un'analisi sulla questione qualità redatta a fine anni novanta
QUALITA' TOTALE E COOPERATIVE SOCIALI
E' noto che il fenomeno delle cooperative sociali sia abbastanza recente. Esso risale alla seconda metà degli anni '70, quando, giust'appunto sull'onda del riflusso, pezzi interi di movimento sociale trovarono quale unica risposta alla "radicalità dei propri bisogni" (come si diceva allora) quella della "autorganizzazione" nelle cooperative.
Alle spalle vi erano bisogni di liberazione dal lavoro di tipo fordista, eterodiretto, l'esigenza di controllare direttamente strumenti e prodotto del proprio lavoro, ma soprattutto l'idea che si potessero soddisfare tutta una serie di esigenze agitate dal movimento (socialità, lotta all'emarginazione, consumi culturali, ecc.) a cui lo Stato non sapeva dare risposta. A maggior sottolineatura di quanto accennato, va ricordato che è proprio sul finire degli anni settanta che si chiudono i manicomi rimandando "a casa" gli ex-degenti, senza alcuna forma di protezione e assistenza sul territorio da parte del Servizio Sanitario Nazionale di recente istituzione.
Le cooperative "sociali" agli inizi degli anni ottanta erano appena qualche centinaio in tutto il paese, ma già nel 1990 salivano a 1800 per giungere alle attuali 2500.
Oggi queste impiegano sui 50 mila lavoratori, a cui vanno aggiunti 15 mila volontari, rappresentando ca. il 4% di tutto il comparto delle cooperative. In buona parte la maggioranza sono cooperative di tipo A (54%), mentre il 35% sono di tipo B e l'11% di tipo misto. Le cooperative di servizi agiscono principalmente nel sociale (81%), invece quelle finalizzate all'inserimento delle persone svantaggiate sono orientate più o meno equamente nei servizi (30%), nell'artigianato (25%) e nel settore agricolo (24%). Territorialmente la maggioranza delle cooperative sociali sono concentrate in Lombardia, Sicilia, Emilia-Romagna, Piemonte, Lazio e Veneto. La media dei loro introiti è bassa: 823 milioni per le cooperative di tipo A (2.290 milioni per le prime dieci), 413 milioni per le cooperative di tipo B (915 milioni nelle prime dieci), per lo più concentrata nel settore pubblico (80% per le cooperative di tipo A, 75% per le cooperative di tipo B) (dati del '91).
Si può affermare con relativa sicurezza che per buona parte degli anni ottanta queste cooperative hanno assolto ad un ruolo sostitutivo dello Stato laddove questi non riusciva ad offrire dei servizi di assistenza e servizio alla persona, costituendo in questa maniera dei mercati di nicchia, privi cioè di agguerrita concorrenza. Questo fatto ha giustificato per tutto il decennio passato un sistema di appalti regolato dalla vicinanza "politica" a chi governava l'ente di competenza (USL, Comune o altro), ovvero seguendo regole extramercantili e clientelari.
L'esigenza di porre mano ad un processo di contemporaneo smantellamento del Welfare State e di esternalizzazione dei servizi di assistenza dello Stato, hanno spinto alla creazione di un nuovo mercato, molto più aperto ed esteso, trovando nelle cooperative sociali un buon referente. Ma la formazione di mercati aperti impone regole diverse, così come l'esigenza di riordinare la contabilità statale secondo politiche di spesa meno allegre e più contenute obbliga a liberarsi di sistemi di appalto affidati secondo le simpatie politiche del momento senza alcuna "razionalità" economica. Con la legge 381/91 il Parlamento ha imposto una prima regolazione del settore della cooperazione sociale ispirandosi a modelli di tipo aziendale, obbligando l'ente pubblico a ricorrere a sistemi di appalto fondati sul sistema della miglior offerta in termini di prezzo e qualità del prodotto. La competizione fra cooperative si sposta dalla sfera ideologica (e clientelare) a quella mercantile, facendosi su questo campo più accanita e spietata.
