Una Zona Economica Speciale per il post-Expo?

 

Un laboratorio di sfruttamento oltre il grande evento del 2015

Nel corso degli anni abbiamo cercato di indicare (e di inceppare) le direttrici delle trasformazioni del nostro territorio funzionali ai disegni dei poteri forti, dall’inaugurazione del nuovo Polo fieristico di Rho-Pero nel 2005 fino all’apertura di Expo 2015. Entrambe queste esperienze, che pongono questa porzione di sprawl milanese a un punto avanzato del progetto di trasformazione dell’intera area metrolombarda, hanno avuto come principale giustificazione la creazione di nuovi posti di lavoro in funzione di un rilancio dell’economia locale, metropolitana e/o nazionale. Le promesse occupazionali legate a Fiera Milano si sono ben presto sciolte come neve al sole e, 10 anni dopo l’inaugurazione, Fiera è nota in ambito lavorativo principalmente perché rappresenta la principale piazza del caporalato cittadino; Expo 2015 è invece terreno di sperimentazione continuo in materia di (contro)riforma del mercato del lavoro.

Shenzhen: la statua di Deng Xiaoping, fautore del "Socialismo con caratteristiche cinesi" e artefice delle Zone Economiche Speciali in Cina

Questo impetuoso decennio di trasformazioni pare ora trovare un logico coronamento nell’idea, che sta montando in questa fase crepuscolare di Expo, della creazione di una “Zona Economica Speciale” (ZES) sulle ceneri del sito espositivo.
Che Expo sia stato un laboratorio per nuove forme di sfruttamento del lavoro con conseguente smantellamento dei diritti dei lavoratori è cosa nota, a cominciare dall’istituzione, con l’avvallo dei sindacati confederali, del lavoro non retribuito, spina dorsale dell’Esposizione universale, spacciato per giunta per “volontariato” a favore di Expo S.p.A., un’azienda il cui unico scopo è il profitto.
Expo 2015 ha in realtà un ruolo più generale nella riforma del mercato del lavoro: dalla mano libera nel reclutamento temporaneo di lavoratori fino alla fine della contrattazione nazionale sostituita da accordi speciali, dall’uso sistematico di stage, tirocini e apprendistato a forme estreme di flessibilità 24/7, da nuovi strumenti di controllo a distanza fino al crescente utilizzo dell’arbitrato nella risoluzione dei conflitti capitale-lavoro, è evidente che quanto viene sperimentato ad Expo ha trovato una prima sistematizzazione nel Jobs Act renziano. Provvedimento che ha coerentemente istituito la “precarietà a tempo indeterminato” con l’introduzione del “contratto a tutele crescenti” sancendo persino la sostanziale legittimità del licenziamento economico e abrogando l’articolo 18 dello Statuto del lavoratori.
Oggi la sperimentazione legata a Expo in tale ambito viene rilanciata dalla proposta, lanciata da più parti in questi giorni, di una “Zona economica speciale” per il post-Expo.

