Ieri, oggi, domani. Riflessioni intorno al 15 Ottobre

Il lungo 15 otto­bre faceva appena in tempo a finire che già si sca­te­nava in rete una incre­di­bile ondata giu­sti­zia­li­sta, di con­danna e, infine, dela­to­ria.
Migliaia e migliaia di com­menti, di post, anche su siti e por­tali di movi­mento con­dan­na­vano “senza se e senza ma” gli scon­tri di piazza S.Giovanni, chie­de­vano di arre­stare e “but­tare via la chiave”, arri­va­vano a pro­muo­vere la denun­cia mezzo inter­net dei “black bloc” pub­bli­can­done le foto su Face­book o altrove.
Nes­suna novità. Basti pen­sare a al 2001 quando dopo Genova il coro una­nime con­dan­nava i “black bloc”, si sper­ti­cava nelle distin­zioni dalla “fec­cia”, cer­cava la figura asso­lu­to­ria de “l’infiltrato”.
La Poli­tica, in egual modo, riu­sciva a distin­guersi per le pro­po­ste di nuove leggi repres­sive, di chiu­sura delle libertà di mani­fe­sta­zione e azione pre­ven­tiva “con­tro i vio­lenti”. Oggi forse ancor più di allora è facile, per chi non ha biso­gno di intel­let­tuali e gior­nali di rife­ri­mento, vedere tutto que­sto come quello che è stato: la costru­zione di una immagine-evento sulla quale, a diverso titolo, par­tire per ter­ro­riz­zare e divi­dere, da un lato, e sna­tu­rare, dall’altro, il movi­mento ita­liano di oppo­si­zione alle poli­ti­che di auste­rity.
La gior­nata del 15 in realtà ha mostrato i suoi limiti mag­giori già nell’organizzazione. Le diverse com­po­nenti poli­ti­che e sociali non hanno saputo tenersi in con­si­de­ra­zione reci­proca, ponen­dosi obiet­tivi con­creti diversi; da chi voleva creare un oppo­si­zione di governo a chi ha visto in quella piazza un ulte­riore pas­sag­gio di un movi­mento con­flit­tuale già in mar­cia da alcuni anni. A que­sto si è aggiunto il limite dato dall’atteggiamento di coloro che hanno rispo­sto ai vari e diversi appelli sul web, pre­sen­tan­dosi in una piazza come sin­goli sle­gati da qual­siasi per­corso o legame con la realtà ita­liana, gli uni imma­gi­nando di tro­varsi nella Spa­gna delle accam­pa­das, gli altri nella Gre­cia degli assalti armati al par­la­mento. Il resto è cro­naca.
Non ci adden­tre­remo in noiose e già sen­tite ana­lisi socio­lo­gi­che: le imma­gini par­lano più di mille tomi da biblio­teca. Decine di migliaia di gio­vani, lavo­ra­tori, di diversa pro­ve­nienza sociale e pro­fes­sio­nale hanno mani­fe­stato a Roma quel 15 otto­bre. Nono­stante que­sti pre­sup­po­sti, è stata sicu­ra­mente posi­tiva la deter­mi­na­zione dimo­strata da quelle migliaia che hanno preso in mano il loro destino e si sono oppo­sti alle cari­che della poli­zia in Piazza S. Gio­vanni. Basta sen­tire le loro parole, rac­colte qua e là dai tele­gior­nali e dai gior­na­li­sti più “curiosi”: “Ci stanno rubando il futuro”. Que­sta volta non è stato solo uno slo­gan. È stata una con­sa­pe­vo­lezza dif­fusa, che ha dato opera a quanto già si era “pro­messo” lo scorso 14 Dicem­bre.
E forse è anche a causa di que­sta con­sa­pe­vo­lezza, della deter­mi­na­zione mostrata in piazza non solo da chi l’ha difesa dalle camio­nette lan­ciate in caro­sello con­tro i mani­fe­stanti, ma anche da quanti, tanti, sono rima­sti e hanno soste­nuto, con la loro pre­senza, la resi­stenza, non cadendo, già in piazza quel giorno, nel gioco della distin­zione, della dis­so­cia­zione.
È pro­prio a causa di que­sta con­sa­pe­vo­lezza che il silen­zio non ci ha rin­chiuso nelle nostre case: lo schifo, la rab­bia e il ter­rore sono stati ricac­ciati dalla dignità, dal senso di giu­sti­zia, e dalla pro­fonda con­vin­zione che lot­tare per il pro­prio futuro non ammette distin­zioni in vio­lenti e non vio­lenti.
In que­ste set­ti­mane molti hanno preso parola riven­di­cando la deter­mi­na­zione di quella piazza, altri hanno scelto la rot­tura e si avviano a per­cor­rere altre strade.