Volendo fissare delle periodizzazioni, si può dire che il processo di aziendalizzazione investe tutto il mondo delle cooperative sociali a partire dagli anni novanta, rivoluzionandone costumi, linguaggi, culture. La spinta alla trasformazione è data dal vincolo esterno della trasformazione del sistema degli appalti e dalla costituzione di un mercato dei servizi vero e proprio (in virtù dello smantellamento del W.S.) e dal vincolo interno determinato dalla crescita e dal consolidamento organizzativo di buona parte delle cooperative di vecchia data.
Ma il farsi "impresa" delle cooperative sociali non risulta così lineare e semplice. Non tanto per le eventuali resistenze interne alla "modernizzazione capitalista" da parte di quelle aree di soci nostalgici dell'epopea pioneristica del mondo della cooperazione sociale. Quanto per il carattere stesso della "esternalizzazione" dei servizi attuata dallo Stato che tende a privilegiare "una domanda sociale crescente, eterogenea, complessa, continuamente mutevole fra vecchie e nuove emergenze" (da "Lessico dell'impresa sociale"- AAVV - ed.Gruppo Abele).
Il superamento del carattere "universalistico" delle politiche sociali, affermatosi in Italia solo a partire dagli anni settanta sotto la spinta dell'onda lunga sessantottina, diventa in questo decennio una triste realtà con la reintroduzione del criterio del servizio alle fasce deboli della popolazione di democristiana memoria.
Ma il servizio mirato alle vecchie e nuove aree di emarginazione o "esclusione sociale" comporta inediti livelli di variabilità, temporaneità, diversificazione dei servizi. Non più, dunque, servizi gratuiti accessibili a tutti, che comportano costi enormi di mantenimento di personale dipendente, di strutture e risorse spesso inutilizzati, ma servizi "ad personam", forniti in tempo reale per la durata strettamente necessaria, senza sprechi, ricorrendo a personale e strutture individuati all'occorrenza, all'esterno, secondo il sistema delle gare d'appalto.
Il bacino delle cooperative sociali diviene per quest'ultimo aspetto un referente naturale del servizio pubblico sulla via della privatizzazione/esternalizzazione.
Le ricadute sul mondo d'orato del cosidetto "terzo settore" sono perciò terribili (dal nostro "retrogrado" punto di vista). Non solo occorre introdurre in molte cooperative, condotte secondo criteri familiari o seguendo criteri di elevata democrazia interna, modelli estranei di cultura manageriale (per cui gli "eletti" dei consigli d'amministrazione si autocandidano a corsi di specializzazione gestionale, marketing, organizzazione del lavoro altrui, contabilità finanziaria, finanziamento pubblico ed evasione fiscale, investimento), ma soprattutto occorre operare una ristrutturazione interna che permetta di riuscire ad offrire in mercati sempre più competitivi prodotti diversificati ed originali.
In altri termini, per buona parte delle cooperative sociali si tratta di operare una doppia rivoluzione che le faccia saltare a pié pari dalla fase pre-fordista, cioè del capitalismo straccione in cui sono collocate, a quella post-fordista, del regime del lavoro flessibile, qualificato, polispecialistico.
Paradossalmente proprio le caretteristiche specifiche del sistema cooperativo, rendono questo tipo di trasformazione per certi aspetti più agevole in una cooperativa solidale che in una normale azienda fordista. Vediamo perché.
Un po' di ripasso: caratteri fondamentali dell'impresa a qualità totale
Va, innanzittutto, aperta una parentesi per ricordare quali sono le caratteristiche proprie di un'azienda post-fordista, cioè di un'azienda ispirata al sistema della Qualità Totale, più prosaicamente noto come modello Toyota.
Secondo M.Revelli (vedi l'introduzione a T.Ohno "Lo spirito Toyota" - ed.Einaudi) la cosidetta fabbrica toyotista, a produzione "snella", si fonda nella sua dimensione tecnica sul concetto dei "sei zeri": zero scorte, zero difetti e scarti, zero tempi morti nella produzione, zero tempi di attesa per il cliente, zero burocrazia, zero conflitto.
Per poter realizzare questo sistema la Toyota si è strutturato su due principi organizzativi rivoluzionari: il just in time e l'autonomazione.
Il just in time
Il just in time si fonda sull'idea di un processo produttivo continuo, senza magazzini, senza scorte, senza polmonature, che varia col variare della domanda, adattandosi in tempo reale alle volubilità del mercato.
