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IL MIRACOLO CILENO?
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/Novembre-2002/0211lm18.01.html
Le dure conseguenze del «miracolo economico» e dell'impunità Cile, miti e realtà di un modello logorato
Dimettendosi, il 12 ottobre, per aver manipolato e occultato informazioni sui desaparecidos destinate alla commissione del dialogo che indaga sui crimini della dittatura del generale Pinochet, il comandante dell'aeronautica cilena Patricio Ríos ha obbligato, ancora una volta, il paese a fare i conti con il proprio passato. Alle conseguenze dell'impunità, i cileni devono adesso aggiungere le crescenti ripercussioni della crisi argentina su un «miracolo economico» ingannevole, di cui solo in pochi hanno approfittato.
Nira Reyes Morales Il 21 maggio 2002 si è aperto l'anno legislativo cileno. Di ritorno dal vecchio continente, dove aveva firmato l'accordo di associazione politica e commerciale tra il Cile e l'Unione europea, Ricardo Lagos, primo presidente socialista dopo Salvador Allende, dichiarava davanti al Congresso: «Ho l'orgoglio di constatare fino a che punto i paesi europei ci considerino partner rispettabili, seri e responsabili. Il Cile entra con dignità dalla porta principale nel mondo sviluppato. E a volte mi chiedo perché, in tutto il mondo, esista questo crescente interesse ad associarsi con il nostro piccolo paese». Di fronte alla crisi che colpisce l'America latina, e mentre Santiago cerca preoccupata di rimanerne fuori, il presidente ha fissato davanti ai parlamentari le priorità del paese che il suo governo di centrosinistra (la Concertazione per la democrazia, Cpd) (1) vuole perseguire: combattere, attraverso il programma Chile solidario, la povertà che opprime il 20% dei 15 milioni di abitanti del paese; sviluppare il piano Auge (piano di accesso diretto alla sanità); raggiungere l'obiettivo di un'economia «sviluppata» per il 2010, anno del bicentenario dell'indipendenza. Il giaguaro zoppo dell'America latina Tra le priorità Lagos ha ricordato, ancora una volta, la sua volontà di realizzare il processo di transizione democratica attraverso la riforma della costituzione del 1980 (ereditata dalla dittatura), un programma annunciato da più di dieci anni e continuamente rinviato. Una politica neoliberale «economicamente corretta», che privilegia i grandi equilibri macroeconomici, e lo storico attaccamento alla stabilità delle sue istituzioni hanno fatto del Cile l'eccezione economica e politica dell'America latina. È diventato un mito non solo per gli osservatori stranieri, ma anche per i suoi abitanti che, divisi tra l'orgoglio nazionale e l'indifferenza, vivono questo «miracolo economico» con perplessità. Il mito cileno - il «giaguaro dell'America latina» - si basa su una straordinaria crescita che, tra il 1990 e il 1997, ha raggiunto il 7% annuo. L'inflazione è stabilizzata al 3,6%, il disavanzo di bilancio è inferiore all'1%, il debito estero è sotto controllo e la crescita si mantiene al 2,2% - la più forte del continente, insieme a quella del Brasile (1,5%) (2). «Ricardo Lagos e il suo governo vogliono tentare di condurre una rivoluzione socialdemocratica a partire dal terzo mondo», sottolinea Fernando Reyes Matta, uno dei consiglieri del presidente. Ma quali sono i costi che il paese deve sostenere per conservare un'economia stabile in un ambiente regionale in gravissima difficoltà? Anche se è accreditato di un basso «rischio paese» per quanto riguarda gli investimenti esteri (3), il Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp) lo descrive come un paese che ha bisogno di ricomporre la propria identità nazionale divisa e priva di esperienze collettive (4). «Il Cile è un paese credibile», ripete con insistenza tutte le volte che ne ha l'occasione Heraldo Muñoz, segretario generale del governo. Ma «la governabilità e la democrazia non sono la stessa cosa», replica il sociologo Tomás Moulian (5). «Ciò che abbiamo in Cile è una democrazia governabile, che consolida il nostro