Una versione “integralista” di questa idea ce la offre Pietro Paganini che, sul Corriere della Sera del 24 agosto 2015, propone un “Modello Shenzhen per Expo”: questo, significativamente, è il titolo dell’articolo dove viene sostenuta la necessità di creare “una zona giuridicamente indipendente con autonomia legale, economica, amministrativa e politica” sull’area del sito espositivo, con l’obiettivo di creare un contesto favorevole per attrarre investimenti produttivi dall’estero. E’ il modello delle “Zone Economiche Speciali” sperimentato negli anni ’80 in Cina, a Shenzhen e in altre città della costa sud-orientale. Paganini specifica inoltre meglio il suo progetto di “Aree per l’innovazione”, fatte non solo di incentivi fiscali in grado di attirare capitali stranieri, ma più in generale di “una nuova giurisdizione con caratteristiche uniche”.
Il futuro dell’area di Expo sarebbe dunque in questo caso sottratto alla legislazione nazionale e consegnata all’autoregolamentazione degli attori economici presenti. Questa nuova gestione manterrebbe comunque un tratto comune rispetto al passato, fatto di poteri speciali, logiche commissariali, deroghe alle leggi vigenti, decreti leggi ad hoc: tutti strumenti di governance ampiamente utilizzati nella gestione del grande evento del 2015. E che non hanno mancato di costituire, si pensi al solo ambito lavorativo, degli agghiaccianti inediti quando non anteprime: è il caso, ad esempio, dei controlli (forieri peraltro di licenziamenti) della questura di Milano sull’”idoneità” del “background” degli aspiranti lavoratori dell’Esposizione, nella cui valutazione entravano anche opinioni e appartenenza politiche derivate evidentemente da schedature in possesso delle forze dell’ordine. Oppure delle continue precettazioni ai danni dei lavoratori di Atm, impossibilitati a scioperare a causa del diniego prefettizio giustificato proprio da Expo 2015.
Lo “stato d’eccezione” fin qui descritto rischia però di fare un ulteriore passo verso la norma generale, ben sapendo che anche in analoghe esperienze europee ed extraeuropee le “free zones” sono il laboratorio privilegiato in cui testare sperimentazioni economiche da generalizzare. Ad ogni modo, l’ordinamento giudiziario proprio delle Zone Economiche Speciali è finalizzato a garantire i profitti con condizioni di investimento favorevoli, abbattimento dei costi, minimizzazione dei rischi di impresa, il tutto da realizzarsi ovviamente anche attraverso un regime fiscale e una legislazione del lavoro propri, nonché con la contestuale fine di un’amministrazione pubblica, sostituita da una gestione esclusivamente “business-oriented”.

Benché soggette a vincoli comunitari, le “Free zones” esistono anche in Europa: le più famigerate paiono essere quelle polacche, zone di ipersfruttamento dove gli alti profitti sono garantiti da regimi fiscali particolarmente favorevoli uniti ai salari da fame imposti ai lavoratori. In Italia il progetto di “Zona Economica Speciale” più celebre è probabilmente quello varato dalla Regione Calabria per trasformare il porto di Gioia Tauro in un hub portuale con annessa ZES. Nel 2014 Regione Lombardia diede invece il via libera alla costituzione di una “zona franca” per i territori di confine delle province di Como, Varese e Sondrio: più che attrarre capitali stranieri, questa “ZES in salsa leghista” avrebbe dovuto contrastare la delocalizzazione delle imprese italiane in Svizzera a suon di agevolazioni e sgravi fiscali. Il relatore della proposta, passata senza clamore nè particolare opposizione, è il “rhodense DOC” Marco Tizzoni, ex consigliere comunale eletto in Regione nella lista “Maroni Presidente”. Se si fosse alla ricerca di un contesto politico-amministrativo favorevole alla costituzione di una ZES sul sito di Expo, sicuramente adatti allo scopo sarebbero sia Sala (fresco di endorsement renziano) a Milano, sia Tizzoni (leghista “dal volto umano” e con fama di “incorruttibile“) nella nativa Rho.

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Ad ogni modo, tempo qualche settimana e i piani per il post-expo dovranno necessariamente esser resi noti: le ultime dichiarazioni dell’assessore milanese all’urbanistica (ed ex rettore del Politecnico) Balducci affermano la volontà di garantire una generica continuità rispetto al tema di Expo e citano alquanto confusamente una “cittadella univeritaria” con partner la Statale, una “cittadella dell’innovazione” patrocinata da Assolombarda e il coinvolgimento di Altagamma, fondazione che riunisce brand italiani di reputazione internazionale che operano nella fascia più alta del mercato. Sicuramente è presto per dirlo, e ovviamente ci auguriamo di esser smentiti, ma forse chi ha parlato per il post-Expo di una zona franca dove avviare incubatori di impresa e laboratori misti imprese-università non aveva del tutto torto, tutt’al più che questa idea poggerebbe sulla contiguità con la “vetrina dell’economia italiana” Fiera Milano e la relativa vicinanza di Malpensa, oltre a un ottimo supporto logistico garantito da collegamenti capillari. In questo caso, siamo sicuri che questa porzione di territorio continuerà suo malgrado a fungere da laboratorio per garantire i profitti dei soliti noti a scapito della collettività, affinando gli strumenti di sfruttamento, predazione ed espropriazione della ricchezza prodotta dal territorio.

Centro Sociale SOS Fornace
sosfornace.org

 

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