Produrre senza scorte significa produrre senza rete, permette di rendere visibili le vere disfunzioni di processo, evidenziandone le cause e dunque facilitandone l'eliminazione.
Con il just in time il rapporto col mercato cambia. E' il mercato stesso che comanda sulla produzione, formulando gli ordini a cui la produzione si deve adattare in tempo reale, sapendo mutare organizzazione del lavoro, organico, disposizione dei processi. Per reggere questo sistema dinamico e delicato al tempo stesso, cambia persino la struttura della comunicazione.
Il flusso comunicativo non segue più il decorso dal centro alla periferia, cioè dal centro dell'impresa alle sue unità periferiche, sottostando a piani in cui volumi produttivi e carattere delle merci sono determinati dalle scelte "illuministiche" del management. Nel sistema toyotista la comunicazione segue il processo inverso, dalla linea di confine fra impresa e mercato al cuore dell'impresa, da valle a monte, trasmettendosi sotto forma di domanda di prodotti o semilavorati da un segmento produttivo all'altro, procedendo all'inverso lungo tutto il flusso della produzione.
L'autonomazione
L'autonomazione è il principio per cui i difetti ed errori di produzione vanno corretti immediatamente, appena si manifestano, per evitarne la riproducibilità. Essa comporta un alto livello di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori, che in questo caso sono incentivati ad esercitare un controllo diretto e immediato sulla qualità del prodotto.
Non si può quindi prescindere da un diverso coinvolgimento della forza-lavoro nella produzione. La strutturale "resistenza" operaia all'erogazione della propria capacità lavorativa và aggirata costruendo intorno al lavoratore un ambiente sociale di tipo familiare, comunitario, dai forti legami interpersonali. L'alto grado di attenzione e di partecipazione migliorativa che richiede l'autonomazione comporta livelli di fiducia, fedeltà, disponibilità impensabili nella vecchia dispotica organizzazione fordista del lavoro. Il sistema toyotista richiede al lavoratore di mettere a disposizione dell'azienda ciò che prima questi usava per difendersi contro il sistema di sfruttamento: cioè la propria soggettività, la propria intelligenza e furbizia, spesso usate "informalmente" per diminuire intensità e durata del lavoro.
L'ambiente sociale quale apriori dell'impresa toyotista
Ovviamente questo grado di condivisione dei "valori" aziendali non deriva da qualche gita aziendale, dall'alzabandiera o dal canto dell'inno aziendale.
Il suo presupposto è l'eliminazione di qualsiasi struttura sindacale "autonoma" (nel senso di classe) e l'istituzione di un sistema retributivo fondato sul merito e la fedeltà aziendale. Il lavoratore nell'impresa giapponese ha come unico riferimento dei sindacati addomesticati, dai cui quadri vengono periodicamente reclutati i dirigenti aziendali, con la conseguenza di vedere praticamente sovrapprosti rappresentanza e ruolo di direzione del lavoro.
La struttura salariale giapponese è fortemente individualizzata, fondandosi sull'anzianità (fedeltà all'azienda) e sulla carriera pregressa (quanto assenteismo, quanto grado di collaborazione, quante idee di miglioramento fornite, quanta disciplina, ecc.). Solo un terzo del salario è costituito dalla paga base: i restanti due terzi sono composti da premi di produzione e straordinario. A questo si aggiunga l'impiego a vita con la garanzia di assunzione per i figli (ma solo per i lavoratori della fabbrica centrale, quelli garantiti da ristrutturazioni e licenziamenti).
Cooperative sociali e modello toyotista
Volendo riassumere, le caratteristiche di un impresa a qualità totale si possono sintetizzare in dieci punti:
1) rapporto col mercato rovesciato. Si mira a diminuire i costi di produzione, eliminando difetti e scarti, senza aumentare i volumi produttivi, puntando ad una maggiore differenziazione del prodotto. E' in questo caso il mercato che con la sua variabilità determina scelte e strutture produttive.
2) il flusso della comunicazione procede dal mercato alla produzione (kanban). Il processo lavorativo è attivato alla periferia dal mercato, non dal centro direzionale dell'impresa. Ogni segmento produttivo è cliente di quello che lo precede.
