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TeknoCasa: un altro modo di vivere, abitare e cooperare nel sud milano
IL BISOGNO
Chi dà vita al progetto è un soggetto collettivo multiforme: lavoratori in nero, soci di cooperative della logistica, co.co.co. dell’inflazionato mondo informatico, studenti universitari, lavoratori del sociale… tutti tra i venti e i cinquanta anni. Multiforme anche perché tutti con passioni, attitudini, modi di vita e di espressone che non coincidono con il lavoro; anzi una pluralità di soggetti che insieme maturano consapevolezza e agire, che considerano il lavoro sempre uno strumento di controllo della propria e altrui vita. Ognuno di questi soggetti viveva in solitudine il suo bisogno di casa: chi sfrattato, chi nomade da un abitazione all’altra, chi costretto a rivolgersi alla propria famiglia, chi alle prese con gli affitti da strozzini…questa insoddisfazione e questo bisogno sono cominciati a circolare e si sono fatti progetto all’interno di un percorso che da qualche anno parlava e agiva su precarietà e reddito, dentro e fuori il centro sociale.
Una casa in affitto ti costa circa 500 euro ogni mese, più o meno la metà del tuo stipendio e quindi più o meno la metà del tuo tempo di lavoro, quello riconosciuto.
Se vuoi fare un mutuo non puoi certo presentarti a banche e agenzie immobiliari con un contratto che scade ogni 3 mesi: devi essere uno di quei “fortunati” che possiedono contratti a tempo indeterminato e se ci riesci ti sei guadagnato il privilegio di lavorare e di vivere per ingrassare le suddette banche e agenzie.
La casa popolare? Beh, anche quella un miraggio: le domande per le case popolari aumentano (a San Giuliano Milanese sono aumentate del 25% nell’ultimo anno), ma non si costruiscono più case di edilizia pubblica. Anche la percezione del diritto è in continua involuzione: solo chi si sente “sfigato” fa la domanda per l’assegnazione, è un po’ ammettere che “non ce l’hanno fatta”. Il comune inoltre continua a dichiarare che non esiste un problema abitativo e che comunque la risoluzione è da ricercare nell’espulsione di chi alloggia avendo un reddito appena superiore ai limiti previsti. Invece, secondo il progetto di riforma della Regione Lombardia, il patrimonio pubblico già esistente rimarrà di proprietà dell’ALER, ma la sua gestione passerà in mano ad un consorzio di cooperative private tra cui l’Edil Nord… di un certo Berlusconi: risultato? Gli affitti aumenteranno del 200% nel giro di 3 anni, cancellando così questo diritto anche per chi pensava di averlo acquisito. Senza parlare dei criteri di assegnazione delle case popolari, vetusti e inadeguati a rappresentare il variegato universo delle nuove modalità di essere al lavoro, o meglio i nuovi e variegati modi di vivere.
Da queste considerazioni, e dalla condivisione di queste condizioni di vita, nasce il progetto Teknocasa, un esperimento di percorso collettivo che, mettendo in discussione la gestione delle risorse nel territorio, vuole conquistarsi la possibilità di avere un tetto sulla testa e dar vita ad un esperimento riproducibile: un altro modo di vivere, abitare e cooperare nel sud milano.
Alcuni dei soggetti che danno vita al progetto Teknocasa stanno sperimentando percorsi di autoreddito nel centro sociale Eterotopia. All’interno di questo spazio pubblico non istituzionale la pratica dell’autogestione ha portato alcuni dei soggetti partecipanti ad abbandonare il proprio lavoro, a vedere e vivere la flessibilità come una possibilità di liberazione, se affrontata collettivamente: entrare ed uscire dal mercato del lavoro per inventare un altro modo di vivere in comune, praticare la riappropriazione e gestione diretta delle risorse, per una migliore qualità della vita propria e del territorio.
Proprio dal confronto su condizioni di vita, bisogni e desideri tra i partecipanti al progetto di autoreddito che si accende la scintilla di Teknocasa: tra chi ha una casa di proprietà, chi vive a casa dei genitori e chi è in affitto. E’ a partire da un ragionamento sul reddito individuale e collettivo che abbiamo deciso di intraprendere inizialmente l’occupazione di Teknocasa, riappropriarci di uno spazio al fine di aumentare il reddito individuale e così diminuire il ricatto del lavoro e quindi liberare tempo da dedicare alla libera cooperazione. Nel proporlo abbiamo incontrato altri soggetti che, essendo in continuo attraversamento del centro, abbiamo intercettato, con loro abbiamo approfondito la relazione, in questo caso, a partire dal bisogno di casa: le risorse nel territorio ci sono, e i soggetti disposti a sperimentare una vita differente in questo luogo si incontrano, lo attraversano e creano relazioni e progetti. Per noi si tratta di portare avanti una vertenza nel territorio che, partendo dalla pratica dell’occupazione, e quindi dalla riappropriazione diretta delle risorse, proponga una progettualità che sia riproducibile e tenti di soddisfare i differenti bisogni individuali e collettivi.
