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AMORE & DIBATTITO [1.0]
by onnivora Thursday, Oct. 10, 2002 at 4:11 PM mail:

... Il migrante non ha un valore oggettivo, una propria dignità d'uomo. L'essere umano che si sposta è estraneo perchè estraneo al mercato, se la necessità che lo muove non è quella comune e condivisa della macchina della produzione...


AMORE & DIBATTITO [1.0]

Leggo curioso. Dalla fine all'inizio. Un breve spaccato di una o due mailing-list. Direi che il periodo è la seconda metà di settembre. Ma io inizio a leggere oggi, dopo avere finalmente stampato le parole. Leggere su carta è comunque un'altra cosa.

Cerco pertanto di rintracciare l'amore.

Comincio con qualche riga tratta dal "manifesto" di Versitudine, che
non intende ... operare una riduzione omologante di complessità culturale, ma piuttosto, cercare di mettere in relazioni forme di vita altre per farle convivere in uno spazio comune.

Un accenno alla convivenza, forse direttamente una delle forme aperte di realizzazione prammatica dell'amore. Eppure, subito dopo, si parla del terzo numero del giornale (del foglio, sorry), e con
l'Europa dell'essere, dello stare, dell'abitare, delle distanze e delle prossimità
non leggo l'Europa dell'amare (nè dell'amore).

Rintraccio una prima diagnosi subito dopo. A proposito del "Castello-Europa" - infatti - ciò che ne blocca l'accesso viene definito
censura del super-io paranoico degli europei che si interdicono un possibile incontro con lo sconosciuto-migrante.

Si tratta evidentemente di una mia proiezione, se non - più propriamente - di una mia euro-paranoia, ma leggo come di un apparente distacco dell'io-europeo dall'io tout-court, che dirò io (e basta), insomma me stesso; infine: me. La censura di cui riconosco l'influenza è un'autocensura, di quelle del genere preventivo; di quelle insomma dell'artista (non che io lo sia: solo un esempio...) che rispetto alla commissione di stato, a un qualunque genere di minculpop, a una qualsiasi forma di committenza, o ancora, alla paura della fame (o, più garbatamente, della relativa povertà), rivede fino a stravolgerla, la propria opera d'arte.

E non solo d'arte, si parla.

Più da presso all'amore, e con esso alla relazione interpersonale, poco importa a mio parere che l'altro sia straniero perchè extra-comunitario. L'altro, solo perchè altro, proprio perchè altro, è strano, quindi straniero. Io europeo paranoico lo vedo, lo sento, lo percepisco minaccioso già perchè non è me. E io stesso con me, a volte, sempre più spesso, sono minaccioso e disumano. Paranoico e schizofrenico alla mattina davanti allo specchio, e poi in metropolitana, se mi guardano/se mi guardo riflesso al finestrino, e poi davanti alle vetrine (non solo benettoniche), osservo sconvolto l'immagine di me. L'immagine di me che mi pare gli altri abbiano di me. Sconosciuti come amanti, tutti minacciosi... E forse solo per caso (o in base a un preciso disegno?) non ancora coalizzati per eliminarmi, per ignorarmi.
E' probabilmente quest'aspetto, che segna la differenza con il differente: gli xenofobi fanno presto amicizia fra loro, e nell'odio per lo straniero si amano di un amore trascendente, sacro.

Io purtroppo sono bianco, indo-europeo, praticamente ariano. Insomma solo. Quello che mi unisce agli altri, all'altro, nell'amore e - di più (o di meno?) - nel sesso, è molto meno che odio, molto meno che paranoia o schizofrenia.
Non è neppure denaro: paradossalmente io il sesso non lo pago (almeno non con il denaro). Sesso solo per amore, al limite solo per piacere.
Eppure il veloce avvicendarsi di soggetti/oggetti sessuali nel mio letto ha a che vedere con il denaro, con il mercato, con la pubblicità, con lo zapping veloce e rincoglionito di un qualsiasi mercoledì sera, molto più di quanto io non sia disposto ad ammettere (o in grado! di riconoscere).

Il pagamento è in solitudine contante, sonante (di un silenzio assordante). Un pagamento che frutta altra solitudine con rendimenti esponenziali, depauperandomi velocissimamente d'umanità.

Rintraccio qualcosa di quest'intimità perduta nelle singolarità di cui si dice più avanti [nel manifesto], singolarità che
si contaminano con altre singolarità (movimento dei movimenti) per dare vita ad una sfera pubblica comune delle singolarità.

