SERVIZI PUBBLICI

Privatizzare facendo finta di liberalizzare

È cosa nota: nel les­sico poli­tico con­tem­po­ra­neo la tor­sione del lin­guag­gio è giu­sti­fi­cata dall’obiettivo di far pas­sare per buono ciò che è – per sua stessa defi­ni­zione – cat­tivo.
Si direbbe: “addol­cire la pil­lola”.
Così ciò che è restau­ra­zione dei pri­vi­legi e della dit­ta­tura di classe viene fatto pas­sare come “le riforme che l’Italia si aspetta da vent’anni”. Di fronte alla crisi, la bor­ghe­sia, anzi­ché met­tere mano al por­ta­fo­glio per atte­nuarne gli effetti e “sal­vare la barca”, si ado­pera per il suo affon­da­mento avendo messo da parte la scia­luppa di sal­va­tag­gio.
Il cam­bio della guar­dia a Palazzo Chigi non ha cam­biato l’indirizzo di governo ma ha inciso deci­sa­mente sul lin­guag­gio: abo­lito il ter­mine pri­va­tiz­zare per sosti­tuirlo con libe­ra­liz­zare. Se a que­sto cam­bio di passo cor­ri­spon­desse una coe­rente poli­tica sarebbe un novità da salu­tare posi­ti­va­mente; il fatto rimane invece quello di acca­par­rare ulte­riori risorse e posi­zioni di comando per le classi diri­genti che si iden­ti­fi­cano, giorno dopo giorno, pro­prio con la bor­ghe­sia.
Le pri­va­tiz­za­zioni sono stati il tor­men­tone degli ultimi 20 anni. Il risul­tato di que­ste poli­ti­che – fal­li­men­tari – sono sotto gli occhi di tutti: aumento di tre volte del costo dei ser­vizi e loro dequa­li­fi­ca­zione. Dall’acqua all’energia, dalla salute alla scuole, dai tra­sporti alla gestione del ter­ri­to­rio gli esempi si spre­cano. Ecco allora che il governo “dei tec­nici” mette a posto il ter­mine con il quale defi­nire la pro­se­cu­zione della stessa poli­tica. Ragione vor­rebbe che la cam­biasse ma que­sto signi­fi­che­rebbe met­tere a repen­ta­glio l’esistenza stessa delle classi diri­genti; chi soster­rebbe, nell’attuale qua­dro poli­tico, un simile indi­rizzo?
Accanto alle più note vicende di tas­si­sti, far­ma­cie e auto­tra­sporto, nelle set­ti­mane scorse era assurta agli onori della cro­naca la que­stione dell’acqua pub­blica. Il cla­more era legato al fatto che que­sta vicenda era stata ele­mento cata­liz­za­tore della cam­pa­gna refe­ren­da­ria della pri­ma­vera scorsa, cul­mi­nata con la vit­to­ria dei que­siti refe­ren­dari che indi­ca­vano nel man­te­ni­mento nella sfera pub­blica tutti i ser­vizi “essen­ziali” anche defi­niti “beni comuni”. Infatti nelle “bozze” del governo si intra­ve­deva un passo avanti nell’ulteriore pri­va­tiz­za­zione dell’acqua, non solo come gestione del ser­vi­zio ma pro­prio come pro­prietà. Di fronte alla pro­te­ste il governo faceva qual­che pre­ci­sa­zione che pro­vo­cava il giu­bilo dei comi­tati refe­ren­dari. In realtà l’indirizzo di governo man­tiene l’obiettivo: sem­pli­ce­mente lo per­se­gue per mezzo della libe­ra­liz­za­zione del com­parto ser­vizi. Le “bozze” che erano cir­co­late anti­ci­pa­vano la volontà del governo di rimet­tere in moto l’accaparramento delle uti­lity muni­ci­pali da parte di grandi gruppi indu­striali; poi nel testo del decreto legge (che entra imme­dia­ta­mente in vigore) è stata lasciata una for­mula alquanto ambi­gua (tale da lasciare spa­zio agli ascari della poli­tica): cioè il governo non “vieta” la gestione dell’acqua – e degli altri ser­vizi sociali – da parte di società con­trol­late dagli enti locali (comuni o pro­vince). Il fatto che non lo vieti non signi­fica affatto che non voglia favo­rire le aziende pri­vate a met­tere le mani sulle sor­genti, le reti, gli acque­dotti e i sistemi di pota­bi­liz­za­zione. Infatti il rico­no­sci­mento delle “aziende spe­ciali” a gestire ser­vizi di inte­resse eco­no­mico gene­rale si accom­pa­gna alla norma che vieta la costi­tu­zione di mono­poli di fatto anche a livello muni­ci­pale. Tra­dotto in pra­tica ci dovranno essere almeno due società, una delle quali potrebbe anche essere a pro­prietà pub­blica (ma a gestione pri­vata), che gesti­scono il ser­vi­zio idrico. E le società “troppo pic­cole” (quelle dove il con­trollo dal basso è più age­vole) o inde­bi­tate dovranno fon­dersi per “stare sul mer­cato”.
Un discorso ana­logo si farà per i tra­sporti; ana­lo­ga­mente si esten­derà il carat­tere pari­te­tico delle scuole pri­vate; ciò già avviene per l’energia (gas e elet­tri­cità).
Que­sto a dimo­stra­zione dell’inutilizzabilità degli stru­menti “legali” per affer­mare libertà e diritti che vadano con­tro gli inte­ressi della classi diri­genti.
Il governo si fa beffa dell’intenzione espressa dai 26 milioni di per­sone che hanno votato a favore del man­te­ni­mento dell’acqua come bene pub­blico indi­spo­ni­bile, come bene comune non com­mer­cia­liz­za­bile. A que­sto non potendo più opporre il man­tra della pri­va­tiz­za­zione come sistema più effi­ciente risponde con il sur­ro­gato della libe­ra­liz­za­zione accom­pa­gnato da norme attua­tive che impon­gono i pri­vati come sog­getti indi­spen­sa­bili al pro­cesso.
D’altra parte anche la libe­ra­liz­za­zione delle pro­fes­sioni va nella stessa dire­zione: favo­rire il capi­tale d’investimento e tra­sfor­mare la pic­cola bor­ghe­sia in pro­le­ta­riato sala­riato.
Non saremo certo noi a ergerci a baluardo di inte­ressi cor­po­ra­tivi ma il ragio­na­mento mette in evi­denza, ancora una volta, la vora­cità del capi­tale mul­ti­na­zio­nale e la supina acquie­scenza delle classi diri­genti (tutte, sia i poli­tici che i tec­nici che le grandi orga­niz­za­zioni padro­nali); i com­menti più dif­fusi dei poli­tici (in par­ti­co­lare PD e terzo polo) di fronte alle pro­te­ste delle cate­go­rie pro­fes­sio­nali era che le “vere libe­ra­liz­za­zioni” non sareb­bero state quelle degli ordini e delle cate­go­rie ma quelle dei ser­vizi, dove, per altro, c’è la “cic­cia” dei flussi di cassa e dei grandi profitti.

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