Popoli e populismi: la rovina del “ceto medio” e i suoi riflessi politici
L’ossessione contemporanea del giornalismo ufficiale di tutto il continente si chiama “populismo”. Dentro questa categoria volutamente generica vengono incasellati più o meno tutti i partiti e movimenti politici apparentemente “anti-sistema”, a prescindere dalla loro natura e dalle idee che propongono.
Questa etichetta, usata di norma con tono di insulto, viene appiccicata a forze diversissime tra loro, da Podemos in Spagna – che nelle ultime elezioni si è presentato in alleanza con Izquierda Unida – a partiti di tradizione neofascista come il Front National francese, fino al neo-presidente USA Donald Trump e al Movimento 5 Stelle italiano. Una tale semplificazione è sbagliata e da rifiutare, poiché non ci aiuta a comprendere la natura di fenomeni così diversi.
Che il sistema dei media liquidi come “populista” qualsiasi forza politica attacchi l’attuale ordinamento , da destra o da sinistra, non ci sorprende. Serve a screditare a priori qualsiasi critica allo stato di cose presente.
L’unica base comune tra fenomeni così diversi ci pare essere lo screditamento della democrazia parlamentare e dei partiti tradizionali ad essi legati. La crisi economica non ha colpito soltanto i ceti meno abbienti. Dal 2008 abbiamo assistito a un’accelerazione e un impoverimento del cosiddetto “ceto medio”. Secondo La Stampa:
“fra il 2009 e il 2014 il reddito in termini reali cali in misura maggiore per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando così la distanza da quelle più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte rispetto alle più povere. [...] Tale processo scardina le tradizionali categorie sociali che – in precedenza – erano quelle più a rischio di esclusione. Oggi i sistemi di disuguaglianza investono anche i giovani, chi pur avendo un lavoro e con pochi figli però è precario o ha una bassa remunerazione. Soprattutto tocca il ceto medio, erodendone le tradizionali certezze […] Se nel 2011 poco più della metà degli italiani (52,2%) si ascriveva al ceto medio-alto e alto, oggi solo il 26,5% si colloca nei medesimi gruppi sociali. Viceversa, se aumenta leggermente la quota di chi si identifica nel ceto basso (9,5%, era il 4,5% nel 2011), accrescono significativamente quanti vanno a ingrossare le fila del ceto medio-basso che dal 43,3% (2011) passano al 64,1% (2016)”.
“Ceto medio” è in verità un termine giornalistico poco definito e definibile. Assumiamo di considerare in questa categoria la piccola imprenditoria (per noi “piccola borghesia”) e tutte le varie sfaccettature delle professioni autonome, dei professionisti, dei quadri. Questo pulviscolo atmosferico di individui per lo più economicamente spersi ha nel capitalismo un peso economico assai ridotto. Tuttavia nel campo politico è un lubrificante fondamentale dei meccanismi della democrazia parlamentare. Per caratteristiche sociali, di solito il “ceto medio” ingrossa le fila dell’attivismo civile, “democratico”, dei partiti più classici.
Storicamente, questo settore sociale è sempre stato schiacciato dalle grandi imprese capitalistiche e vive sempre con la spada di Damocle della possibilità di precipitare verso il basso della gerarchia sociale. Tuttavia, nelle fasi di espansione economica ci sono i margini perché almeno un settore consistente di piccola borghesia riesca a cavarsela egregiamente. In queste fasi il cosiddetto ceto medio ha la tendenza a riconoscersi nel sistema politico tradizionale, ad essere la cinghia di trasmissione delle idee della classe dominante al resto della società, a sostenere politiche di conservazione piuttosto che di eversione dello stato di cose esistente.
Le fasi di crisi acuta del sistema capitalistico investono anche questo settore della società. Ne travolgono il tenore di vita. La rovina economica lo induce a staccarsi sempre più dal “suo” sistema, ma senza comprenderne fino in fondo la natura. Così, si odiano le multinazionali e le grandi banche ma si continua a difendere l’economia di mercato, cullandosi nell’illusione di un possibile ritorno ad un capitalismo dei piccoli produttori.
Si inveisce contro la “globalizzazione” e contro l’Unione Europea, sognando la riconquista della “sovranità” nazionale e popolare, senza comprendere che la sovranità non è mai realmente della “nazione” o del “popolo” ma è delle classi dominanti. Anche politiche protezionistiche o una rottura dell’UE su basi capitalistiche lascerebbero la vera sovranità nelle mani degli stessi grandi gruppi economici.
Sono queste le condizioni che facilitano il sorgere di nuove formazioni che usano una fraseologia anti-establishment e appaiono anti-sistema ma lo sono solo formalmente. Urlano contro la “casta” ma i loro esponenti più in vista ne fanno parte a pieno titolo. Incapaci di un reale ruolo indipendente dal grande capitale, quando arrivano a posizioni di governo, finiscono con il reiterare tutte le politiche che avevano fino a quel momento contestato. La loro opposizione al grande capitale si caratterizza per il sogno reazionario di un ritorno al capitalismo delle origini.
In Italia possiamo vedere queste caratteristiche nel Movimento 5 Stelle. Caratteristiche tipiche della piccola borghesia che infatti le impediscono di dare vita ad un progetto politico organico e coerente.
Classe o popolo?