modello economico. Ma dobbiamo constatare che la paura non è scomparsa e che i cileni provano grande stanchezza». L'identità cilena - la «cilenità» - è diventata un'espressione senza senso (6) per i cittadini, colpiti da depressione, stress, delusione o euforia. Va sfatato un luogo comune, profondamente radicato e largamente diffuso dai media. Il successo economico non è stato il prodotto della politica degli «anni di Pinochet». La presunta buona gestione del dittatore, consigliato a partire dal 1975 dai «Chicago boys», ha provocato una crisi profonda nel 1982. Negli ultimi dodici anni, durante la gestione dei governi democratici della Concertazione, la crescita si è mantenuta al 5,8% annui; durante i 17 anni del regime militare non andava oltre il 2,4%. Le conseguenze della crisi del 1982 si fanno sentire ancora oggi, come ha dovuto ricordare il presidente Lagos, il 16 aprile 2002, in risposta alle critiche al suo governo a causa del basso tasso di crescita (paragonato agli anni immediatamente precedenti). Di fronte alle pressioni del mondo imprenditoriale e alla destra, sempre pronti a evocare lo spettro del caos quando la congiuntura economica diventa sfavorevole, il presidente ha sottolineato che quelle stesse persone che lo criticavano, avevano fatto sprofondare il paese in una delle peggiori crisi economiche della sua storia: «In questo paese non si dicono le cose come stanno o si dice solo mezza verità. Vorrei che si ricordasse che quella crisi è costata 500 milioni di dollari all'anno al Cile, dal 1982. E che oggi non abbiamo ancora finito di pagare». Le minacce della destra e degli ambienti economici sono costanti dopo il ritorno della democrazia nel 1990. Questi settori avevano rappresentato un pericolo reale per il primo governo della Concertazione, quello di Patricio Aylwin. Il possibile ritorno dei militari al potere era evocato al minimo segno di instabilità. Per scongiurare questa minaccia, il governo dell'epoca scelse - in nome della ragion di stato - di condurre una politica basata sulla «giustizia nella misura del possibile» e di imporre un consenso socialmente paralizzante. Ciò ha permesso di garantire la governabilità del paese e di proseguire nel processo di transizione democratica - senza i militari. Il Cile tuttavia rimane un paese diviso, politicamente e ideologicamente, come hanno dimostrato le elezioni del 2000. Candidato della Concertazione, Lagos ha vinto solo al secondo turno con il 51% dei voti di fronte al 48% di Joaquín Lavín - membro dell'Opus Dei e attuale sindaco di Santiago - dell'Unione democratica indipendente (Udi), partito della destra radicale, che ha sempre sostenuto il generale Pinochet. Secondo i responsabili del governo, una sola idea permette di unire tutta la società: «Il paese, per riaffermarsi in quanto tale, deve aprirsi al mondo esterno e giocare sino in fondo questa carta». Questa scelta è prima di tutto quella delle élite economiche e politiche, che hanno puntato sull'inserimento del paese nell'economia globalizzata. La loro strategia ottiene successi innegabili, ma presenta anche debolezze non trascurabili. Nonostante una politica commerciale molto diversificata con l'America latina, l'Unione europea, l'Asia e gli Stati uniti, il paese è dipendente dalle sue esportazioni e rimane molto sensibile alle fluttuazioni della congiuntura mondiale. Così, in seguito alla crisi asiatica, il suo tasso di disoccupazione è passato improvvisamente dal 5,3% nel 1997 al 9,8% nel 1999, per poi scendere leggermente (il 9,1% nel 2001). Dopo trent'anni di vertiginosi cambiamenti socioculturali, la società è diventata più complessa e più fragile di quanto lascino trasparire gli apparenti successi economici. Il suo modello obbliga «la gente», come si chiamano tra di loro i cileni, a entrare nella logica del successo individuale e della crescita, a trasformarsi, sotto la pressione, in drogati del lavoro - i cosiddetti «trabajólicos» - e a vivere molto spesso in contraddizione con i loro stessi valori per non ritrovarsi fuori dal