La normativa europea sulla privacy e la protezione dei dati personali, richiede che tu venga informato sull'utilizzo dei cookie che viene fatto su questo sito. In questa pagina troverai l'informativa dettagliata. Finquando non premerai approvi potrai riscontrare dei comportamenti anomali. Tuttavia per bloccare i cookie di terze parti è necessario accedere alle impostazioni del browser e procedere al blocco manuale.
Dalle casse e dai banconi dei caffé di Starbucks, da chi cucina pizze per Pizza Hut e prepara panini da Jimmy John’s sono nate nuove esperienze di sindacalismo e di organizzazione dei lavoratori simbolo della precarietà.
Il 10 ottobre, a Milano, San Precario vi invita a un incontro con Erik Forman, ex barista di Starbucks, licenziato dalla famosa catena di caffé e poi tra i fondatori della Starbucks Union per gli IWW, il glorioso sindacato Industrial Workers of the World. Erik è stato anche uno degli organizzatori dei lavoratori delle paninoteche Jimmy John’s. Si è trattato della prima campagna sindacale in un fast food americano dagli anni Settanta.
Parleremo di come negli Usa è stato possibile ricominciare a fare sindacalismo nei luoghi simbolo della precarietà, i fast food. E di come la crisi del 2007 ha peggiorato le condizioni di lavoro dei precari ma ha anche ridato vita ai movimenti dei lavoratori, dal Wisconsin a Occupy Wall Street.
L’incontro si terrà a partire dalle 19 presso l’Infopoint San Precario al PianoTerra, in via Confalonieri 3 a Milano, zona Isola
A Milano, due giorni di convegno , il 30 e 31 maggio, organizzati nell’ambito della Long MayDay, dalle Associazioni BioS e San Precario, in collaborazione con il Bin-Italia per costruire una autonoma mappatura della realtà territoriale lombarda, tra nuovi modelli di creazione della ricchezza e precarietà strutturale. E per ragionare di reddito, stato sociale, nuovi diritti del comune.
Un silenzio imbarazzante, un vuoto, un’assenza, quando non una frattura
tra bisogni reali e scelte pubbliche, quando non uno sganciamento tra
corpo sociale e istituzioni. Da un lato una politica incapace di dare
forma a un welfare (e a un reddito) opportuno nella presente situazione
di crisi e adeguato a un contesto dove precarizzazione,
globalizzazione, femminilizzazione del lavoro e finanziarizzazione
dell’economia hanno già da tempo scombinato gli assi tradizionali del
problema. Dall’altro i movimenti, le realtà lavorative, i soggetti che
in questi anni hanno contribuito a costruire una pratica, analitica,
rivendicativa, conflittuale sui territori e nelle imprese.
Quest’anno la Mayday di Milano ha esondato come un fiume in piena. E’
diventata, per la prima volta nei suoi nove anni di età, una vera festa
di popolo. Non c’è altro modo per raccontarla: la Mayday è il primo
maggio dell’Italia del secondo millennio.
Comunicato n° 1
Testosterone partout, justice nulle part
Al termine della MayDay di Milano, il primo maggio scorso, è
avvenuto un fatto gravissimo: l’abuso di un uomo su una donna. Come
uomini e donne che partecipano al processo di costruzione della MayDay,
ci sentiamo direttamente coinvolt* in quello che è successo e siamo
rimasti colpiti nel cuore dal fatto che sia accaduto in uno dei nostri
spazi. Anzi, in quello che per noi è uno degli ultimi spazi residui di
libertà ed espressività della città di Milano.
Più di centomila hanno sfilato a Milano per la nona edizione: confederali battuti 20 a 1
“Aspiranti veline offresi per posto fisso in parlamento. No contratti
co.co.de”. Così recitava uno striscione appeso al primo piano di uno
stabile all’inizio di Via Torino, una delle arterie centrali di Milano
dove è sfilata la grande parade dell’EuroMayDay009.
Un’ironia
che calza a pennello con lo spirito della MayDay. Quella di quest’anno
è stata la nona edizione, ma lo smalto, l’ironia, l’invettiva, la
rabbia, il desiderio di cambiare sono sempre quelle degli inizi. Con
una differenza: quest’anno hanno partecipato più di 100mila giovani. Una cifra che è il segno dei
tempi e della consapevolezza raggiunta dal lavoro precario. Nulla a
confronto delle migliaia che avevano sfilato nel 2001. E nulla al
confronto dei 5mila che nella mattinata aveva seguito le bandiere di
Cgil, Cisl e Uil. MayDay batte il sindacato confederale 20 a 1.