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LA GUERRA DEI TRENT'ANNI, LA GUERRA DEL PETROLIO....
La guerra in Iraq ha tradito le aspettative della Casa Bianca: i marine caduti sono ormai più di mille contro le poche decine attese (le centinaia di migliaia di civili iracheni ovviamente non contano!);l'estrazione di petrolio, sulla cui appropriazione si faceva conto per finanziare l'occupazione militare ed eventualmente la ricostruzione del paese letteralmente distrutto dai bombardamenti è, a causa dei continui attentati, di gran lunga inferiore a quella precedente l'invasione; e la crescita della spesa militare ha costretto a continui tagli della spesa pubblica interna per i servizi sociali, la previdenza e l'assistenza. Da il Manifesto del 13 ottobre us (J. Halevi -- L'Iran nel mirino) apprendiamo che secondo un rapporto redatto dall'Istitute of Policy Studies di Washington intitolato "Una transizione fallimentare", perfino i fondi per le cure dei militari feriti hanno subito decurtazioni tanto che il bilancio dell'apposito programma medico presenta un buco di due miliardi e mezzo di dollari. Inoltre, poiché un terzo delle truppe di occupazione è formato dalla Guardia Nazionale, intere località e province sono rimaste prive, per mancanza di personale, dei servizi di emergenza che essa forniva. L'istituto rivela che molte famiglie dei soldati inviati in Iraq hanno dovuto pagare di tasca propria perfino i giubbotti antiproiettile.
Per quanto riguarda l'Iraq, invece, l'intervento armato, che avrebbe dovuto portare benessere e democrazia, ha generato il totale disfacimento del tessuto economico, sociale e civile del paese. La disoccupazione, che già prima dell'invasione era al 30 per cento, è raddoppiata. Più della metà delle scuole sono state distrutte dai bombardamenti e non sono state ricostruite per cui la maggioranza dei bambini è stata di fatto privata del diritto allo studio e trascorre la gran parte del proprio tempo per strada dove spesso incontra la morte. " Le condizioni sanitarie si sono drasticamente deteriorate perfino rispetto al periodo precedente l'invasione quando era in vigore l'embargo. Inoltre i bombardamenti hanno ulteriormente distrutto gli impianti di depurazione mentre l'inquinamento dei terreni e del Tigri è moltiplicato dalle 2.200 tonnellate di proiettili ad uranio impoverito che cospargono il territorio del paese" (art. cit.).
Secondo i sostenitori della "guerra preventiva" il fatto che finora la campagna d'Iraq presenti per gli Usa un bilancio in rosso costituirebbe la prova più evidente che a far muovere la loro grande armata non sarebbe stata la volontà di porre sotto controllo un paese che ha nel suo sottosuolo il 9,3% delle riserve petrolifere mondiali ed è collocato in posizione strategica nel cuore dell'area petrolifera più importante del pianeta, ma la necessità di dare risposta all'attacco alle Twin Towers dell'11 settembre 2001 in quanto parte del più generale "conflitto di civiltà" scatenato dall'integralismo islamico. In forza di questo ragionamento, perfino la maggiore parte di coloro che sono contrari all'occupazione, come per esempio i maggiori partiti della coalizione parlamentare dell'opposizione in Italia, avallano la tesi che la guerra sia scaturita da questa necessità e vi si oppongono solo perché non condividono il mezzo, cioè l'intervento militare ritenuto inefficace ad arginare il fenomeno del terrorismo. Secondo costoro, meglio sarebbe per disinnescare la mina, non tanto "esportare la democrazia" sulla punta dei cannoni e delle ogive dei missili, ma un'azione diplomatica mirata a coinvolgere nel processo il cosiddetto Islam moderato e a rimuovere le cause che alimenterebbero quello estremista e fondamen-talista oltre che i risentimenti che nell'area mediorientale -- e non solo in quella -- albergano contro "l'Occidente" a cominciare dal conflitto isarelo-palestinese.
La tesi della "guerra di civiltà", peraltro, è stata avanzata a posteriori, dopo che tutte le altre motivazioni addotte a giustificazione dell'attacco, quali il possesso da parte dell'Iraq di armi di distruzione di massa si sono dimostrate delle colossali fole, riprendendo quella formulata dallo storico statunitense Huntinghton secondo cui dopo il crollo dell'Unione sovietica gli unici conflitti possibili sarebbero stati appunto quelli fra civiltà e religioni diverse. Ma si tratta di una costruzione ideologica che mira a celare le vere ragioni del contendere e gli interessi materiali che lo hanno determinato e lo alimentano.