sistema. Più che un'idea comune, condividono un'ossessione comune. L'assenza di un progetto culturale per tutta la società rappresenta un problema comune. Una strana amnesia collettiva Il legame storico che unisce il «Cile del successo» del periodo post-autoritario al «Cile del passato», quello della dittatura, sembra essere scomparso sotto l'effetto di una strana «amnesia collettiva» (7). È tuttavia essenziale per la ricostruzione di una società che non è ancora riuscita a elaborare completamente il suo lutto. Il 4 luglio 2002, quando il generale Pinochet si è dimesso dalla carica di senatore a vita che si era autoconcesso nella costituzione del 1980, i cileni, tra il sollievo della sua scomparsa dalla vita pubblica e l'amarezza di constatare che sfuggiva alla giustizia, hanno visto scomparire l'occasione unica di realizzare un reale bilancio storico e morale dei loro momenti più bui. Ma il governo ha preferito «che il passato rimanesse passato e che i cileni voltassero definitivamente pagina», secondo le parole pronunciate lo stesso giorno da Heraldo Muñoz. Ancora una volta, la scelta del governo è andata contro la giustizia per paura che un processo - che peraltro aveva promesso di fare davanti alla comunità internazionale - potesse esacerbare le tensioni sociali. Un rischio tutt'altro che ipotetico. L'opinione pubblica voleva questo processo. I sostenitori del generale erano convinti che in questa occasione avrebbe potuto dimostrare la validità della sua azione e che avrebbe potuto provare la sua innocenza; al contrario, gli oppositori al regime militare vedevano nel processo il momento della giustizia e la possibilità di consolidare le basi reali della democrazia. Ma il processo non avrà mai luogo. L'azione giudiziaria contro l'ex dittatore è stata definitivamente sospesa per «lieve demenza senile». Anche se ciò non gli ha impedito di scrivere la sua lettera di dimissioni al senato e di dichiarare, telefonicamente al presidente di questa istituzione, Andres Zaldivar, «Non sono pazzo!» Ancora una volta la democrazia e la giustizia sono state ridicolizzate, e la sensazione di malessere permane. Neanche la trasformazione forzata dei cileni, da «attori sociali» in «clienti consumatori» è stata accettata. Gli emarginati dalla competizione economica hanno interiorizzato la loro impotenza (8): «visto che non possiamo cambiare l'ordine costituito, ognuno se la cava come può», commenta Miguel, piccolo venditore ambulante che vende telefoni portatili, antifurti e schede telefoniche sugli autobus o per le strade del centro di Santiago. Tutto è successo velocemente, troppo velocemente, a partire dal successo della «Primavera del plebiscito» nel 1988, quando il «No» a Pinochet ha vinto, e il successo economico degli anni '90. «Si voleva celebrare la primavera, il "Cambiamento" [slogan della campagna in favore del no], ma quello che abbiamo visto e fatto non è stato altro che la celebrazione del neoliberismo», analizza con ironia un funzionario del governo, all'epoca dirigente della Federazione degli studenti dell'università del Cile (Fech). «Il "Cambiamento" ha portato agli anni del successo economico, ma non ha contribuito ad alcuna riforma costituzionale o sociale. Eravamo stanchi, con un ridotto margine di manovra, così ci siamo lasciati cullare dalla crescita». Una felicità forse più accessibile. Nel frattempo la destra riunita nell'Alleanza per il Cile (Udi e Rinnovamento nazionale) si è adattata ai tempi nuovi e ha consolidato la propria posizione. Ha saputo mescolare ideologia e clientelismo, militantismo e coesione. Con abile demagogia, ha ripreso gli argomenti dei suoi avversari, dai quali Lavín ha tratto lo slogan della campagna presidenziale: «Viva il cambiamento!». Questa destra, alla quale appartengono imprenditori e molti militari tornati alla vita civile nel mondo dell'impresa, si mostra oggi molto più solida dei partiti della Concertazione, divisi e logorati dall'esercizio del potere. Così il 16 luglio 2002, alla fine di due anni di lavoro, il progetto di