La vittoria di Macron. Come può uno scoglio arginare il mare

1- Ha vinto Emmanuel Macron, il candidato preferito – o, per meglio dire, promosso e supportato – dalla borghesia francese. Non di tutta, ovviamente. La classe dominante, d’altronde, è unita solo nello schiacciare le rivendicazioni provenienti dal basso, mentre mantiene al suo interno una pluralità di articolazioni ed interessi. In un certo senso, le elezioni servono proprio a questo: a regolare i rapporti di forza all’interno del campo dei dominanti, evitando perciò che le inevitabili frizioni sfocino in aperta ostilità. Il risultato delle urne è netto: la grande borghesia industriale, economica, e finanziaria per la natura stessa dei suoi interessi (europeista e globalista) ha sconfitto le richieste di protezionismo e chiusura provenienti da settori piccoli e medi della borghesia francese, rimasti schiacciati tra incudine e martello. Da un lato la concorrenza mondiale; dall’altro l’esplosività del movimento di classe.

2- La storia è sempre deterministica quando guardata con lenti retrospettive. Oggi è naturale per tutti che abbia vinto Macron. Non era così solamente pochi mesi fa, quando l’ex ministro “socialista” muoveva i suoi primi passi nell’agone politico in aperta autonomia. Molti hanno scritto circa la vaghezza del programma elettorale di Macron. A noi non stupisce affatto. Dopo tutto, il cerchio che la classe dominante deve sempre quadrare in contesti liberal democratici è quello di governare con il consenso – attivo o passivo che sia – dei molti per gli interessi dei pochi. In tal senso è nella natura delle cose che le forze borghesi mascherino dietro una cortina di fumo – con appelli di natura interclassista – le proprie intenzioni. Emerge però qui, un elemento nuovo. La borghesia vince senza bisogno di stabili organizzazioni partitiche. Le è bastato assemblare un comitato elettorale. E così, se i caucus di notabili di fine ottocento vennero mandati in pensione dall’arrivo sulla scena delle organizzazioni di massa, il crollo del partito socialista – che di quella tradizione è l’erede diretto – coincide con il riemergere di fluidi e poco stabili comitati elettorali. Verrebbe da dire che il dominio borghese assomiglia sempre più ad un gigante con i piedi di argilla.

3- Non era la prima volta che il Front National (FN) giungeva al ballottaggio. Era già successo nel 2002, quando Jean-Marie Le Pen sfidò il candidato gollista, Jacques Chirac. Anche allora il primo turno aveva consegnato un quadro estremamente frammentato, con Chirac che aveva conquistato appena meno del 20 percento dei consensi e Le Pen fermo sotto la soglia del 17. Al ballottaggio i votanti aumentarono di oltre due milioni e mezzo ed il candidato gollista trionfò con più dell’82%. Al contrario, Le Pen riuscì ad attirare solamente 700.000 consensi in più. La storia sembra adesso ripetersi con la figlia nelle vesti del padre. Ma a guardar bene il quadro è decisamente diverso.

4- Per la prima volta dalle lontane elezioni presidenziali del 1969, il numero di votanti al secondo turno diminuisce. E lo fa in modo sensibile. A questo si aggiunga gli oltre 4 milioni tra schede bianche e nulle ed il balzo di circa 3 milioni di Marine Le Pen. Se oggi il tanto citato fronte repubblicano è più debole di quindici anni fa non è però, come molti vorrebbero far intendere, perché la Francia sia meno anti-fascista o perché il FN ha ammorbidito i propri toni. Oggi, ribolle ovunque un profondo odio di classe, che si insinua nei più disparati e spuri rivoli e trova espressione in tanti contraddittori comportamenti, nella vita di tutti i giorni così come nel momento elettorale. Questo viscerale odio di classe individua proprio nel fronte repubblicano il suo nemico principale.

