Scelli trasforma la Croce Rossa in milizia di governo di Enrico Fierro
Perché si costringe la Croce rossa italiana ad indossare l'elmetto e a scendere, pugnale tra i denti, nell'agone politico? Qual è la convenienza a trasformare una istituzione umanitaria in una sezione militante del governo? E soprattutto a chi giova? Solo queste domande dovrebbero indurre il dottor Maurizio Scelli, che della sezione italiana della Cri è il numero uno, ad una maggiore sobrietà. Così non è, o almeno non è stato l'altro giorno, quando il dottor Scelli ha impugnato il microfono e ha parlato su tutte le reti televisive italiane. Le vene del collo gonfie, l'eloquio fluviale, gli occhi rossi di passione, le parole brandite come armi d'accusa, sbagliate e fuori tono. Il dottor Scelli era abbigliato con le insegne della Cri, ma parlava come lo Scelli che abbiamo conosciuto in doppiopetto e cravatta in tono nella primavera del 2001 quando agitava il labaro di Forza Italia nella dura battaglia per la conquista di un seggio alla Camera. Il dottor Scelli candidato ed aspirante deputato azzurro, in quella occasione dovette vedersela con l'ulivista Walter Tocci, assessore capitolino alla mobilità, nel collegio Roma-Gianicolense. Una brutta esperienza, finita con una sonora bocciatura: 28457 voti contro i 34755 di Tocci. Berlusconi vinceva in tutta Italia, Scelli perdeva all'ombra del Colosseo. Competition is competition. È la politica bellezza. Ma le missioni umanitarie e il ruolo di Commissario della Cri sono un'altra cosa. E richiedono spirito di servizio e indipendenza di azione e di giudizio: la Cri non è un'appendice di Palazzo Chigi, meno che mai una cellula di quella particolare sezione dell'ufficio propaganda di Forza Italia addetta a scrivere la sceneggiatura del blitz per la liberazione degli ostaggi italiani. E allora non capiamo le ragioni che hanno indotto il dottor Scelli ad agitare da Baghdad la granitica certezza che per quella liberazione «né il governo, né l'ambasciata italiana, né i servizi segreti hanno pagato un riscatto». Perché a questo punto ci si chiede di quali informazioni disponga il dottor Scelli. Domanda lecita, soprattutto alla luce delle dichiarazioni (virgolettate) che il Commissario della Cri ha rilasciato ad alcuni giornali venerdì scorso, nelle quali parla di «personaggi che volevano comprare con 15 milioni di dollari la vita dei sequestrati», e poi ancora di «soldi lanciati nel piatto» da «troppi faccendieri». Evidentemente il dottor Scelli qualcosa sa, e questo è affar suo: racconterà tutto ai magistrati romani che su quel sequestro vogliono sapere di più. Ma è affar nostro, dell'opinione pubblica, il suo repentino cambio di umore e di opinione. E soprattutto la maldestra operazione di schierare la Cri (organizzazione cara a tutti gli italiani) in questa macabra battaglia di propaganda. Quell'attacco ad Emergency, che in Iraq è presente dal 1995, embargo o non embargo, guerra o pace, costruendo ospedali e centri di cura, istruendo personale locale, curando 300mila e passa iracheni. Senza distinzioni religiose, politiche o etniche. Un'organizzazione di volontari, che ha meriti grandissimi, proprio come la Cri, viene rappresentata dal dottor Scelli come un gruppo di vacanzieri perditempo e vigliacchi («comodamente adagiati negli Sheraton di Amman, in giro a far convegni, se ne sono andati via al primo scoppio di mortaretti»). Immaginatevi Gino Strada - che non era un politico «trombato», ma un valente chirurgo della Milano da bere avviato a fulgide e fruttuose carriere, che ha scelto di fare il medico volontario nei teatri di guerra - stravaccato in un bar di Amman a sorbire bevande fresche. E qui vale la pena riferire al lettore un aneddoto, anche a costo di rivelare la confidenza di un amico. Quando Gino Strada era ad Amman in attesa di passare in Iraq i servizi lo controllavano al punto di sapere per filo e per segno quello che stava facendo, finanche l'ora in cui si concedeva un bagno in piscina con la figlia. Ma il dottor Scelli si è infuriato perché Strada ha parlato di un riscatto di 9 milioni di dollari. Cifra inferiore ai 15 indicati dal dottor Scelli. Strada ha fornito nomi e indirizzi delle sue fonti e dei suoi testimoni. Correttamente. Un giornalista de La Repubblica è andato nei posti indicati da Strada per intervistare quelle persone e ha rischiato la pelle. Hanno tentato di fermarlo. Volevano rapirlo, o impedirgli di entrare in contatto con quelle fonti? Mistero. Il dottor Scelli si indigna e attacca Strada per la storia del riscatto da 9 milioni di dollari, ma non si è risentito quando il 22 aprile un giornale notoriamente vicino alla destra, e caro al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta - che ne fu il direttore - ha scritto cose molto dettagliate. Si tratta de Il Tempo di Roma, l'articolo è di Fosca Bincher, pseudonimo usato dal direttore, Franco Bechis. Ne riportiamo ampi e istruttivi stralci: «Il riscatto è pagato, ma non basta. Una somma importante, secondo autorevoli indiscrezioni, messa a disposizione di tasca propria da Silvio Berlusconi, è ora arrivata nelle mani dei rapitori iracheni degli ostaggi italiani. Insieme a quella acqua e viveri, distribuiti in abbondanza secondo i patti, dalla Croce Rossa italiana a tutta la popolazione di Falluja. Ma i tre ostaggi sono ancora prigionieri dei loro rapitori. Perché, come spesso accade in Medio Oriente, spuntano nuovi intermediari, si interpongono imam e politici locali, trapelano nuove condizioni». Fermiamoci un attimo per sottolineare solo la coincidenza tra i «troppi faccendieri» e i «soldi gettati nel piatto» citati da Scelli e il clima descritto (il 22 aprile) dal quotidiano romano. Ma da quali «fonti» il Tempo aveva avuto quelle notizie? «L'autorevole indiscrezione - scrive Bincher-alias Bechis - è circolata fin dalla serata di martedì in importanti ambienti bancari italiani. Da qualche giorno Silvio Berlusconi avrebbe chiesto ai suoi banchieri di fiducia di smobilizzare una somma importante, trasferita su un nuovo conto. L'ipotesi circolata, ma anche più di una ipotesi sostiene un banchiere chiedendo di non essere citato, è che il premier abbia messo a disposizione di tasca propria l'intera somma necessaria al riscatto: 5 milioni di euro». 9 milioni di dollari (Strada), 15 milioni di dollari (Scelli prima versione), 5 milioni di euro (i banchieri citati dal Tempo): insomma, di soldi per i rapitori-terroristi si parla e si parlava. Pubblicamente. L'unica divergenza, come si vede, è sulla entità della somma. Il Tempo continua e scrive che «i contanti messi a disposizione da Berlusconi, sono arrivati nella zona di Falluja insieme ad importanti aiuti alimentari e soprattutto a molte taniche di acqua grazie alla collaborazione fra gli uomini di Nicolò Pollari, direttore del Sismi, e quelli di Maurizio Scelli, commissario della Cri». Noi ci fermiamo qui, perché a questo punto i misteri sono veramente tanti e il sapore della vicenda è sempre più quello antico di un «caso Cirillo» di dimensioni internazionali. Ma per favore, togliete l'elmetto alla gloriosa Croce Rossa italiana
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