3) valorizzazione delle risorse umane. Tramite una maggiore partecipazione nell'organizzazione del lavoro del processo produttivo e una maggiore partecipazione "sociale" alla vita aziendale.
4) riduzione dei livelli di burocrazia e delle gerarchie aziendali.
5) produzione senza scorte e senza scarti.
6) riduzione dei tempi di attesa del cliente.
7) eliminazione dei tempi morti.
8) miglioramento continuo a piccoli passi (kaizen).
9) eliminazione del conflitto sociale.
10) sistema retributivo fondato sulla fiducia e sul merito.
A prima vista il grado di distanza fra impresa sociale e impresa toyotista è notevole. Certamente per le cooperative solidali esiste un handicap determinato dal fatto che solo ultimamente, in questi anni novanta, esse si sono poste in un ottica di acquisizione di una cultura "imprenditoriale". E il dibattito recente sul terzo settore e il non profit ne è l'involontario testimone.
Non bisogna dimenticare che le cooperative sociali sono spesso nate dietro la spinta solidaristica di gruppi di volontari, la cui azione era ispirata più all'improvvisazione e alla spontaneità che ad una vera cultura manageriale. Il carattere poco formalizzato di ruoli e competenze, l'alto grado di partecipazione democratica tipico degli esordi, sono ben distanti da qualsiasi "ortodossa" cultura aziendale. Eppure la selezione del mercato (e dell'appalto...) hanno spinto molte di queste cooperative a conformarsi sempre più ai criteri del calcolo economico e della gestione imprenditoriale. I valori di partenza, gli obiettivi sociali, vengono piano piano archiviati nella misura in cui si penetra nella giungla del mercato.
Il basso rapporto di capitale organico, la centralità del capitale variabile e, quindi, del fattore lavoro, ne fanno potenzialmente delle imprese ad alto valore aggiunto. Il passaggio da mercati di nicchia a mercati a maggiore competizione costringe buona parte di queste imprese a ristrutturarsi secondo criteri di "razionalità economica", un tempo poco condivisi.
La formalizzazione di una struttura organizzativa con ruoli e competenze ben determinati, la formazione di un "gruppo dirigente" con una cultura manageriale, la capacità di gestire e selezionare i soci-lavoratori secondo criteri conformi agli obiettivi dell'impresa, sono solo alcuni passaggi obbligati per poter attuare dei processi produttivi ispirati ai criteri di "qualità".
La forte tensione valoriale che caratterizza buona parte delle cooperative di solidarietà sociale, specie quelle più piccole, è in tal senso un elemento di forza. Lungi dall'essere un ostacolo alla maggiore sussunzione capitalistica, l'aspetto ideale permette una notevole coesione e carica motivazionale nei soci lavoratori all'interno di processi produttivi sempre più alienati (nel senso marxiano del termine).
Paradossalmente le cooperative sociali sono in grado di fornire quell'ambiente sociale ideale che permette l'autoattivazione dei lavoratori. Ambiente comunitario, pressanti richiami valoriali, identificazione nella cooperativa, forte motivazione, assenza di conflitto, burocratismo ridotto, sono alcuni degli elementi che rendo l'azienda cooperativa vicina, dal punto di vista della centralità delle risorse umane, al modello giapponese.
Esistono comunque delle differenze, legate al dimensionamento e alla forma partecipativa di queste cooperative, che rendono più o meno concretizzabile un processo di razionalizzazione capitalistica ispirato al concetto di qualità totale.
Le piccole cooperative (cioè quelle con un numero di soci lavoratori non superiore alle 15 unità) sono per certi versi quelle più refrattarie. Innanzitutto per l'esistenza di rapporti informali, senza ruoli esplicitati, senza un organizzazione strutturata, senza grandi livelli di programmazione. Esiste un coordinamento fra i soci che corrisponde ad un adattamento reciproco; la leadership è spesso carismatica ma non dichiarata. La rappresentanza sociale e la partecipazione ai processi organizzativi è molto elevata, ovvero sussistono elevati livelli di democrazia interna per quanto riguarda le scelte della cooperativa e la partecipazione al lavoro. Livelli di democrazia che sono determinati anche dai legami interpersonali, dalla condivisione dei fini, dalla coesione interna. La produzione è più orientata agli aspetti qualitativi che quantitativi. Spesso a questo stadio la cooperativa presenta fra i suoi soci una logica del "sacrificio", tipicamente volontaristica, certo valida nei momenti iniziali di sviluppo, ma inadatta a far emergere carenze e disfunzioni nell'organizzazione.
