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press mayday post collection
by otted Sunday, May. 02, 2004 at 12:26 PM mail:

-

press release pre mayday || pressrelease 1maggio

dal manifesto tutti in marcia a tempo determinato | s.precario, che la festa ti accompagni

primo maggio radiopop || repubblica || dall'espresso la parata dei precari tra Milano e Barcellona

3 maggio
corsera milano || la repubblica || libero || il giorno

4 maggio
il manifesto || liberazione || corriere della sera (nazionale pagina 2)

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Da Carta
by Da Carta Sunday, Jun. 06, 2004 at 9:25 PM mail:

Piccola storia di una strana Parade

Siamo più o meno nel 2000. Siamo più o meno tutti lavoratori, alcuni ancora studenti. Siamo più o meno nella merda con il lavoro, o anche con la casa. Cambiano i contratti e i rapporti di lavoro, cambiano gli stipendi [e non solo per colpa dell’euro...].
Nasce ChainWorkers, l’azione diretta e «mediatica» è la base da cui partire: volantinaggi nelle catene, per parlare direttamente con i lavoratori, e una «webzine», un giornale in internet, chainworkers.org, per creare conflitto e pensiero politico di più ampio respiro. Mettere in comunicazione chi sta facendo le sue battaglie, non solo in Italia, contro situazioni lavorative che sono peggio che sfruttamento, e analizzare le piccole vittorie che si sono ottenute.
Circa un anno dopo, comincia a estendersi anche il nuovo modo di vedere/pensare il primo maggio. Da festa dei lavoratori diventa, al Bulk [il centro sociale milanese cui appartengono gli autori di questo articolo, ndr.], «Festa del diritto all’ozio», si parlava di reddito di cittadinanza e cose del genere. La sfilata di grandi sindacati e personalità della politica non ci rappresenta più. Il primo maggio deve essere il punto di incontro di chi non si può permettere neanche le battaglie sindacali, perché diritti sul lavoro non ne ha, è già tanto se riesce a decidere quando andare in bagno. Sono i lavoratori atipici [che poi ormai, più tipici di così...] i protagonisti assoluti di questa giornata.
Le idee si concretizzano nella proposta di un appuntamento alternativo, per il primo maggio, una manifestazione come piace a noi, come in Italia se ne vedono ancora troppo poche, non contro il corteo che tradizionalmente sfila la mattina, ma qualcosa per quelli cui delle ricorrenze frega poco, se non sono piene di contenuti nuovi, attuali, vivi.
Si comincia a parlare di questo con la Cub, e poi cominciano le assemblee cittadine, centri sociali e sindacati di base sono i primi a farsi avanti, a rispondere alla chiamata, con curiosità anche se con un po’ di diffidenza. Reti, relazioni e affinità rendono nazionale l’ambito di creazione della mobilitazione.
La periferia commercial-dormitorio
Contemporaneamente, crescono in maniera esponenziale le azioni sul territorio, a partire dall’invasione del centro commerciale Metropoli in uno dei tanti quartieri commercial-dormitorio della periferia milanese: volantinaggio, musica, parole, folla, schiaffoni dalle guardie, ancora volantinaggio, parole, folla, rilanciamo l’appuntamento pomeridiano per il primo maggio e alla fine creiamo così tanto «disturbo», secondo la direzione, che il centro commerciale viene chiuso, sabato pomeriggio. Questa è la strada, e non l’abbandoniamo di sicuro.
Nasce così la Mayday Parade.
Nel 2001, in piazza siamo cinquemila, sappiamo che stiamo affrontando una sfida, una scommessa. I numeri ci sono e la prima Mayday Parade è una festa, lo spirito con il quale è nato questo appuntamento viene raccolto con scioltezza da chi si riversa per le vie di Milano.
Come volevamo che fosse. Ci sembra già una grandissima vittoria, parlare di precarietà come non ha mai fatto nessuno, mettere i giovani al centro del dibattito, cercare di scardinare i processi di produzione, vendita, consumo in cui siamo ingabbiati, non sopportare offese e umiliazioni [oggi si parla di mobbing, ma non è un fenomeno poi così nuovo...] da capi che da insegnarci non hanno niente, anche se siamo costretti ad accettare contratti di formazione-lavoro, o stages che di formativo e qualificante hanno poco o un cazzo.
Il lavoro continua, la Mayday è stata solo un punto di partenza.
La Mayday del 2002 raddoppia la prima edizione, si pensano le cose in grande, i camion in piazza sono sempre di più, e ad aprire il fiume di persone quell’anno c’è un «bilico», un Tir, di dodici metri, seguito da rappresentazioni esplicite delle esistenze precarie che animano il percorso da Piazza 24 maggio all’Arco della pace. Tra i precari dello spettacolo incatenati a un business che li lascia quando meglio crede, le telecamere degli attivisti scesi in piazza per diventare il proprio media. Il pink fa capolino nelle strade fra una bicicletta e un tamburo, il centro di Milano è invaso dalla gente. La festa finisce sempre più tardi, non si smette mai di ballare.
Il grande fratello ti sta osservando
