Cronache di una deportazione

Anche quel giorno Mimmo era agitato. Da due settimane dormiva pochissimo, un pensiero non gli dava tregua: 5 fratelli a 40 metri d’altezza ed un paese, l’Italia, che faceva finta di non sentire e di non vedere nonostante la gru di Brescia occupasse da molti giorni le prime pagine dei quotidiani nazionali. Il presidio, le cariche, i contatti con i gruisti, i cortei, gli incontri, l’entusiasmo, la pioggia: immagini da una lotta tatuate sottopelle. Poi ad un certo punto 9 fratelli egiziani tra i protagonisti della protesta vengono prelevati dalla Polizia, destinazione il lager di Milano: il Cie di via Corelli. Anche Mimmo, che in realtà si chiama Mohamed, è egiziano e si attiva subito per far qualcosa per i suoi connazionali, sa che il rischio che vengano espulsi è molto alto. Con questa inquietudine arriva lunedì 15 novembre in via Porpora a Milano: davanti al Consolato egiziano è organizzato un sit-in di protesta contro il trattenimento dei 9 ragazzi. Una delegazione (di cui Mimmo fa parte) viene fatta salire e i funzionari del Consolato negano di aver dato l’autorizzazione per la deportazione (comunicazione che nel pomeriggio verrà smentita dai fatti).

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Dalla gru alla torre: una battaglia di civiltà

Da Brescia a Milano continua la protesta dei migranti a più di 30 metri d’altezza, con un’ironica vignetta Vauro ha detto che per la prima volta ci guardano dall’alto al basso. Chissà come ci vedono da lassù.

Nell’estate 2009 a Milano 5 operai della INNSE erano saliti su una gru per difendere il loro posto di lavoro ed erano riusciti ad ottenere un duplice risultato: il primo è stato quello di salvare il posto in fabbrica ed il secondo, di più ampio respiro, di ridar voce agli operai, una categoria che sembrava destinata ai musei novecenteschi. Adesso anche i migranti, stufi di essere presi in giro da leggi-truffa e dalla totale assenza di diritti, salgono su una gru uscendo dal silenzio e  facendo accendere i riflettori sulla loro condizione di non-persone (come li definisce il sociologo Alessandro Dal Lago).



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Appello alla mobilitazione e convocazione di un’assemblea nazionale.Ora siamo stanchi: permesso di soggiorno subito

*Ora siamo stanchi: permesso di soggiorno subito!*
Milano, 7 novembre 2010. Dal 5 novembre un gruppo di immigrati è salito in cima alla torre ex Carlo Erba in Via Imbonati a Milano. Non scenderanno fino a che non verrà data risposta alla richiesta di veder riconosciuto il diritto a una vita dignitosa, che passa innanzitutto per l’ottenimento del permesso di soggiorno.
In prosecuzione delle mobilitazioni degli ultimi mesi e come gli immigrati di Brescia, che alla fine di ottobre sono saliti su una gru della metropolitana, anche gli immigrati milanesi denunciano una situazione che coinvolge almeno 50mila persone, tutte truffate da una sanatoria farsa per la quale hanno sborsato migliaia di euro e da cui la maggioranza è rimasta esclusa per motivi pretestuosi.

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Milano come Brescia. Contro la legge Bossi-Fini, contro la sanatoria “truffa”, per la chiusura dei Cie.

Oggi pomeriggio a Milano alle ore 17.00 si è tenuto un presidio di solidarietà ai 6 lavoratori immigrati che da Sabato scorso occupano il cantiere del metrò di V. Faustino a Brescia. Al termine del presidio, nove
immigrati sono saliti nel tardo pomeriggio sulla ex torretta “Carlo Erba”del Maciachini center, in Via Imbonati, angolo Via Bovio a 30 metri dialtezza.
Loro intenzione è rimanere sulla ciminiera finché non si trova una soluzione ad una situazione paradossale, che impedisce, secondo la circolare Manganellli (nomen nominis), di poter usufruire di un permesso di
soggiorno (in attesa di occupazione) per chi ha fatto la richiesta nella “sanatoria truffa” come colf e badante. Ma la battaglia, in solidarietà con Brescia, non si limita a questo. Le richieste sono tanto chiare quanto ragionevoli:
1. Allungamento del permesso di soggiorno per chi ha perso il lavoro, in seguito alla crisi economica;