Le cooperative medie (cioè quelle fino a 50-60 soci) sono soggette a due forme diverse di organizzazione. La prima è a modello "presidenziale"; è caratterizzata da un leader riconosciuto che protende ad accentrare decisioni e talvolta delle competenze professionali, da una gestione paternalistica-dittatoriale della forza-lavoro, da una scarsa definizione dei ruoli, da una limitata formalizzazione dei processi. La seconda è a modello "organizzativo", dove si ha una definizione dei ruoli, della struttura gerarchica, delle responsabilità e una formalizzazione dei processi lavorativi. Inoltre vi è una maggiore pianificazione delle risorse, una migliore verifica e controllo dei processi. In genere queste cooperative hanno un buon livello partecipativo sul piano sociale (assemble dei soci annuali, gite, pranzi sociali), ma scarso su quello organizzativo. In questo senso si possono verificare conflitti fra soci fondatori e nuovi soci, ove questi ultimi si sentono privati di strumenti di controllo sull'agire della cooperativa, mentre i primi avvertono nei secondi una carente identificazione nei valori della cooperativa.
Le cooperative consolidate e mature (fino a 150-300 soci, ed oltre) sono ormai aziende con un'organizzazione formalizzata, con ruoli definiti che iniziano a porsi strategie di mercato e di marketing. Non hanno ancora la possibilità di destinare risorse specifiche ad alcune funzioni organizzative. Spesso si ha la presenza di persone che condividono funzioni differenti, specie nel coordinamento e nella gestione delle risorse umane. Non sono molte volte definite le procedure di "selezione del personale", manca un sistema valutativo e un sistema premiante. Non esiste un piano di formazione e addestramento. Dal punto di vista partecipativo è più facile riscontrare una maggiore partecipazione organizzativa ai processi lavorativi che un coinvolgimento nella vita sociale della cooperativa. L'assemblea dei soci è fortemente ritualizzata e sostanzialmente esautorata di potere. Si ha una sostanziale attribuzione di poteri alle strutture gestionali della cooperativa, con un graduale svuotamento dei meccanismi di legittimazione democratica. Il socio lavoratore non si identifica nel ruolo di socio: l'essere socio è solo una condizione del rapporto di lavoro.
Dal punto di vista dell'attuazione di sistemi di qualità è quest'ultima la forma più matura, anche se i livelli di distacco del socio lavoratore dalla vita sociale della cooperativa rappresentano un elemento di ostacolo.
E' indubbio che la ventata toyotista investirà anche le cooperative di solidarietà. La diffusione delle modulistiche e delle certificazioni di qualità UNI EN ISO 9000, specie nelle cooperative di tipo B (data la maggiore facilità di attuazione di criteri di qualità nella produzione di servizi e beni "materiali", e data la necessità di sopravvivenza su un mercato sempre più competitivo per questo ramo della cooperazione sociale), sono una realtà che segnala l'imminente rivoluzione. Questa trasformazione probabilmente sarà lunga e tortuosa. La perdita di controllo da parte del socio lavoratore sui processi di governo della cooperativa, la trasformazione della democrazia interna in un rito brezneviano, rappresentano in ogni caso un processo obbligato di alienazione dal potere sui "mezzi di produzione" della cooperativa a cui il socio può rispondere solo con la riscoperta del conflitto e la sindacalizzazione indipendente. Qualsiasi richiamo ai valori fondativi, ai sacri obiettivi della cooperativa, in tale contesto rinnovato risulta solo fumo negli occhi, ancor più se è mirato a giustificare il ruolo di inamovibili vestali dei soci amministratori neo managers, reali detentori del controllo sulle "forze produttive" della cooperativa. La costituzione di un management strutturato è un presupposto indispensabile alla rivoluzione toyotista, prima ancora degli alti livelli di partecipazione all'organizzazione e all'ideologia aziendale dei soci-dipendenti.
Ma per l'autorganizzazione e la lotta, anche qui, siamo solo agli esordi. Allons enfants, dunque.
Marco Prina
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