legge sulla creazione del Consiglio della cultura e del Fondo nazionale dello sviluppo culturale, al centro del programma della Concertazione, è stato sottoposto al voto dell'Assemblea nazionale. Tuttavia, per mancanza di organizzazione molti deputati della Concertazione erano assenti dall'emiciclo nel momento del voto. Così il testo, mancando il quorum necessario, non ha potuto essere adottato. Lagos è stato costretto a lanciare un energico richiamo all'ordine sulle responsabilità che conferisce il compito di governare e ha usato la facoltà che gli concede l'articolo 65 della costituzione per presentare di nuovo il progetto di legge, che alla fine è stato votato e approvato il mese successivo. Se ha risposto bene alle necessità del primo governo democratico, la strada del «consenso», presentata come indispensabile, è divenuta in seguito un ostacolo alla mobilitazione della società. Infatti la transizione ha allontanato quelle forze sociali che erano state in prima linea nella lotta contro la dittatura. Anche in questo caso disillusione e rassegnazione hanno colpito molte persone. E sono in molti a pensare, come dice Tomás Moulian, che «Ricardo Lagos, nonostante il suo carisma, sia arrivato nel momento sbagliato dal punto di vista economico, e troppo tardi per poter riuscire a cambiare la costituzione». Svuotate del loro contenuto politico, le mobilitazioni sociali sono presentate come semplici disordini a carattere criminale. Nel luglio 2002 gli studenti liceali ne hanno fatto le spese durante le manifestazioni contro l'aumento delle tariffe dei trasporti scolastici. Anche se hanno vinto la loro battaglia, la stampa, la televisione e alcune dichiarazioni del governo hanno messo l'accento soprattutto sui disordini e sui danni all'ordine pubblico che avevano provocato. I media non hanno detto praticamente nulla della loro lunga lista di rivendicazioni, anche se erano stati invitati dal governo a discuterne nell'ambito di un'iniziativa di dialogo. Allo stesso modo, le manifestazioni che hanno caratterizzato il 29° anniversario del colpo di stato contro Salvador Allende, l'11 settembre 2002, alla periferia di Santiago e che si sono saldate con un bilancio di 14 poliziotti feriti e 505 arresti, sono state attribuite dalle forze dell'ordine e dal governo a gruppi di giovani estremisti. L'individualismo competitivo che ha sostituito il concetto di bene comune spiega il rifiuto dei cileni di pagare le imposte per finanziare le scuole pubbliche. Preferiscono affrontare sacrifici maggiori, lavorando di più, per mandare i figli in costose scuole private! Affascinati dal successo individuale, considerano del tutto ingiustificato fare degli sforzi per partecipare al benessere degli altri . Non vedono più le relazioni dirette di causa-effetto. E a volte non le vede neanche il governo. Lo zoccolo duro della miseria Le radici dell'idea di uguaglianza sono state cancellate dalla dittatura, che ha distrutto l'immaginario collettivo e il suo potenziale di mobilitazione. Attualmente anche una parte del governo, diviso tra liberali e socialdemocratici, vi ha rinunciato. E la stessa società è convinta o rassegnata all'idea che la correzione delle disparità sociali passi attraverso il successo individuale e la crescita. Il percorso di Mauricio, nato a Valparaiso, è da questo punto di vista esemplare. Suo padre, artigiano orologiaio, lo ha mandato a Santiago a studiare ingegneria. Con orgoglio dice di saper adattarsi a tutte le difficoltà del mercato del lavoro. «La mia situazione è migliore di quella dei miei genitori. Certo, provo insicurezza e un'angoscia legata all'idea di perdere il lavoro e di non trovarne un altro. Ma mi sto specializzando e andrà meglio. Del resto poiché tutto il mio denaro serve a pagare l'assicurazione medica, la pensione e i debiti senza contare che i figli non vanno ancora all'università, non ho altra soluzione che quella di specializzarmi e di lavorare più degli altri per evitare che l'impresa mi licenzi». Secondo i parametri della Banca mondiale, la povertà