IL PROGETTO Dopo aver monitorato il territorio viene individuata un area dimessa privata: si trova nella ex-zona industriale di San Giuliano, in via Cavour, uno spicchio di città in cui dominano vecchi capannoni col tetto in amianto, segno di un’ attività produttiva che non esiste più … o meglio non è che non esiste più, si è solamente spostata un po’ più in là, un po’ più a sud e ha fatto un investimento: ha acquistato un altro capannoncino; nel frattempo ha lasciato a casa i lavoratori più anziani e ne ha assunti di nuovi - più giovani e con meno garanzie- e soprattutto ora guarda lievitare il valore dell’area che ha abbandonato (un profitto maggiore dei 40 anni in fabbrichetta a lavurà) e che in un futuro prossimo vedrà sorgere palazzoni dal costo minimo di 2/3.000 € al mq che faranno parte della nuova zona residenziale. Le ricerche all’interno di quel labirinto della burocrazia che è il catasto ci dicono qualcosa sulla proprietà, ma solo tramite verifiche incrociate e approfondimenti ci rendiamo conto che a detenere le risorse e a voler costruire sono sempre i soliti noti, le solite cooperative (estensione delle forze che governano la città…. o forse è più giusto invertire i 2 membri) che, tramite l’intricato sistema di matrioske che abbiamo imparato a conoscere, nascondono le proprie speculazioni e fanno profitti.
Iniziano i ragionamenti anche sulla tipologia di edilizia residenziale privata che scelgono di realizzare: fino a 5 anni fa si costruivano case private, ma di edilizia convenzionata o comunque a dei costi “popolari” (1000-1500 euro al mq), ora invece le nuove fortezze medievali molto pittoresche che vediamo spuntare come funghi sul territorio, costano dai 2000-3000 euro in su. Queste osservazioni si intrecciano con i racconti, l’inchiesta e così scopriamo l’ennesima espulsione di corpi nel continuo disegno della metropoli, uno slittamento da Milano verso la periferia. Nei paesoni di periferia come San Giuliano, oggi si spostano gli espulsi dalla città, persone che con i redditi con cui un tempo potevano vivere in città, ora possono “solo” accedere ai prezzi in vigore nell’ hinterland. Tutta un’altra fetta di popolazione invece, dall’hinterland deve spostarsi di almeno 20/30 Km per ritrovare quei prezzi che prima gli permettevano di comprare casa a San Giuliano.
Dopo una campagna pubblica di diffusione del progetto nella città e nei comuni limitrofi alcuni mesi prima dell’occupazione, il 29 marzo 2003 viene occupata la palazzina e presentato il giorno stesso il progetto agli amministratori della città, costretti ad accorrere sul luogo dal “gruppo di autonomi sangiulianesi” come hanno riportato i giornalisti.