5- Mentre la Lega Nord (LN) di marca salviniana prende a modello il FN per trasportare oltre i confini del nord-est il proprio progetto politico, il partito di Marie Le Pen viene ricacciato ad essere mera espressione della Francia rurale. Per mesi ed anni si è parlato di contesti urbani difficili, di periferie abbandonate che andavano a destra. Niente di più falso. Niente di più menzognero. Il FN ha fatto malissimo in tutte le grandi città. Non è sostanzialmente presente nella cintura parigina, rimane una semplice comparsa per attirare altisonanti titoli di giornale a Marsiglia e Lione. Doveva essere la tornata elettorale che segnava il grande avanzamento della destra francese. Si è risolta, al contrario, nella trasformazione del progetto nazionalista par excellence in un movimento della Francia profonda senza alcuna base urbana. La geografia elettorale del FN assomiglia sempre più a quella della LN – forte in provincia, debole in città – proprio mentre la seconda prende il primo a modello.

6- La parabole del FN dimostra come l’avanzata delle cosiddette forze “populiste di destra” sia tutt’altro che una cavalcata priva di ostacoli. La Le Pen è attesa ora da una resa dei conti interna: non si può tenere unita una forza borghese senza darle una prospettiva di governo. Un settore del partito, quello guidato dalla stessa Le Pen, spingerà quindi per ulteriori cambiamenti cosmetici che ripuliscano la faccia al Fn, per attirare l’appoggio di un settore della grande borghesia spaventata dall’eccessiva polarizzazione politica. Un altro settore di opposizione invece inizierà ad accusare l’eccessiva moderazione della Le Pen per il  mancato sfondamento elettorale. In un certo senso entrambi questi settori hanno ragione: una fraseologia incendiaria e xenofoba ha qualche possibilità di compattare e tenere in agitazione la piccola borghesia rovinata. Ma agitare tale discorso in una fase in cui il movimento operaio è tutt’altro che sconfitto significa generare all’altro lato della società una forte mobilitazione sociale di operai e studenti.

7- Se vi sono dei vincitori in queste elezioni, questi sono certamente Jean-Luc Mélenchon e la ‘sua’ France Insoumise. Mélenchon partiva dai quasi quattro milioni di voti conquistati cinque anni prima. È balzato sopra quota sette milioni. A scanso di equivoci: non ci innamoriamo di nessun progetto elettorale, specialmente di quelli giocati nel campo del riformismo di sinistra. Riconosciamo chiaramente come quello messo in campo da Mélenchon non fosse altro che un programma keynesiano, con alcuni spunti di radicalità. Se eletto avrebbe avuto margini di manovra strettissimi e, con ogni probabilità, la sua parabola sarebbe assomigliata a quella disegnata da Tsipras in Grecia. Ma non basta dichiarare riformista un movimento per provare che è realmente tale agli occhi delle masse. Non basta denigrare un progetto elettorale per vincere ad una causa maggiormente radicale chi ad esso ha guardato con fiducia. L’affermazione di Mélenchon è la ricaduta elettorale e, per questo, necessariamente spuria di uno straordinario ciclo di lotte e di radicalità che ha attraversato la Francia nel recente passato.

8- Il collegamento tra il voto di Mélenchon e la passata mobilitazione contro la Loi Travail (il nostro Jobs Act, in pratica) è evidente. In alcuni casi vi è addirittura una continuità fisica con settori della classe operaia organizzata delle aziende più combattive che hanno dichiarato la propria adesione a France Insoumise. Se coloro che hanno dato vita ad una mobilitazione senza precedenti, se importanti settori della nostra classe hanno visto nella candidatura di Mélenchon – giusto o sbagliato che sia – la possibilità concreta di mantenere vivo quel movimento, è evidente che la partita si è giocata e si giocherà per il prossimo futuro all’interno di France Insoumise.  Il compito delle forze rivoluzionarie deve e doveva essere lavorare lì dove tale radicalizzazione si esprime, cercando di “contaminare” con le proprie idee la base sociale di Mélenchon.