Se vi fosse un movimento operaio in grado di proporre un progetto politico coerente, una coerente sinistra dei lavoratori, la rabbia della piccola borghesia impoverita potrebbe essere incanalata a sostegno di un’alternativa rivoluzionaria. E’ quello che è successo molti movimenti rivoluzionari degli ultimi cento anni che sotto la guida dei settori più coscienti di lavoratori sono riusciti a costruire e mobilitare un blocco sociale molto più largo. Diciamo di più: il nostro classismo non può e non deve coincidere con un atteggiamento “economicista” o con l’idea che il nostro compito sia sostanzialmente di prolungare sul terreno politico l’organizzazione sindacale. Tutto al contrario: la classe deve proiettare la propria visione e i propri interessi su tutto l’arco dei problemi sociali, puntando ad aggregare attorno a sé tutti i settori sociali oppressi, compreso il ceto medio in declino. Temi come l’accesso al credito, il peso della tassazione, l’attacco alla casta e ai privilegi del parlamentarismo sono da sempre parte integrante di un potenziale programma rivoluzionario.
In una situazione di sostanziale passività della classe lavoratrice come quella che stiamo vivendo, invece, accade l’esatto contrario: è questa ideologia di derivazione piccolo borghese che influenza settori di lavoratori. Parole d’ordine di questi cosiddetti “movimenti populisti”, con il loro portato di bufale e concezioni non scientifiche, penetrano in settori di proletariato e ne indirizzano le energie verso falsi obiettivi.
Questo ha prodotto in un settore della sinistra antagonista l’idea di poter rincorrere questo populismo sul suo stesso terreno, sottraendogli l’uso dei “termini”; appropriandosi delle stesse parole d’ordine e imitandone il profilo politico per poter crescere più rapidamente tra le masse.
Assistiamo così anche a sinistra al proliferare dell’utilizzo di riferimenti al popolo e di varie proposte politiche condite dall’aggettivo “popolare”.
Come se il popolo non fosse diviso in classi sociali, come se il problema non fosse piuttosto quale classe assume la direzione dei processi in atto. O peggio ancora si rincorre un concetto come il “sovranismo”, con l’idea che sia talmente radicato tra le masse da non poterne lasciare il monopolio a Grillo e ai fascisti. Si entra così in una terra di nessuno dove non si comprende più dove inizi la tattica e dove lo sconfinamento nell’opportunismo politico.
Qua non si tratta di essere puntigliosi sulla terminologia. Si tratta di non celare la confusione teorica dietro presunti stratagemmi tattici. Le forze di sinistra che partono alla conquista di questo populismo, ne torneranno molto più probabilmente conquistate.
E a niente serve inventare o improvvisare richiami alle esperienze latino-americane o, peggio ancora, all’utilizzo che Lenin e il bolscevismo facevano del termine “popolo”.
Qua non ci troviamo di fronte a forze di massa o progressiste, potenzialmente rivoluzionarie, che utilizzano una terminologia confusa. Non ci troviamo di fronte a un movimento rivoluzionario che ha messo in moto un blocco sociale composito, formato da contadini, operai, studenti ecc.
Termini come sovranità, “popolo” italiano, sono saldamente nelle mani di forze come i 5 Stelle o Salvini. Qualsiasi sia il giudizio che si dà delle diverse forze antagoniste, rivoluzionarie, comuniste presenti nel nostro paese, in pochi casi superano le centinaia di militanti. Stiamo parlando di forze impegnate spesso in in un solo lavoro di propaganda, educazione e ricostruzione dell’avanguardia o nel migliore dei casi di radicamento tra settori della classe.
Sdoganare la confusione teorica in un momento del genere, travestendola come una sapiente tattica di massa applicata da gruppi di qualche centinaio di militanti, è qualcosa che oscilla tra il grottesco, il velleitario e la capitolazione politica.
Facciamo notare oltre tutto che nella tradizione italiana, il termine popolare è stato tanto caro al togliattismo per imbrigliare il movimento della classe in un generico movimento di natura democratica.
Come già detto questo non significa che il movimento operaio, nello sforzo di tornare a dotarsi di una propria forza politica indipendente, non debba porsi il problema di includere nel proprio programma anche alcune delle tematiche sollevate da questi movimenti, come ad esempio la lotta contro i privilegi e i costi della politica. Salari operai per i parlamentari e funzionari a rotazione sono sempre stati parte del programma marxista. Nè possiamo attaccare il populismo con le stesse argomentazioni del Pd, vaneggiando di una politica in mano a “coloro che hanno studiato”, inneggiando al rispetto della sacra vita parlamentare ecc. L’idea che la politica sia fatta “dal basso”, il rifiuto radicale dell’establishment, la diffidenza verso la politica ufficiale, sono parte integrante della nostra visione rivoluzionaria.
Il problema, come sempre, è di egemonia e di direzione politica, oltre che di proposte, parole d’ordine e di senso delle proporzioni.
Nostro dovere, di chiunque non voglia rinunciare alla lotta per un altra società, un’altra economia, un’altra vita insomma, è di mantenere la barra ferma sull’analisi di classe. Tanto più in un paese come l’Italia dove in questo momento l’intero spettro politico congiura per espellere la questione sociale da qualsiasi dibattito. Non per ortodossia ma perché questa è la realtà del nostro mondo e per parafrasare il vecchio barbuto di Treviri, il punto è sì cambiare il mondo ma prima bisogna interpretarlo correttamente.
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