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I soloni che pontificano su giornali e TV sulle doti miracolose della flessibilità si meriterebbero di passare quello che hanno dovuto subire 60 ‘bravi ragazzi’ lo scorso aprile 2009. Postini e fattorini assunti da una delle ditte alle quali il colosso delle poste private TNT aveva subappaltato una commessa ‘vinta’ da Poste italiane. La mattina, arrivati nei depositi in dismissione di via Valtellina, l’ex dogana di Milano, avevano visto la ‘sparizione’ completa del loro lavoro. Nessuno ad aspettarli, nessun mezzo, spariti responsabili e referenti. Nulla, più nulla. Dopo un presidio davanti alla TNT di zona Mecenate in molti avevano fatto causa alla filiera di ditte che li aveva presi per la gola. La strategia dei manager TNT era stata quella di proporre una buonuscita di 1500 euro ad alcuni di loro, decisione inconfessabile immediatamente negata quando sotto gli uffici della multinazionale delle spedizioni si era presentato un folto gruppo di precari con striscioni e telecamere al seguito, assistiti da alcuni devoti del Santo. Oggi le cause sono in dirittura d’arrivo e ci sono buone speranze che i malcapitati possano avere almeno un risarcimento per il torto subito. Bastava guardarli in faccia per capire quali siano i costi che i rampanti manager di Poste Italiane si vantano di aver tagliato, quale sia il risultato delle privatizzazioni bipartisan che da 20 anni infettano il paese, a quale livello di barbarie si sia prostrato il mondo del lavoro nella civile Milano, anno del signore 2010.
I volti sferzati dalla pioggia fanno davvero brutto. Ma loro ora che non c’è una partita da guardare o la bamba da comprare sono dei nostri. Le facce indurite dalla vita, ma non ancora sconfitte. Ragazzi di periferia con pitbull al seguito, slang di Quarto, Baggio, Corvetto. Cannoni che partono alle 8 insieme a decine di sigarette. Trenta e quarantenni all’ultimo treno sfuggito di corsa, quando pensavano di averlo raggiunto quel cazzo di posto di lavoro. Sognato e sottratto loro giovedì scorso. Insieme ai furgoni con cui facevano le consegne.
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Mai come quest’anno la May Day è arrivata sulle prime pagine di giornali e nei TG. Peccato che il miracolo sia avvenuto solo per sputtanarla. Tralasciando lo sproloquio sulla violenza e le scritte, sui ravers e lo sballo, i contenuti della May Day non sono minimamente passati.
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Più di centomila hanno sfilato a Milano per la nona edizione: confederali battuti 20 a 1
“Aspiranti veline offresi per posto fisso in parlamento. No contratti
co.co.de”. Così recitava uno striscione appeso al primo piano di uno
stabile all’inizio di Via Torino, una delle arterie centrali di Milano
dove è sfilata la grande parade dell’EuroMayDay009.
Un’ironia
che calza a pennello con lo spirito della MayDay. Quella di quest’anno
è stata la nona edizione, ma lo smalto, l’ironia, l’invettiva, la
rabbia, il desiderio di cambiare sono sempre quelle degli inizi. Con
una differenza: quest’anno hanno partecipato più di 100mila giovani. Una cifra che è il segno dei
tempi e della consapevolezza raggiunta dal lavoro precario. Nulla a
confronto delle migliaia che avevano sfilato nel 2001. E nulla al
confronto dei 5mila che nella mattinata aveva seguito le bandiere di
Cgil, Cisl e Uil. MayDay batte il sindacato confederale 20 a 1.
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Anche oggi le serrande sono chiuse. Il 23 aprile i lavoratori di One Logistic e di Toro Service si sono presentati, come tutti giorni, al lavoro nel centro di smistamento e distribuzione delle poste italiane di via Valtellina.
Lì hanno trovato la sorpresa: da un giorno all’altro gli è stato cominicato che il lavoro non c’era piu’.
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