Se oltre ai fallimenti, dovuti probabilmente a errori di calcolo o al fatto che l'errore è sempre implicito nell'agire umano, si considerano infatti anche i vantaggi che le forze di occupazione e gli Usa in particolare ne hanno tratto, emerge con chiarezza che a al di là delle chiacchiere anche in questo caso c'est l'argent qui fais la guerre.
I profitti dell'industria bellica e delle compagnie petrolifere Usa Cominciamo da quelli del famoso complesso militar-industriale, che tanto peso ha nelle scelte strategiche degli Usa e della loro vita economica, sociale e politica. Esaminando la trimestrale che le maggiori imprese degli armamenti hanno presentato alla fine dello scorso ottobre a Wall Street, balza subito agli occhi che: "Se gli indici della principale piazza finanziaria del mondo arrancano, i bilanci delle società implicate a vario titolo nella guerra infinita lanciata dall'amministrazione Bush splendono al di sopra delle più rosee aspettative... Analizzando quella di Locked Martin, si scopre come questa società dai tragici avvenimenti del 2001, abbia più che quadruplicato il valore delle proprie azioni. L'utile netto al 30 settembre (2004 n.d.r.) è [stato n.d.r. di 307 milioni di euro, ovvero 69 centesimi per azione, con una crescita del 41%rispetto ai 217 milioni dello stesso periodo del 2003. E le stime per il 2004 e il 2005 sono state riviste al rialzo: un utile netto per azione tra i 2,65 e i 2,75 dollari per quest'anno e tra i 3 e i 3,25 dollari l'anno prossimo, su un fatturato che si aggirerà tra i 34 e i 36 milioni di dollari" [1]. Lo stesso dicasi per la Northrup Grumman, per la General Electric e per tutte le altre compagnie coinvolte nella guerra che da quando Bush è alla Casa Bianca hanno praticamente raddoppiato il loro giro d'affari peraltro destinato a crescere anche nel prossimo anno visto che il Pentagono ha messo in preventivo per il 2005 "... una spesa in armamenti per un minimo di 420 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti i costi per il mantenimento della presenza di truppe in Afghanistan e in Iraq, che prevede l'acquisto di parti di ricambio, di munizioni e la manutenzione (72 miliardi di dollari), e i costi per le commesse civili finalizzate alla sicurezza interna" [2]. Meglio di queste compagnie hanno fatto solo quelle petrolifere, anche esse ben rappresentate nel Comitato d'affari che governa la Casa bianca essendone lo stesso Bush un loro rappresentante. I loro profitti, che già a partire dal 2001 avevano fatto registrare una crescita media superiore al 100% grazie all'incremento del prezzo del petrolio passato dal gennaio di quest'anno a oggi da 34 a 50 dollari al barile, sono balzati alle stelle. Secondo l'ex ministro del petrolio saudita Zaki Yamani e attuale presidente del Center for Global Energy studies di Londra solo le tre principali compagnie petrolifere statunitensi nelle ultime settimane dello scorso agosto perciò "hanno incassato dieci miliardi di dollari" [3].
Inoltre, se si tiene conto che il famoso complesso industrial-militare e petrolifero costituiscono direttamente o indirettamente l'asse portante dell'intero apparato produttivo statunitense e che sono fra i pochi settori dell'industria americana che non subiscono la maggiore competitività estera, appare del tutto evidente che l'intervento in Iraq, sia perché ha contribuito al rialzo del prezzo del petrolio sia alla crescita della spesa militare, è stato come la manna dal cielo che ha consentito all'economia di tirare una boccata d'ossigeno nonostante la stretta in cui si dimena dopo l'esplosione della gigantesca bolla speculativa di Wall Street. Ma al di là dei vantaggi ottenuti dalle diverse compagnie e potentati economici, sono le relazioni macro economiche che intercorrono fra il processo di formazione del prezzo del petrolio e quello di formazione e appropriazione della rendita finanziaria su scala internazionale che dimostrano che anche la tesi della guerra di civiltà è un'enorme falsità.