2. Applicazione della direttiva 2009/52/CE del Parlamento Europeo o del Consiglio, 18, 18 giugno 2009, relativa al permesso di soggiorno per chi denuncia il datore di lavoro in nero o in condizione di super-sfruttamento;

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La vita di un operaio albanese vale meno di quella di un italiano

IL CASO
“La vita di un operaio albanese
vale meno di quella di un italiano”
Torino, sentenza shock: morì sul lavoro, risarcimento ridotto. Ai familiari una somma dieci volte inferiore. All’uomo deceduto addebitato anche il 20% di concorso di colpa nella propria morte
di ALBERTO CUSTODERO

ROMA – L’operaio morto è albanese. Ma la sua vita vale meno di quella di un italiano. Ai suoi familiari, che vivono in Albania, “area ad economia depressa”, va un risarcimento di dieci volte inferiore rispetto a quello che toccherebbe ai congiunti di un lavoratore in Italia. Altrimenti madre e padre albanesi otterrebbero “un ingiustificato arricchimento”. Questa gabbia salariale della morte, ispirata al criterio del risarcimento a seconda del Paese di provenienza del deceduto sul lavoro, è contenuto in un sentenza shock del Tribunale di Torino. Il giudice civile, Ombretta Salvetti, richiamandosi ad una sentenza della Cassazione di dieci anni fa, ha dunque deciso di “equilibrare il risarcimento al reale valore del denaro nell’economia del Paese ove risiedono i danneggiati”. Dopo aver addebitato all’operaio deceduto il 20% di concorso di colpa nella propria morte, la dottoressa Salvetti ha riconosciuto a ciascun genitore residente in Albania la somma risarcitoria di soli 32mila euro. Se l’operaio fosse stato italiano, sarebbero state applicate le nuove tabelle in uso presso il Tribunale di Torino dal giugno 2009 in base alle quali a ogni congiunto dell’operaio morto sarebbero stati riconosciute somme fino a dieci volte superiori (fra 150 e 300 mila euro).

Questa sentenza destinata a fare discutere in un mondo del lavoro nel quale la presenza di lavoratori stranieri è sempre più alta, è stata criticata da uno dei massimi esperti di diritto civile, l’avvocato Sandra Gracis. “In base a questo criterio del Tribunale torinese – spiega il legale – converrebbe agli imprenditori assumere lavoratori provenienti da Paesi poveri, perché, laddove muoiano nel cantiere, costa di meno risarcire i loro congiunti”. “Ma ribaltando la situazione – aggiunge l’avvocato Gracis – che cosa sarebbe successo se il dipendente morto fosse stato del Principato di Monaco, oppure degli Emirati? Il risarcimento ai genitori sarebbe stato doppio o triplo rispetto a quello per un italiano?”.

Secondo Sandra Gracis, “il giudice torinese s’è rifatto al una sentenza della Cassazione del 2000 peraltro non risolutiva, ignorando che la Suprema Corte, appena un anno fa, ha affermato che la “tutela dei diritti dei lavoratori va assicurata senza alcuna disparità di trattamento a tutte le persone indipendentemente dalla cittadinanza, italiana, comunitaria o extracomunitaria”. Già nel 2006 la Cassazione aveva stabilito che “dal punto di vista del danno parentale, non conta che il figlio sia morto a Messina o a Milano, a Roma in periferia o ai Parioli. Conta la morte in sé, ed una valutazione equa del danno morale che non discrimina la persona e le vittime né per lo stato sociale, né per il luogo occasionale della morte”.