Non può non venirmi in mente lo scorso sabato sera, trascorso tra alcool e auto e chiassosi affollati locali pubblici da ballo. Nessuno sconosciuto mi ha guardato negli occhi. Però in centinaia riproponevano tutti la magia atavica della danza, solo in apparenza propiziatoria di compagnia, di comunanza, di amore.
Solo in apparenza.
Invece interpretevano - e in sostanza - il movimento convulso del crollo di borsa, con mossette e gesti analoghi a quelli disorientati dei piccoli risparmiatori rovinati dalle speculazioni dei grossi operatori. Movenze copiate alla perfezione dalle coreografie ripetute fino al parossismo nei video pubblicitari e musicali.

L'europa minore allude a forme di vita dis/identitarie e dis/topiche. L'europa minore non è un luogo o un non luogo ma un passaggio.
Ma non è la vita stessa un passaggio?

Se sì, lo è solo a bordo dell'ultimo modello di veloce berlina super-accessoriata. E se non puoi permettertela dovrai (!) ballarne la colonna sonora. Anche solo ascoltarla (o sentirla passare alla fermata dell'autobus).
Sottrarsi a questo disegno non è sottrarsi al neo-liberismo; è piuttosto sottrarsi alla vita. E subirne la sottrazione, morire.
I profughi, i migranti, che - pur in parte - condividono lo spostamento nello spazio con le merci, merce non sono. Il migrante non ha un valore oggettivo, una propria dignità d'uomo. L'essere umano che si sposta è estraneo perchè estraneo al mercato, se la necessità che lo muove non è quella comune e condivisa della macchina della produzione. I bambini in fin di vita che fanno capolino da ogni scena di guerra proposta dai telegiornali non si muovono a tempo, sono scoordinati. Spesso l'unica colonna sonora della loro sofferenza è il commento asettico di un giornalista che di lì a poco li finirà con un "cambiamo argomento". Quel "voltiamo pagina" li precipita in fono alla classifica di gradimento, oltre il centesimo posto nelle charts. Ultima la speranza di un incidente finalmente mortale, magari sotto le ruote larghe di un fiammante fuoristrada.

E l'amore?

Di quale preferite parlare, adesso? Di quello a pagamento delle nigeriane minorenni di via Roma? O di quello delle poche coppie interrazziali in guerra in ogni momento di ogni giorno con il pregiudizio della città normalizzata?
In effetti non lo so proprio. Sconosco il motivo per cui si dovrebbe parlare di amore quando si discorre di desiderio, di ricombinazione delle risorse condivisibili in un presunto progetto di resistenza al fascismo del capitale.
Eppure... Amore, amore, amore.
Proprio perchè assente da ogni relazione che non sia egoista; proprio perchè rinchiuso a doppia mandata, murato, seppellito, umiliato nelle parole vuote di quattro/quattromila teste di minchia con un microfono in mano e un ricco conto in banca.

Con amore materno incondizionato

Onnivora

10 ottobre 2002

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Dialoghi europei per un'estetica impressionista e sostenibile
by onnivora Thursday, Oct. 10, 2002 at 8:55 PM mail:

DA VERSITUDINE FOGLIO PLUIRVERSO IN MOVIMENTO DELLA CITTA' DI BOLOGNA
[il cosiddetto "manifesto" citato più sopra]

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Immigrati: il mito dell’integrazione secondo Abdelmalek Sayad
by lo straniero (stefano liberti) Wednesday, Dec. 18, 2002 at 1:37 PM mail:

Diceva Jacques Derrida, all’epoca delle prime lotte dei sans papiers in Francia, che il migrante è come una chiave: elemento esterno al dentro, può al massimo guardare dalla toppa la società in cui vorrebbe introdursi, mentre ha ormai abbandonato l’agevole tasca in cui era rimasto accudito. Con la metafora della chiave, Derrida rappresentava l’emigrato-immigrato come sospeso in un limbo (quello della porta che non si apre) e portatore di una profonda e doppia rottura: straniero due volte, nel suo paese d’origine e in quello d’adozione, non appartiene a nessun luogo. Apolide non per scelta ma per imposizione, è una figura evanescente, la cui presenza nei paesi di immigrazione viene misurata semplicemente nei termini di una tetra contabilità (benefici economici determinati dalla presenza di un lavoratore privo di diritti da una parte, e rischi insiti nella presenza di un rappresentante di una cultura “diversa” dall’altra). E se in potenza, aggiungeva il filosofo francese, la chiave è un ponte, elemento di raccordo capace di mettere in comunicazione due spazi altrimenti chiusi e non comunicanti, in atto diventa invece nelle nostre società falsamente aperte segno scomodo di una presenza ingombrante, testimone di un’incapacità permanente. Eravamo nel 1997. Derrida parlava di quell’accoglienza che la Francia, paese storicamente d’immigrazione, non sembrava più in grado di garantire. Pur intuendo il disagio di una duplice inadeguatezza, le sue riflessioni partivano comunque da un assunto imprescindibile: l’emigrato-immigrato-chiave era giunto alla soglia della porta e doveva essere accolto. La porta doveva aprirsi: l’immigrante aveva operato una scelta e doveva essere aiutato a spogliarsi della sua condizione di emigrante. Spinto dalla necessità politica del momento, Derrida finiva per ignorare nel suo discorso l’altra faccia della medaglia: quella della società d’origine che, avendo subito le rotture determinate dalla partenza in massa dei suoi membri, reagiva rifiutandoli, stigmatizzandone l’assenza come tradimento. Ignorava quindi Derrida, e con lui buona parte del pensiero europeo più progressista, la doppia connotazione negativa del limbo di cui sopra: l’immigrato-emigrato non solo non è accettato nel paese d’immigrazione, ma è anche respinto dal paese d’emigrazione e condannato a un’impossibile schizofrenia mentale tra due mondi ugualmente ostili. Da questa univocità di riflessione risultava una innegabile sfasatura, che segnava e ancora segna buona parte degli studi e delle rappresentazione del fenomeno: tanto abbondante è la letteratura sull’immigrazione, tanto insufficiente, se non totalmente manchevole, quella sull’emigrazione. A questa sfasatura, a questa univocità forzosa pone in parte rimedio oggi la pubblicazione di questa corposa raccolta di saggi di Abdelmalek Sayad da parte delle edizioni Raffaello Cortina, che fin dal titolo – “La doppia assenza” – si propone di analizzare il fenomeno migratorio nella sua interezza: “dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato”, come recita la felice espressione scelta a sottotitolo dell’opera. Algerino emigrato in Francia e mai naturalizzatosi, Sayad ha lavorato vent’anni come sociologo delle migrazioni, sperimentando anche sulla propria pelle la violenza di uno stato che considera l’immigrato un intruso (o un “clandestino”, come ama ripetere oggi la grancassa mediatica), e che gli domanda continue professioni di fedeltà. Centinaia di interviste, un instancabile e quasi maniacale lavoro sul campo lo portano a comporre un mosaico ricchissimo di un fenomeno di grande interesse, di cui era in qualche modo parte in causa: quello dell’immigrazione algerina in Francia degli anni sessanta e settanta. Fenomeno particolare, se si vuole, ma che assume una valenza paradigmatica, giacché presenta tutti gli aspetti del cas d’école: è una migrazione di massa da una società prevalentemente rurale verso una società urbana e industriale; è diretta conseguenza della colonizzazione; avviene verso uno dei più rigidi stati-nazione della Terra, patria e culla di quell’“imperialismo dell’universale” di cui parlava Pierre Bourdieu. Nella sua analisi Sayad parte da una premessa imprescindibile: quella cioè che “ogni studio dei fenomeni migratori che dimentichi le condizioni di origine degli emigrati si condanna a offrire del fenomeno migratorio solo una visione al contempo parziale ed etnocentrica: da una parte, come se la sua esistenza cominciasse nel momento in cui arriva in Francia, è l’immigrante – e lui solo – e non l’emigrante a essere preso in considerazione; dall’altra parte, la problematica, esplicita e implicita, è sempre quella dell’adattamento alla società ‘d’accoglienza’”. Nella prima delle due facce del fenomeno, quella dell’emigrazione, il sociologo algerino analizza i fenomeni di rottura operati dalla partenza in massa dei giovani dai villaggi berberi della Kabilia. Una rottura che avviene gradualmente e che è caratterizzata da due fasi diverse, che corrispondono