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Vento
by Giulio Stocchi Wednesday, Oct. 18, 2006 at 3:27 AM mail: giulio.stocchi@fastwebnet.it

Il vento della guerra sulle vicende degli uomini. Chiunque, dopo aver letto l'introduzione, fosse interessato, può scaricare in pdf il testo del recital.

download PDF (22.8 kibibytes)

Alcune considerazioni a mo’ di introduzione




Ciò che vi apprestate ad ascoltare inizia con una delle parole più belle della nostra lingua, “sorriso”, una parola che risuona con la stessa dolcezza nel nome che gli uomini hanno inventato per designare quel concetto e quella realtà: “sonrisa”, in spagnolo, “sourire”, in francese, “smile”,in inglese, “lacheln, in tedesco… quasi che gli uomini nei loro diversi idiomi abbiano voluto, nella delicatezza di questi suoni, evocare quanto di più bello e prezioso hanno, il sorriso, appunto.
Tanto più bello e prezioso in quanto, nella storia dell’umanità fino ad oggi, è stato continuamente e costantemente minacciato e contraddetto da quel vento che spira sulle vicende degli uomini, e che sentirete cominciare a soffiare nel corso di quanto vi dirò: un vento in cui risuona l’eco dei nomi delle antiche battaglie, cioè delle crisi ricorrenti della follia dell’umanità, in ogni tempo e sotto ogni latitudine, che è la guerra. Sentirete hiròshima, il bombardamento atomico che tutti conosciamo, kadesh, la battaglia del 1293 A.C. in cui il faraone Ramesse sconfisse gli hittiti, verdun, la carneficina della prima guerra mondiale e così via.
A un certo punto il vento della guerra si farà impetuoso e imporrà quindi una riflessione sull’origine e sulla logica di questa violenza che è la malattia dell’umanità. Una logica che nella poesia sull’aquila di mare è posta fuori dalla storia, in un passato mitico –un gruppo, sentirete, di marinai, forse degli ulissiadi, che uccidono, che schiacciano un animale marino. Perché questa è la logica della guerra: uccidere e schiacciare il nemico che viene considerato fuori dal consorzio umano, o meglio da ciò che io ritengo tale secondo la mia fede e i miei valori, mentre il mio nemico è né più né meno che un animale da schiacciare, da distruggere, da oltraggiare, da pisciargli addosso, da trascinare nudo al guinzaglio, come abbiamo purtroppo recentemente visto tutti. Una logica per cui l’unico sguardo autorizzato in tempo di guerra è quello attraverso il mirino di un’arma puntata contro un bersaglio.
Se questa logica è posta nella poesia fuori dalla storia, tuttavia nella storia dell’umanità si è continuamente e costantemente ripetuta. L’origine così remota di questa logica ci dice altresì quanto avesse ragione Carlo Marx nel dire che la storia dell’umanità finora non è altro che una lunghissima preistoria prima del mondo compiutamente umano che sempre gli uomini, o per lo meno i migliori fra gli uomini, hanno sognato.
Centoquarant’anni prima di Marx uno di questi uomini saggi e buoni, Giovan Battista Vico nella Scienza nuova, si poneva a sua volta il problema di che cosa avesse trasformato “gli irsuti bestioni” scampati al diluvio in uomini civili, in uomini che vivono in società. E Vico ravvisava in humus, terra, e humare, seppellire, l’etimologia della parola uomo. Cioè, diceva Vico, gli uomini sono diventati tali da quando hanno preso a inumare, a dare sepoltura ai loro morti.
Fantasiosa o meno che sia questa etimologia, essa ci dà ancora oggi un suggerimento prezioso: solo quando gli uomini daranno finalmente sepoltura ai loro morti, cioè agli infiniti corpi che “giacciono a braccia larghe con gli occhi fissi al cielo” delle innumerevoli guerre che hanno sconciato la storia del mondo, e quando daranno finalmente sepoltura alla parte morta che c’è in ognuno di noi e che ci spinge a quella logica di sopraffazione e a quella violenza che è la guerra, solo allora gli uomini si trasformeranno da quel branco di bestie feroci che si sbranano a vicenda, come vediamo ogni sera alla televisione, in consorzio umano che viva in pace e in armonia.
Un sogno questo che l’umanità ha sempre coltivato, pur nel fragore delle guerre e nel sangue delle battaglie. “Volgiti a me ed abbi pietà di me”, gridava Davide al suo Dio, nella poesia che ascolterete costruita coi versi dei Salmi del giovinetto con la fionda. Ebbene, occorre che non a Dio ogni uomo rivolga questa implorazione, bensì al proprio simile. Occorre cioè che gli uomini imparino la compassione, cioè a compatire, ovvero a soffrire insieme, in modo da riconoscere nella sofferenza dell’altro un oltraggio fatto a se stesso, e rimuovere le cause di questa sofferenza. E, soprattutto, riconoscere l’unica cosa che, nella diversità di pelle, di razza, di lingua, di religione, accomuna tutti gli uomini, “la voglia buona”, come diceva il mio maestro Fortini, che rende simili gli uomini nella loro diversità. Tutti gli uomini, e basta pensare a noi stessi da bambini, vengono al mondo con la voglia, e col diritto, di essere felici. Una volta riconosciuto questo, dobbiamo agire perché le condizioni di questa felicità corale e collettiva si realizzino.
Se faremo questo, il vento della guerra sarà sconfitto dalla musica sottile di quella brezza che sentirete spirare nell’ultima poesia, e che nella poesia è adombrata dal ripetersi di quei suioni che i fonetisti chiamano “scibilanti”: SCIa, peSCE, esaudiSCE, uniSCE, svaniSCE… e allora davvero quella parola, “sorriso”, con cui vado incominciare, si allargherà sulle labbra di tutti.

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