Fra il 2002 e il 2003 la discussione si fa sempre più composita e completa. Dalla precarietà del lavoro si comincia a parlare di precarietà della vita, dagli affetti alla casa. Libertà di espressione, libertà di parola, libertà di pensiero. Sembrano tutte cose scontate, ma ogni giorno che passa ci rendiamo conto che non è così.
Nel 2003 la situazione è più tesa. A marzo Dax viene ucciso, bisogna affrontare anche questa situazione senza farsi intimidire, senza farsi spaventare.
Anche creare conflitto rende precari, oggi sei fuori domani sei dentro, oggi sei vivo domani ti hanno ammazzato. Sempre più persone lavorano con ChainWorkers, sono sempre di più le relazioni . Da Barcellona, la «griffe» più in voga del momento, Yomango [vedi scheda nella pagina seguente, ndr.]; poi, chi crede che l’unica legge che vogliamo sia quella del desiderio; o chi non si sente più tranquillo sapendo che il grande fratello lo sta osservando e decide di accecarlo; chi-non-odia-il-traffico-lo-è.
La Mayday numero 3 è enorme. I camion sono tantissimi, le persone sono tantissime, pare che per una volta abbiamo azzeccato la formula per arrivare alla «società civile», ci ascoltano, ci seguono, ci guidano, ci parlano, come è giusto che sia, lavoratori interinali, a termine, in formazione, lavoratori delle catene, lavoratori sottopagati, lavoratori senza le ferie, lavoratori senza le assicurazioni, lavoratori migranti, lavoratori discriminati, lavoratori senza casa, lavoratori precari.Uomini e donne quotidianamente costretti a scendere a patti con la difficoltà di arrivare alla fine del mese, che non abbassano la loro cresta da co.co.co.
In piazza, una moltitudine [è davvero il caso di dirlo] di persone diverse: se il primo anno avevamo a che fare con sindacati di base e centri sociali, adesso abbiamo a che fare con un fiume in piena che non si può fermare.
I devoti di San Precario
Nei mesi successivi nascono Circo precario e Natale precario, tra uno «sciopero alla milanese» degli autoferrotramvieri che blocca la città, e le lamentele delle «sciure» impellicciate che fanno lo shopping, Babbo Precario chiede l’obolo per i cassintegrati direttamente ai direttori delle grandi catene. Centri commerciali e catene di vario tipo, dalla «ristorazione» ai videonoleggi, sono prese di mira, continuano una dopo l’altra le azioni dirette. Unico scopo: scardinare il meccanismo del guadagno, bloccare la possibilità di vendere qualunque cosa a qualunque prezzo.
Siamo nel 2004, e il 29 febbraio festeggiamo San Precario, processioni precarie di persone precarie. Nei supermercati di tutta Italia si moltiplicano le iniziative di riduzione dei prezzi per tutti i clienti presenti. Sconti veri, non come quelli con i punti per i clienti affezionati, che tanto quello che ti tolgono l’hai già pagato.
Negli anni si consolidano anche i rapporti transeuropei. Scopriamo una certa affinità specialmente con gli spagnoli [specialmente catalani], pratiche e contenuti si scambiano, insegniamo e impariamo, percorriamo strade naturalmente parallele, lontananza fisica, vicinanza di pensiero.
Gli intermittenti dello spettacolo francesi vengono in tour in Italia. Si apre anche questa finestra sul concetto di precarietà generalizzata. In Francia occupano studi televisivi durante la trasmissione del telegiornale, fanno della casa di Gérard Depardieu una base per creare conflitto. Cresce la voglia di costruire un appuntamento europeo.
Nasce l’EuroMayday: le strade di Milano e Barcellona saranno contemporaneamente invase dalle persone che chiedono «solo» una qualità della vita migliore. Partiti e sindacati confederali cominciano a capire che la precarietà della vita va affrontata con le nostre modalità, con i nostri contenuti. Da parte di molte «personalità» della politica italiana vengono mossi i primi passi per intraprendere un percorso comune, a partire proprio dall’EuroMayday.
Cosa sarà l’EuroMayday 2004? Sicuramente sarà un fiume in piena, che si snoderà per le vie dell’Europa, senza confini per davvero, per arrivare fino a Milano e oltre. Sicuramente sarà una vittoria politica di chi della precarietà necessaria sa farne anche una virtù. Sicuramente sarà solo un altro pezzettino della battaglia cominciata con il nuovo millennio, sicuramente non ne sarà la fine.
Ma soprattutto, nella migliore tradizione mayday, quello che conta sono non solo le indicazioni, le intuizioni. Bisogna sempre cercare nuove domande da porsi, per rilanciare in avanti con inchieste, sperimentazioni, laboratori…
Cosa dobbiamo fare dopo la Mayday? Come possiamo dare maggiore continuità a questo percorso? Movimenti e sindacati sapranno trovare altre occasioni di convergenza? È possibile immaginare un rapporto più diretto, concreto e proficuo anche con la Fiom? Riusciremo a far diventare la precarietà, al pari della pace, un tema che coinvolge tutti i soggetti in movimento, e non solo una parte? Che ruolo possono avere le istituzioni? Chi ha fatto il carro più bello?