9- Sommando i voti raccolti da Mélenchon con quanto ottenuto da Lutte Ouvrière (LO) e dal Nouveau Parti Anticapitaliste (NPA), il secondo turno avrebbe visto un ballottaggio tra Macron e Mélenchon, con la Le Pen terza per uno scarto minimo di voti. Lungi da noi accusare LO e NPA di aver mandato una reazionaria xenofoba al secondo turno. Niente è più pericoloso che interiorizzare il “voto utile”. Né si tratta di ridurre il tutto a una banale somma elettorale di mele e pere. Il punto è andare al nocciolo politico alla base di queste candidature indipendenti: si trattava di cogliere l’occasione anche attraverso il terreno elettorale per entrare in contatto con settori della nostra classe al fine di mostrare la correttezza delle parole d’ordine dei rivoluzionari. Un’occasione che invece è stata persa.

10- Queste elezioni ci consegnano anche la completa débâcle delle forze “socialiste”, sprofondate al primo turno al minimo storico del 6 percento. Da qualche tempo a questa parte registriamo una crescente capacità dell’ala sinistra all’interno dei movimenti riformisti di conquistare la leadership dei partiti socialdemocratici in Europa. Jeremy Corbyn ha sconfitto i “blaristi” in Gran Bretagna in due occasioni, Pedro Sanchez è stato eletto a sorpresa segretario del PSOE in Spagna nel 2014, e il quasi sconosciuto Benoȋt Hamon ha avuto la meglio sul super favorito Manuel Valls, ex primo ministro durante la presidenza Hollande, in Francia. Al tempo stesso però, i risultati elettorali ottenuti, o quelli che sembrano in arrivo nel caso di Corbyn, sono stati modesti, se non del tutto deludenti. Il problema non è però, come indicano i detrattori, che i programmi proposti da questi candidati, che riprendono alcune parole d’ordine di elementare giustizia sociale, siano troppo di sinistra. Il problema è in realtà di ben altra natura: una cosa è conquistare la leadership di un partito, una profondamente diversa è invece conquistare a sé l’intero partito. Corbyn e Hamon, al riguardo, hanno in comune il fatto di essere soggetti estranei in un corpo che li rifiuta e che vede nella loro sconfitta la possibilità di tornare protagonista. Non sembra affatto casuale che il partito socialista francese abbia mostrato più interesse a sostenere Macron al secondo turno – uno scissionista, non appare superfluo rimarcarlo – che Hamon al primo.

11- Ha vinto Emmanuel Macron. Al momento – nessuno lo nega – il successo della borghesia transalpina sembra completo. Ha creato dal nulla un comitato elettorale con a capo un giovane liberista, forte a sufficienza per conquistare la presidenza e debole quanto basta per non disporre di alcuna autonomia politica. Ha chiuso un movimento di classe di straordinaria forza (quello contro la Loi Travail) dentro il momento elettorale. Ed ha, infine, avuto la possibilità di giocare il secondo turno non solamente lontano da un lessico classista, ma anche oltre la dicotomia destra-sinistra, soppiantata dalle divisioni tra europeisti ed euroscettici, progressisti e reazionari, responsabili e populisti. Non c’è dubbio che queste divisioni saranno riproposte altrove dalla borghesia, segno del suo disperato tentativo di non innescare in alcun modo una dinamica di classe che avrebbe poi non pochi problemi a placare.

12- Ha vinto Emmanuel Macron. E perderà. Il suo progetto è debolissimo e la sua stella – si fa per dire, ovviamente – si brucerà presto. Forse molto prima di quanto fatto da Renzi in Italia. Orfano di una base partitica, pieno al momento di candidati che supportano il suo progetto in vista di conquistare una candidatura per le legislative che si terranno a breve, ma pronti ovviamente a girargli le spalle quando il vento cambierà, Macron sarà costretto a portare avanti un programma di rigore economico e tagli sociali. Proprio l’ingrediente necessario, ma non per questo sufficiente in sé, per mettere in moto un nuovo movimento di classe.

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