I deficit gemelli e il prezzo del petrolio Nel corso degli ultimi trenta anni, salvo brevi periodi, gli Usa hanno accumulato debiti senza sosta. Li ha accumulati lo stato per finanziare soprattutto la spesa militare; li hanno accumulati i privati per sostenere i consumi e le imprese per finanziare i processi di ristrutturazione, soprattutto di delocalizzazione degli impianti in aree con bassi salari e le attività speculative sui mercati valutari e azionari. Solo il debito delle famiglie, che venti anni fa era pari alla metà del Pil oggi ne rappresenta l'85%. Il debito aggregato, cioè l'insieme di queste tre componenti. invece è pari al 300 per cento del Pil. "Si tratta -- ci informa il banchiere d'affari milanese Giovanni Tamburi -- del più alto valore dell'intera storia americana. Agli inizi degli anni trenta era arrivato (in valore costante n.d.r.) a quota 270 per cento. Agli inizi degli anni Novanta era a quota 200" [4]. Ma non è finita qui. Insieme al debito è cresciuto anche il deficit della bilancia commerciale che ammonta a circa 600 miliardi di dollari. Tutto ciò significa -- continua il nostro banchiere -- "Molte cose e quasi nessuna bella. Intanto [...]che dietro questo boom americano recente c'è la più alta montagna di debiti della storia. E questo fa dell'economia americana (che è la più grande del mondo) un soggetto molto instabile" [5].
In verità, nessun paese al mondo potrebbe reggere il peso di un debito aggregato di queste dimensioni. Possono farlo gli Usa grazie al fatto che il dollaro gode tuttora del privilegio di essere il più diffuso mezzo di pagamento inter-nazionale. I prezzi del petrolio e di tutte le più importanti materie prime sono infatti denominati in dollari, per cui gli Usa, che detengono il controllo diretto o indiretto della maggior parte delle fonti di produzione sia del petrolio che delle materie prime e delle loro vie, possono interferire sul processo di formazione dei loro prezzi in modo che i loro movimenti risultino speculari a quelli del dollaro stesso, e fare in modo che a un rialzo del prezzo del petrolio corrisponda la svalutazione del dollaro e viceversa. Grazie a questo meccanismo, che si traduce nell'appropriazione di un'immensa rendita finanziaria, essi hanno potuto indebitarsi fino al collo a costi del tutto irrisori [6].
La relazione petrolio e denominazione del suo prezzo in dollari costituisce, dunque,il presupposto stesso della loro supremazia tanto che già nel 1945 -- ci ricorda lo storico F. Cardini -- il presidente Roosvelt "reduce dalla conferenza di Yalta riceveva re Saud sull'incrociatore Quincey. Su quella nave ci si accordò e si stabilì segretamente che il prezzo del petrolio sarebbe rimasto sempre e comunque ancorato al dollaro. Si gettavano così le fondamenta di una delle ragioni della straordinaria potenza americana negli ultimi cinquant'anni; e di una situazione politica, di un ordine internazionale, che solo nei nostri giorni sta giungendo a nuova svolta" [7].
Per molti paesi produttori, ivi compresa l'Arabia Saudita, da quando gli Usa hanno cessato di essere la prima potenza industriale del mondo e perduto il monopolio in molti settori produttivi, ha cominciato ad essere più conveniente importare dai paesi concorrenti quali quelli europei e il Giappone e sempre meno dipendere, per i loro pagamenti internazionali, dal dollaro. Con la nascita dell'euro, essendo la sua area di riferimento la maggiore importatrice di prodotti petroliferi oltre che la maggiore esportatrice di prodotti industriali, per molti paesi produttori dover vendere in dollari e acquistare in euro è divenuto oltremodo svantaggioso. La Russia, per esempio, denomina, ormai da più di un anno, le sue esportazioni verso l'Europa in euro e lo stesso aveva cominciato a fare Saddam Hussein prima che l'Iraq venisse invaso. Ma fortissime spinte in questa direzione sono presenti anche in Arabia saudita e nei paesi produttori sudamericani. Perfino la Cina, nonostante non esporti petrolio e abbia come principale mercato di riferimento per le sue esportazioni gli Usa, ha di recente annunciato di aver avviato la conversione di circa il 20 per cento delle sue riserve valutarie in euro.
Gli Usa sull'orlo dell'armageddon Tradotto in cifre, tutto ciò ha significato un rallentamento del flusso dei capitali verso gli Usa, favorito anche dal fatto che nel frattempo per restituire una qualche competitività al sistema industriale americano e alleggerire la pressione del deficit commerciale e del debito, la Fed ha, per così dire, agevolato una consistente svalutazione del dollaro.