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La Fiom alla Mayday parade, per recuperare il tempo perso

Maurizio Zipponi fa il sindacalista da una vita. Prima a Brescia, poi nella segreteria lombarda della Fiom, ora a Milano, dove ricopre il ruolo di segretario generale dei metalmeccanici, ha seguito le vertenze di gruppi come Ansaldo, Marelli, Fiat. In più, trova il tempo e la voglia di scrivere libri: il suo «Ci siamo» è stato un vero e proprio caso editoriale, ristampato più volte, mentre è uscito all’inizio dell’anno «Si può. Operai, precari, impiegati e imprese in un nuovo sistema», edito da Mursia. Zipponi è uno di quelli che, nel sindacato, da sempre insiste con forza sulla necessità di una profonda innovazione. Ed è felice di annunciare che la Fiom di Milano, quest’anno, per la prima volta, partecipa ufficialmente alla May day parade.

Spiega: «Sia chiaro, partecipiamo con modestia e prudenza, senza toccare il protagonismo di chi ha giustamente ideato questa iniziativa. Vogliamo entrare in contatto, vogliamo farci conoscere. Perché la May day è importante, ma è ancora più importante quello che bisogna fare dal giorno dopo. Vogliamo che questi giovani sappiano che la Fiom è sì una vecchia organizzazione, ma è anche la prima che ha rotto con i padroni e con i sindacati moderati proprio in base ad un criterio. Questo criterio è il rifiuto della precarietà».

È stato facile portare la Fiom alla Mayday Parade?
No.

Le difficoltà sono venute più dall’esterno, dal rapporto con gli organizzatori della Mayday, o dall’interno del sindacato?
La cosa più difficile è spiegare al sindacato che quei giovani non li incontrerai mai, se stai ad aspettarli chiuso nelle tue sedi. Dobbiamo cambiare il modo di pensarci come sindacato. Le richieste degli organizzatori della Mayday sono la continuità di reddito, una protezione sociale per le malattie, per la maternità. Sono rivendicazioni che possono trovare forme di rappresentanza e di conflitto, e quindi soluzioni. A patto che il sindacato sia capace di cambiare. Quello della Mayday è un passo in questa direzione.

Il congresso straordinario basterà a cambiare la Fiom?
È un congresso straordinario non solo perché è anticipato [quello nazionale si svolgerà dal 3 al 5 giugno a Livorno], ma proprio per i contenuti della discussione. Il congresso consolida il principio della lotta alla precarietà come dirimente. Spinge il sindacato a mettere in atto e a rafforzare tutte le pratiche che ha a disposizione: la vertenzialità, il conflitto, gli scioperi e gli accordi. La partecipazione alla Mayday è lo sbocco naturale di un processo di rinnovamento profondo. In questo nuovo incontro, tutti noi siamo chiamati a praticare le cose che diciamo, a mettere a disposizione le esperienze e a condividere i risultati. Come dicevo, con modestia.

Quali sono i punti critici nel rapporto con i movimenti che hanno organizzato la Mayday?
Il mio dissenso è forte soprattutto con chi vuole trasformare la Mayday in un «primo maggio anti sindacati confederali». Non voglio banalizzare, il «no» è sempre importante, ma ora è necessario unire. È necessario dire ciò che vuoi. Dopo il «no», deve venire la vera sfida, che è: per che cosa?
Poi c’è la contrapposizione reddito-lavoro. Che per noi si pone, però, in maniera diversa: il 90 per cento dei contratti metalmeccanici sono a tempo indeterminato. Questo significa che il 10 per cento sono, invece, contratti precari. Di questi, solo l’uno per cento ha scelto un lavoro «flessibile» e un contratto a tempo, e il resto è precario per forza.
La priorità del sindacato è rivendicare, per tutti quelli che hanno subito quella imposizione, un lavoro a tempo indeterminato. È impedire che la precarietà aumenti. Una volta ottenuto questo, si tratta a livello nazionale su quello che significa: e cioè il tempo, il salario, i diritti. Il lavoro a tempo indeterminato è però un lavoro sempre subordinato. Per chi sceglie forme di lavoro e di vita diverse, vanno pensate forme di sostegno al reddito.

Il sindacato ha sbagliato, nel valutare il problema della precarizzazione del lavoro?
Sì. L’errore più grave è stato quello di non capire la portata del cambiamento. Di scoprire troppo tardi che la precarietà non avrebbe riguardato situazioni eccezionali, ma che sarebbe diventata il tratto fondante del rapporto di lavoro per le nuove generazioni. Anche adesso, nel sindacato, spesso la precarietà viene considerata come una fase della vita legata alla giovinezza, un prezzo da pagare prima di arrivare finalmente al posto di lavoro fisso. Poi si scopre che secondo la legge sei «giovane» fino a 36 anni, ma secondo le imprese a quarant’anni sei vecchio. È un errore molto grave. Ma il tempo perduto va recuperato velocemente. Noi ci stiamo provando.

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