A mente fredda, i risul­tati pro­dotti dal 15 otto­bre si pos­sono enu­me­rare così:
1 – Le prin­ci­pali (ma non tutte) sigle di movi­mento e sin­da­cali hanno colto l’occasione per inca­sel­lare una parte del sen­ti­mento di indi­gna­zione, che prima riu­sci­vano mala­mente a con­trol­lare secondo i para­me­tri “clas­sici”; ognuno ha creato la sua “truppa”, rin­chiu­den­dola den­tro l’annunciato “cor­done pro­tet­tivo” alla pros­sima mani­fe­sta­zione. Qual­cun altro, più ardito, è arri­vato fino ad auto­pro­cla­marsi come unico e vero “indi­gnato ita­lico”.
Pos­siamo dirlo: gli “indi­gnati” non esi­stono più, come espe­ri­mento inno­va­tivo delle forme dell’agire poli­tico e della deci­sione col­let­tiva.
2 – Nono­stante le mano­vre di recin­zione, resta una buona parte dei sog­getti che hanno mani­fe­stato in que­sti anni che non ci sta a doversi posi­zio­nare al di là o al di qua della “linea giu­sta”. E tra que­sti c’è tutta una inte­res­san­tis­sima com­po­si­zione sociale fatta di pre­cari, di stu­denti gio­vani e gio­va­nis­simi, di lavo­ra­tori incaz­zati, senza dimen­ti­care i tan­tis­simi cit­ta­dini che lot­tano nei ter­ri­tori, dai No Tav ai più diversi comi­tati locali.
3 – Non è riu­scita, in sostanza, la “gab­bia media­tica” attorno ai con­te­sta­tori: anche gra­zie alla pre­po­tente attua­lità della crisi, che richiama costan­te­mente sotto i riflet­tori i veri respon­sa­bili, ban­chieri, poli­tici e poli­ti­che neo­li­be­ri­ste. Le misure di restri­zione alle libertà per­so­nali sono rima­ste in attesa, rin­chiuse, per ora, in un dibat­tito tutto par­la­men­tare tra chi pro­pone la legge Reale 2.0 e chi invece pro­pone di esten­dere alla società le misure già spe­ri­men­tate negli stadi. Monta, invece, la voglia di fare qual­cosa di più con­creto per risol­vere, una volta per tutte, il nostro pro­blema, che si chiama “potere” (o “capi­ta­li­smo”).
Di fronte a que­sto sce­na­rio mutato, noi altri, “nue­ter” pen­siamo si apra un’occasione impor­tante per por­tare gli indi­vi­dui che hanno costi­tuito quest’ondata di indi­gna­zione a diven­tare una col­let­ti­vità cosciente innan­zi­tutto dei pro­pri metodi deci­sio­nali e di lotta.
Man­te­nendo quello che di buono si è mostrato in que­sti mesi, a livello di orga­niz­za­zione poli­tica interna, ovvero la presa di parola libera, il con­fronto aperto e quanto più oriz­zon­tale pos­si­bile.
Non ci serve essere d’accordo su tutto e sui mas­simi sistemi: quello che serve ora è costruire degli spazi di deci­sione aperti all’intervento di sen­si­bi­lità diverse, di sin­goli, non orien­tato alla ricerca della sin­tesi, ma bensì della con­sa­pe­vo­lezza di stare intra­pren­dendo un per­corso comune. La cosa fon­da­men­tale, di base, da riu­scire ad otte­nere è un “cir­cuito di fidu­cia reci­proca”, che si basa nello stare fianco a fianco durante le azioni e le mani­fe­sta­zioni e nella sin­ce­rità della discus­sione dei momenti di presa della deci­sioni.
Avendo chiaro, anche gra­zie all’esempio for­nito dome­nica 23 otto­bre dai No Tav, che ogni pra­tica è legit­tima e, ancor più impor­tante, adatta a que­sta situa­zione, a patto di saperla rag­giun­gere tra­mite pro­cessi che siano di avan­za­mento col­let­tivo, e non vel­lei­ta­rie “fughe in avanti”.
Sap­piamo anche — ci siamo cre­sciuti den­tro a que­sto para­digma — che un movi­mento come que­sto, di nuovo glo­bale, non sta in piedi se non rie­sce a darsi degli obiet­tivi pra­tici e se non si pone di rea­liz­zare il muta­mento prima di tutto nelle assem­blee e nei ter­ri­tori che ognuno di noi si trova a vivere nel quo­ti­diano.
A Bolo­gna le sin­gole realtà hanno riba­dito la loro volontà di rispon­dere all’ondata repres­siva con­ti­nuando i per­corsi e le lotte costruiti in que­sti mesi, ognuna con i pro­pri metodi e le pro­prie ana­lisi, ma avver­tendo il fal­li­mento di quel metodo deci­sio­nale tra i gruppi e di gestione delle piazze che ha carat­te­riz­zato il movi­mento negli ultimi anni. Le divi­sioni, i cap­pelli, le sca­ra­mucce per la testa dei cor­tei, appa­iono ora più che mai come pra­ti­che inu­tili se non dan­nose.