a una progressiva emancipazione del soggetto migrante e a un suo parallelo isolamento e allontamento mentale dalla società d’origine. Inizialmente, infatti, l’emigrato è un prescelto della comunità: “è un contadino con l’incarico di emigrare, che si sforza di superare la prova dell’emigrazione senza mai rinnegare se stesso in quanto contadino” e che alla fine reintegrava la propria condizione di origine. Ma l’emigrato che torna è un cavallo di Troia: racconta, mentendo, delle meraviglie del mondo al di là del mare e produce nella comunità un desiderio generalizzato di partire, contribuisce a diffondere la mentalità calcolatrice associata all’uso della moneta, provoca una totale destrutturazione della società contadina. Così pian piano l’emigrazione perde la sua caratteristica di missione affidata al gruppo e diventa atto e progetto individuale. “La Francia ci entra fin dentro le ossa”, confessa in una delle interviste un ex fellah di un villaggio berbero, divenuto operaio semplice in una fabbrica della Reunalt. La Francia entra dentro le ossa ed è come un cancro, una condizione di falsa superiorità che il migrante deve difendere, a costo di falsificare in modo patente la realtà, fino all’assurdo di indebitarsi per mandare alla famiglia soldi che non guadagna. L’emigrazione è comunque vissuta come una condizione provvisoria; ma è un provvisorio condannato alla permanenza giacché l’emigrato non può reintegrare il gruppo che ha tradito né mai si sentirà parte della comunità dove è andato a lavorare. Da cui la doppia assenza: l’emigrato continua a essere presente sebbene assente nella comunità d’origine che ha tradito e non è mai completamente presente nella comunità che ha raggiunto. Perché la comunità che ha raggiunto difficilmente lo considererà al di là delle sue braccia, mera corporeità destinata al lavoro, e guarderà con sospetto ciascuno dei suoi atti e dei suoi gesti. Al di là della naturalizzazione e dell’assunzione della cittadinanza, che Sayad definisce una “dolce violenza”, gli algerini rimarranno sempre stranieri e diversi, “francesi di ramificazione, fogliame”, come rileva un giovane beur intervistato dall’autore, in opposizione ai “francesi di ceppo” (de souche), aberrazione semantica ormai diventata norma per indicare diversi gradi e qualità di cittadinanza. L’escamotage è ovvio: il modello repubblicano francese, imbellito dall’imperialismo della virtù dei diritti umani, non può negare i diritti ad altri esseri umani, ma può operare una sorta di imposizione malcelata di una cittadinanza di secondo rango. Si legga con attenzione il capitolo su “Immigrazione e pensiero di stato”, in cui viene analizzato il ruolo dell’immigrante in rapporto allo stato-nazione. Limite del progetto nazionale, in quanto venuto dal di fuori, l’immigrato assume la forma del capro espiatorio, misura di una diversità rispetto alla quale la comunità in qualche modo si definisce in negativo. L’immigrato economico, quello cioè di bassa estrazione sociale, è sempre tenuto a un’ipercorrettezza sociale, deve mostrare di essere animato da una volontà incrollabile di adesione a un sistema che gli viene imposto, giacché ha avuto la fortuna di essere accolto. Da cui le discussioni interminabili in Francia sulle deviazioni dal cosiddetto modello repubblicano: l’uso del velo a scuola, la discriminazione della donna, l’uso politico della religione indicato come forma di integralismo e così via. Tutte discussioni che ormai si propongono anche da noi, sia nei modi beceri e strillati dei proclami leghisti sia nelle forme più surretizie dell’imperialismo della ragione e dei diritti umani, che spesso non è altro che camuffata imposizione di un modello che si propone come universalmente superiore. È importante quindi il libro di Sayad proprio per questa sua valenza paradigmatica, perché mostra il germe di tutte le attuali considerazioni sull’immigrazione, anche nel nostro paese, che il fenomeno migratorio ha cominciato a viverlo solo di recente. Dall’identità immigrato-clandestino al lessico emergenziale della “fortezza assaltata”, dalle riflessioni più o meno amene sulle presunte rotture e sfide che i migranti imporrebbero ai sistemi culturali dei grandi stati europei (sfide e rotture assolutamente marginali e trascurabili se tali stati non fossero alimentati da un paranoico integralismo culturale), fino al grande miraggio: l’utopia-distopia dell’integrazione. Perché l’integrazione non è che un indeterminato irraggiungibile, una falsa chimera, un’illusione forzosa, come rileva argutamente una ragazza interpellata in una delle centinaia di interviste condotte dall’autore: “Abbiamo studiato l’integrazione in matematica, a scuola. Abbiamo imparato gli integrali, la funzione esponenziale. È la curva asintotica che possiamo tracciare all’infinito e che non toccherà mai l’ascissa. L’integrazione è così, bisogna correrle dietro ma più ti avvicini più ti ricordano che non è affatto quella.”

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