è diminuita. Tra il 1987 e il 1998 la povertà estrema (meno di 1,6 euro al giorno) è passata dal 13 al 4% della popolazione e la povertà (meno di 3 euro al giorno) dal 40 al 17%. L'assenza di una politica di redistribuzione dei redditi e l'inesistenza di misure per combattere la miseria in tutte le sue dimensioni hanno però provocato il consolidamento di un certo tipo di povertà, il cosiddetto «zoccolo duro» della povertà. «Con tante ricchezze, con il mare, con la quantità di risorse minerarie di cui disponiamo, e con i discorsi che ci fanno sui successi del paese, a volte mi chiedo perché non riesco anch'io ad avere successo», sospira Pedro, abitante del nord del paese arrivato a Santiago, dove non ha trovato lavoro. «E mi chiedo: perché noi cileni dobbiamo continuare ad avere fame?» Il 10% delle famiglie più ricche si spartisce il 41% dei redditi mentre al 20% di quelle più povere va solo il 3,7% (9). Esistono ovviamente degli aiuti e molti programmi di assistenza, ma finora hanno rappresentato solo semplici palliativi senza permettere un reinserimento stabile. Natura diversa ha il programma Chile solidario, che gode della fiducia di tutti gli organismi e degli operatori sociali impegnati nella lotta contro la povertà. Tanto i sociologi del Centro di studi sociali Sur, del ministero della Pianificazione, che quelli del Programma povertà urbana (Ppu) lo sostengono. Un controllo diretto di ogni beneficiario permetterà un trattamento integrale: problemi di riadattamento, alcolismo, depressione, emarginazione o mancanza di formazione. L'obiettivo è quello di creare un completo sistema di protezione destinato alle 226.000 famiglie più povere del paese. «La povertà e l'indigenza rimangono spesso invisibili», commenta Fernando Munita, antropologo e condirettore del Ppu. «Dall'esterno si vede solo la struttura, una piccola abitazione, ma è all'interno che si trovano tutti i problemi legati alla miseria. L'aspetto importante di Chile solidario è la sua volontà di trattare non solo il problema del lavoro, ma la situazione nella sua integralità. Tuttavia non credo che le risorse destinate al programma siano sufficienti». In un'America latina in crisi, il Cile rimarrà difficilmente un'isola di stabilità in mancanza di riforme sociali capaci di fermare il processo di divisione della società. Per poter reinventarsi un futuro, i cileni vogliono uscire da questo falso «consenso», che non risponde più alle loro grandi speranze di cambiamento.
note:
* Giornalista.
(1) Partito democratico cristiano (Pdc), Partito socialista (Ps), Partito per la democrazia (Ppd) e Partito radicale socialdemocratico (Prsd).
(2) Country Report, Chile, The Economist Intelligence Unit, New York, luglio 2002.
(3) The Economist Intelligence Unit, http://www.eiu. com, ottobre 2002.
(4) Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp), Desarrollo humano en Chile. 2002. Nosotros los Chilenos: un desafio cultural, Santiago, 2002.
(5) Tomás Moulian, Chile Actual: Anatomia de un mito, Arics-Lom, Cile, 1997.
(6) «Lo chileno, una herencia cuestionada», Undp, 2002, cit. Il rapporto distingue nella popolazione tre tipi di approccio. Il cileno orgoglioso (il 32%), convinto di esistere grazie alla sua storia e ai suoi costumi: persone di 55 anni. Il cileno insicuro (il 38%), non sa definirsi né a quale storia fare riferimento, è disorientato e deluso: fondamentalmente la classe media. Il cileno a disagio (il 30%) crede che non si possa parlare di «cilenità»; non si sente parte integrante del Cile di oggi e la sua immagine della «cilenità» è legata ad alcuni personaggi più che a una storia o a delle istitizioni: le classi economiche inferiori.
(7) Patrick Zachmann, Chili: les routes de la mémoire, Marval, Parigi, 2002.
(8) Chiamata dagli operatori sociali desesperanza aprehendida, che significa la delusione, la rinuncia e l'accettazione, in altre parole lo scoraggiamento.
(9) Fondo monetario internazionale, New York, agosto 2002. (Traduzione di A. D. R.)
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