Ora, se si tiene conto che gli Usa necessitano, solo per finanziare il deficit delle partite correnti, di circa 2,6 miliardi di dollari al giorno, cioè qualcosa come l'80% del risparmio netto mondiale, è evidente che il rischio che questo flusso di capitali possa arrestarsi del tutto è altissimo salvo innalzare i tassi di interesse alle stelle. Ma in una situazione in cui si prevede che già "quest'anno... saranno più numerose le dichiarazioni di fallimento delle domande di divorzio o delle iscrizioni ai corsi di specializzazione universitaria o degli attacchi di cuore", [8] ciò potrebbe essere a sua volta esiziale. Addirittura, secondo il capoeconomista della Morgan Stanley, Stepfen Roach, gli Usa potrebbero andare incontro a una vera e propria armageddon cioè a una sorta di apocalisse economico -- finanziaria senza precedenti nella loro storia. Il giornalista Brett Arendes, che ha dato conto di una conferenza di questo banchiere in un articolo apparso sul Boston herald e la cui traduzione è stata pubblicata in Italia da Il Manifesto del 26 novembre u.s. scrive: " L'argomentazione di Roach è questa: il deficit commerciale record dell'America significa che il dollaro continuerà a cadere. Per convincere gli stranieri a comprare ancora i buoni del tesoro Usa e prevenire una crescita dell'inflazione, il presidente della Federal Reserve -- Alan Greenspan -- sarà forzato a far risalire i tassi di più e più rapidamente di quanto non voglia. Risultato di questo processo: i consumatori Usa, che sono pieni di debiti fino agli occhi saranno fatti a pezzi." Come uscire da questa terribile morsa? Afferma il banchiere Tamburi da noi già citato: "La strada, qualunque cosa dicano le autorità americane, è una sola: far pagare il debito...agli altri, cioè al resto del mondo. La strategia economica Usa in questo momento, è appunto quella di esportare il loro debito attraverso il dollaro. Quelli che ci consigliano, quindi, di imitare l'America (fare debiti per crescere, per consumare di più), trascurano questo piccolo particolare: gli americani possano farlo, con molti rischi, anche perché hanno il dollaro, uno strumento fantastico per esportare i debiti e farli pagare agli altri" [9].
E' necessario dunque che i prezzi del petrolio continuino a essere denominati in dollari e che il loro processo di formazione resti sotto il totale controllo degli Usa perché questa è la conditio sine qua non della loro sopravvivenza quale maggiore potenza imperialistica al mondo.
"Chi pensa che gli Stati Uniti siano disposti a perdere il petrolio del Medio Oriente -- ha dichiarato all'inizio della guerra contro l'Iraq l'ambasciatore americano in Italia, Mel Sembler -- è uno che non consoce l'America e gli americani" [10].
In realtà, non solo quella mediorientale, ma tutte le aree petrolifere del mondo non possono sfuggire a questo controllo pena il rischio della fine del cosiddetto secolo americano. E non è un caso che da un po' di anni a questa parte ovunque scorra una sola goccia di petrolio scorrono anche fiumi di sangue. Da una parte è schierato, con gli Usa in testa, chi ha interesse a mantenere intatta la supremazia del dollaro perché è da essa che trae i profitti più consistenti; e dall'altra, con in prima fila ampie frazioni della borghesia dei paesi produttori ed europea, chi, al contrario, ha l'interesse a soppiantarla, o quanto meno a limitarla, perché a causa di essa subisce una decurtazione dei propri profitti quando non del tutto il loro annullamento. Tutti dicono di combattere in nome di un dio e della libertà, ma in realtà in gioco c'è solo il portafogli e il dominio del mondo. Forse è per questo che sul dollaro c'è scritto in god we trust.
Per tutta la prima metà del Seicento (1618 -- 1648), salvo brevi periodi di pace, l'Europa fu messa a ferro e fuoco da una guerra, la guerra dei Trenta anni, alimentata dal conflitto fra cattolici e protestanti. Dalla Boemia si estese alla Germania e pose così i presupposti perché vi rimanessero coinvolte l'Inghilterra, la Spagna, le Province Unite, la Danimarca, la Svezia, l'Italia settentrionale e infine la Francia. Nessuna regione fu risparmiata dalla violenza devastatrice degli eserciti invasori, delle bande di soldati predatori e soprattutto dalla fame e dalla pestilenza. Finì con la pace di Westfalia che segnò la vittoria della Francia e della Svezia contro gli Asburgo d'Austria. Ancora oggi si parla della guerra dei trenta anni come di una guerra di religione nonostante che il trattato che ne sancì la fine lasci le cose del cielo come sono sempre state per occuparsi esclusivamente di una nuova spartizione dell'Europa.
Sarà così anche per la guerra in corso: essa finirà solo quando anche l'ultimo pozzo di petrolio sarà assegnato ai vincitori. Nel frattempo, però, violenza, fame e pestilenze dilagheranno in nome dell'Islam e dei valori dell'Occidente.
(B.C.) http://www.internazionalisti.it
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