Il progetto propone al comune di acquistare l’area attraverso una vertenza con la proprietà, per costruire uno spazio strutturato in questo modo:
1° piano: da destinare alle emergenze abitative, solitamente legate agli sfratti, per non affrontare questo problema affidandosi ai privati; questo servizio integrato ha anche lo scopo di mantenere una relazione di contiguità con chi ha problemi di casa nella città per affrontarli insieme. 2° piano: creazione di un ostello autogestito: una soluzione accessibile a tutti quegli studenti, lavoratori, turisti, artisti etc. etc. che attraversano, per periodi più o meno brevi l'area metropolitana milanese. Uno strumento teso a favorire la mobilità e gli scambi interculturali in un territorio come quello milanese che si proclama nodo nevralgico dell'Europa. 3° piano :appartamenti autogestiti dagli occupanti. Un altro modo di pensare l’abitare in comune, la soddisfazione materiale di un bisogno per dei soggetti che producono ricchezza, ma non vengono riconosciuti nei criteri e nelle categorie ereditate da un sistema produttivo ormai superato. Una nuova progettualità tesa ad allargare ed innovare la sfera dei diritti
Il progetto si rifà alla pratica dell'autorecupero, ovvero il riutilizzo di un'area dismessa da ristrutturare e destinare a scopo abitativo. Il recupero di uno di questi spazi, da parte di soggetti che vivono in prima persona le complesse problematiche della casa, è quindi un tentativo di costituire uno spazio pubblico, una risorsa per la collettività, in opposizione alla speculazione edilizia. Infatti nel processo di riconversione di questa ex-area industriale in area residenziale, il piano regolatore non prevede nessun vincolo che garantisca la possibilità di un utilizzo sociale di almeno una parte delle nuove costruzioni, anzi scopriamo che vengono monetizzate un tot al mq quelle aree che in proporzione al volume di case costruite dovrebbero essere destinate a verde. Alveari e parcheggi. La questione della casa riflette in qualche modo la frammentarietà del mercato del lavoro: diversi soggetti vivono questo problema e portano istanze differenti, non sempre riconducibili ad uno schema comune che vada oltre la rivendicazione di un tetto. Per questo motivo si è scelto di costruire un progetto che tentasse di dare, in uno stesso luogo, risposta ad una pluralità di bisogni e desideri, in un primo tentativo di affrontare questa complessità: 3 piani, 3 spazi differenti, accomunati però dal loro essere risorse pubbliche. Il progetto era supportato anche da cospicui finanziamenti: difatti la Regione Lombardia prevede, all’interno del P.R.E.R.P. 2002-2004 (Piano Residenziale per l’Edilizia Residenziale Pubblica), finanziamenti che coprono fino all’80% dei costi per l’acquisto e la ristrutturazione di aree dimesse da parte dei Comuni, affidandone la gestione a cooperative di abitanti. Il giorno stesso dell’occupazione il sindaco firma una dichiarazione di intenti che garantisce gli occupanti e si impegna a cooperare per la realizzazione di questo progetto e di altri simili in altre aree dimesse. La casa occupata diventa crocevia di soggetti differenti con un bisogno in comune: la casa, un proprio spazio di vita che da sempre è assoggettato anch’esso all’imposizione di lavoro, al riconoscimento, da parte delle istituzioni, della persona come soggetto produttivo: immigrati, inquilini sotto sfratto, precari ecc ecc. Il problema della casa è trasversale e travolge tutti, ma si può riassumere con poche parole: bisogno di reddito, diretto o indiretto che sia, questa è la chiave di lettura che proponiamo nell’affrontare il problema abitativo. E che soddisfazione, durante l’occupazione, assistere ad una intervista di un occupante di Teknocasa che si raccontava e affrontava la questione della sua precarietà e del suo problema abitativo come un problema di reddito/tempo.
Gli occupanti cominciano ad attraversare la città e ad aprire questo spazio riconquistato; viene aperto uno sportello teso ad affrontare in maniera differente i diversi bisogni che vengono espressi: dalla creazione di liste di occupazione, all’intervento per casi d’emergenza, di migranti e non. Viene istituito il primo “Bando di non rassegnazione” aperto a tutti, incondizionato, per l’”assegnazione” di uno spazio, all’interno della casa, da ristrutturare subito per dare una risposta immediata ad alcune emergenze abitative. Intanto la vertenza procede con una serie di incontri con l’amministrazione ai quali partecipano non solo gli occupanti, ma anche cittadini aggregatisi strada facendo; la vertenza è pubblica e viene continuamente rilanciata all’interno della città: l’occupazione non è una semplice rivendicazione tesa a soddisfare il bisogno di coloro che hanno occupato, ma vuole mettere in discussione la pratica dei progetti calati dall’alto per il territorio, coinvolgendo le persone nella gestione diretta delle risorse e nell’immaginare il luogo dove abita. Proprio per questo, dopo un mese preciso, gli occupanti vengono sgomberati e denunciati dai carabinieri: mentre svuotano la casa lo stesso sindaco si presenta con la “futura” proprietà e discute con lei dei progetti sull’area: è da questo momento che Teknocasa diventa nomade.
