziali.

Ora, in una fase di glo­ba­liz­za­zione più avan­zata, lo stesso sfrut­ta­mento è stato in parte delo­ca­liz­zato nel paese di ori­gine degli immi­grati. Come è acca­duto con le maqui­la­do­ras – la cin­tura di fab­bri­che mes­si­cane che pro­du­cono beni indu­striali a basso costo per il mer­cato Usa — e ora con l’industria agri­cola, che ha spo­stato molte ope­ra­zioni a sud della fron­tiera. Secondo un modello che per­mette sem­pre ai grandi inte­ressi eco­no­mici di nego­ziare con­di­zioni più van­tag­giose muo­vendo flui­da­mente capi­tali attra­verso mer­cati e con­fini, anche con l’aiuto di incentivi.

Il governo mes­si­cano, infatti, ha favo­rito lo «svi­luppo» con grandi inve­sti­menti nelle infra­strut­ture e nell’irrigazione atti­rando gli impren­di­tori soprat­tutto con la pro­spet­tiva di una mano­do­pera a prezzi strac­ciati. Come i distretti agri­coli della Cali­for­nia, anche la valle di San Quin­tin, a soli 300 km da San Diego, è stata tra­sfor­mata in una zona di pro­du­zione agri­cola inten­siva per l’export. E come nei campi ame­ri­cani, è stata impie­gata una forza lavoro com­po­sta in gran parte da popo­la­zioni indi­gene che con le loro fami­glie si sono tro­vate a vivere e lavo­rare in una zona deser­tica senza ade­guate abi­ta­zioni, strut­ture sani­ta­rie, scuole o acqua.

Una sto­ria di ordi­na­ria glo­ba­liz­za­zione di cui, come sem­pre avviene, hanno fatto le spese i più deboli — i brac­cianti — con­tro le cor­po­ra­tion e gli inte­ressi eco­no­mici con tutte le usuali con­ni­venze con le oli­gar­chie poli­ti­che della Baja Cali­for­nia, e anche dalle con­fe­de­ra­zioni sin­da­cali nazio­nali, note per la loro pro­cli­vità alla cor­ru­zione e per la scarsa moti­va­zione per farsi carico di un esi­guo gruppo di «jor­na­le­ros» indios.

Eppure con la delo­ca­liz­za­zione della fatica ha attra­ver­sato la fron­tiera anche quella cul­tura sin­da­cale pra­ti­cata da Cesar Cha­vez. Come già i loro cugini del paniere cali­for­niano, i lavo­ra­tori mes­si­cani hanno imba­stito una ver­tenza che ha intanto almeno rive­lato l’esistenza delle loro con­di­zioni di lavoro.

I nego­ziati attual­mente con­ti­nuano ma come mi spiega un por­ta­voce della caro­vana salita dome­nica scorsa al con­fine, se i padroni doves­sero dav­vero insi­stere nel negare loro un sala­rio e con­di­zioni di lavoro umane, il pros­simo passo potrebbe essere un boi­cot­tag­gio dei pro­dotti (cen­ti­naia di ton­nel­late l’anno, ndr) spe­diti sulle tavole della California.

«Quello che deve sapere il popolo ame­ri­cano prima di man­giare una fra­gola colta a San Quin­tin — ha detto Felipe Sán­chez della Alianza de Orga­ni­za­cio­nes Nacio­na­les, Esta­ta­les y Muni­ci­pa­les por la Justi­cia Social — devono sapere che in quella fra­gola, in quella mora, in quel pomo­doro, c’è il nostro san­gue e il sala­rio da fame che ci pagano».

da ilmanifesto.it

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