L’esigenza è quella di creare una siner­gia tale da rima­nere in ogni momento, in ogni piazza, quella col­let­ti­vità cosciente che più di ogni altra cosa ci distin­gue dai vari indi­gna­dos in salsa ita­liana, che non sono riu­sciti a tro­vare le moda­lità per far vivere quo­ti­dia­na­mente quel senso di appar­te­nenza e con­di­vi­sione dell’esperienza che tutt* abbiamo avver­tito vivo e forte in piazza S. Gio­vanni. Essere in rela­zione ed avere una respon­sa­bi­lità comune, essere dun­que cor­re­spon­sa­bili nella lotta quo­ti­diana ad un pre­sente che non ha più nulla da offrire se non l’evidenza della neces­sità del suo supe­ra­mento.
Le moda­lità attra­verso cui rea­liz­zare que­sto obiet­tivo sono tutt’altro che scon­tate e riman­gono i veri nodi da scio­gliere per ripar­tire, dimo­strando di aver colto a pieno il por­tato poli­tico di quest’anno, rias­sunto nei signi­fi­cati del 14 dicem­bre, della lotta No Tav e del 15 otto­bre. Mostrano la neces­sità di tra­sfe­rire quel metodo col­let­tivo e di con­di­vi­sione anche nel rap­porto tra gruppi nell’organizzazione di piazza, in pri­mis per difen­dere i nostri cor­tei e
fare in modo che tutte le ana­lisi e le pra­ti­che di lotta tro­vino in strada il modo di espri­mersi nella loro ete­ro­ge­neità tute­lan­dosi e rispet­tan­dosi a vicenda.
L’errore più grande con­si­ste­rebbe nel chiu­dersi a guscio nella pro­pria area, nel pro­prio gruppo e por­tare in piazza cor­tei che riflet­tano la chiu­sura delle varie iden­tità del movi­mento rispetto a tutte le altre. Se la ten­ta­zione attuale a costruire recinti ideo­lo­gici e ser­vizi d’ordine stile Katanga è forte, altret­tanto forte è la per­ce­zione dell’errore che si com­met­te­rebbe avva­len­dosi di simili pra­ti­che.
Da que­sto dipende non solo la vit­to­ria nel pre­sente, ma la soprav­vi­venza stessa di un modo di fare poli­tica che non si accon­tenta di ano­nimi appelli per accor­rere a par­te­ci­pare a giornate-evento lan­ciate sul web, ma neces­sita di con­fronti col­let­tivi, deci­sioni comuni, che ha biso­gno di met­tersi per­so­nal­mente in gioco. Que­sta è la sfida che abbiamo di fronte e che il 15 otto­bre ha messo in luce con chia­rezza lam­pante: il biso­gno di creare dei cir­cuiti di cor­re­spon­sa­bi­lità e senso di appar­te­nenza all’interno di un peri­me­tro defi­nito col­let­ti­va­mente che per­met­tano di difen­dere i com­pa­gni e le com­pa­gne, tute­lare le piazze e i cor­tei e per­met­tere a idee e pra­ti­che diverse di espri­mersi.
Un altro passo su cui con­fron­tarsi è la ricerca di un ter­reno di pro­po­ste di base comune su cui costruire un per­corso poli­tico.
Nel nostro pic­colo, ci per­met­tiamo di pro­porne alcune.
Tro­vare degli spazi, anche attra­verso la pra­tica della riap­pro­pria­zione, per sod­di­sfare imme­dia­ta­mente il biso­gno di casa che mol­tis­simi vivono oggi come una delle prio­rità impel­lenti; allo stesso tempo, que­sti spazi potreb­bero diven­tare anche la solu­zione col­let­tiva per altri biso­gni dif­fusi: dalle mense popo­lari a espe­ri­menti di scam­bio basati su una logica di reci­pro­cità e non di pro­fitto, da un istru­zione aperta a tutti/e, gra­tuita e gestita dal basso (asili, scuole, uni­ver­sità popo­lari) all’autogestione dell’acqua e dei beni comuni.
Que­sti sono modi di sot­trarsi pra­ti­ca­mente alla dipen­denza dalle ban­che e dai ricatti degli impren­di­tori, una lotta per l’indipendenza della società dal mer­cato, dalla finanza e dalla Poli­tica.
Ma nello stesso tempo, sarebbe impor­tante difen­dersi dal sac­cheg­gio che ci viene impo­sto per ripa­gare la crisi di lor­si­gnori. Pen­sare a come strut­tu­rare gruppi di lavoro che fac­ciano pro­po­ste con­crete su come rac­co­gliere le bol­lette e le multe per non pagare o pagare meno senza essere fuci­lati all’istante da Equi­ta­lia o rovi­nati per la vita.
Insomma, par­tire dai nostri biso­gni e dalle nostre dif­fi­coltà con­crete e quo­ti­diane per tro­vare delle solu­zioni che siano allo stesso tempo tra­du­zione pra­tica dello slo­gan “noi il vostro debito non lo paghiamo” e costru­zione di un alter­na­tiva con­creta all’esistente.
Redcat&Petirrojo

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