TEKNOCASA NOMADE Due mesi in giro per la città, prima con le tende nella piazza centrale, poi con la roulotte nei quartieri delle case popolari, per informare e raccontare, per ascoltare le storie degli altri, per richiedere un consiglio comunale aperto sulla casa: vengono raccolte 600 firme che chiedono l’utilizzo dei fondi del P.R.E.R.P. per realizzare progetti che prevedano un utilizzo sociale delle risorse. Intanto viene prima interrotta e poi presidiata l’attività del Consiglio Comunale che sta accelerando i tempi per acquisire il P.R.U. (Piano di Riqualificazione Urbana) tramite il quale costruiranno sull’area di Teknocasa e cerca di mettere in discussione l’attività e la stessa vertenza del centro sociale Eterotopia. Acquisiamo competenze e informazioni durante le sedute del consiglio comunale e scopriamo la possibilità di presentare osservazioni al piano di riqualificazione urbana dell’area da noi occupata: ne abbiamo presentate 4 di osservazioni su amianto, verde e servizi e intanto attendiamo il consiglio comunale aperto. Il comune presenta un progetto di riconversione delle soffitte di edifici di proprietà pubblica per costruire 34 nuovi appartamenti e noi dichiariamo insoddisfazione e rivendichiamo questa scelta dell’amministrazione come conseguenza della nostra lotta. Sapevamo che l’occupazione di Teknocasa era l’inizio di una vertenza territoriale sulla questione abitativa, avevamo messo in conto la possibilità di uno sgombero. Quando siamo riusciti a far capire al sindaco che l’occupazione non era simbolica e ci siamo ritrovati a dover vagliare le soluzioni abitative proposte dal comune che non prevedevano alcun progettualità collettiva, ma rispondevano solo ai bisogni individuali degli occupanti, abbiamo deciso insieme di affrontare l’eventualità di uno sgombero. Ma lo sgombero di Teknocasa comunque ci ha svelato in maniera empirica la relazione che intercorre tra precarietà e repressione, quanto questi due termini si confondono. Se la precarietà è la repressione delle possibilità di azioni individuali attraverso il lavoro, lo sgombero è la repressione delle possibilità di azioni collettive attraverso la polizia. Il nomadismo di Teknocasa ( l’inchiesta, le difficoltà di relazione tra occupanti dopo lo sgombero) non ha portato nell’ombra questa tematica, anzi ha fatto esplodere con più fragore la questione abitativa: abitare per le vie della città ci ha permesso di spiegare questo progetto e di avere una risposta nel riconoscimento non solo del bisogno, ma anche della pratica adottata, senza distinzioni di età o condizione sociale; ci ha permesso di discutere con la città a 4 occhi per sfatare menzogne e svelare la guerra fra poveri che vogliono fomentare : se dicono che le risorse non ci sono dobbiamo chiederne di più e per tutti, non accontentarci di quello che possiamo ottenere a discapito di qualcun’altro. Vogliamo reddito per tutti e non privilegi per pochi, questo abbiamo cercato di spiegare in mille modi alle mille differenti singolarità che abbiamo incontrato.
UN ALTRO QUARTIERE E’ POSSIBILE Il progetto Teknocasa ha investito tutta la città e si propone ora un’inchiesta nei quartieri per una gestione partecipata delle risorse, per immaginare dal basso il proprio territorio. Con uno studio di architetti abbiamo proposto un diverso piano di riqualificazione urbana delle aree dismesse denominato “un altro quartiere è possibile”. Cartine, disegni, calcoli volumetrici… e un specie di questionario che metteremo in tutte le caselle postali del quartiere proponendo una visione della città che superi la divisione tra pubblico e privato, cercando di spostare in avanti la questione del bisogno di casa all’interno di un discorso sull’abitare e sul reddito, tentando di fare inchiesta e interpretandola come comunicazione, relazione, azione. A partire dalla proposta di un progetto altro nella ex-area industriale, vogliamo risvegliare i bisogni e i desideri assopiti dei disillusi cittadini, veicolare altri immaginari, reclamare altre risorse: per costruire altre occupazioni, per trasformare i territori in cui abitiamo, per inventarci altri modi di abitare in comune, per riappropriarci di porzioni di reddito che ci spettano, per disegnare e non subire la città che abitiamo. La casa è una grossa porzione di questo reddito, è la possibilità di avere uno spazio dove vivere, uno spazio di autodeterminazione che deve passare da una dimensione collettiva se vuol essere progetto di trasformazione, una pratica comune e non una semplice rivendicazione di pochi o di tanti bisognosi di casa. Il problema della casa è questione di reddito, è questione di vita. Rivendicare reddito incondizionato – e quindi anche una casa per tutti – significa pensare la possibilità di essere al di là del lavoro, significa immaginare attività e cooperazioni differenti che producano il mondo e diverse soggettività e non la distruzione di entrambi in nome del profitto. Significa parlare e praticare biopolitica e non semplicemente farne rappresentazione.
TeknoCasa
www.ecn.org/eterotopia/casa
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