Belgio - Facciamola finita con l'immagine della lotta anti-carceraria

FACCIAMOLA FINITA CON L’IMMAGINE DELLA LOTTA ANTI-CARCERARIA...

È una questione ben nota. I rivoluzionari vi hanno a che fare da sempre e probabilmente sarà sempre così. Si tratta della tensione fra l’analisi della realtà di lotta e i metodi organizzativi e di lotta contrapposti. E dell’evidenza che quasi ogni metodo di lotta che non si basi sulla conoscenza reciproca, sull’affinità e sull’informalità finisce per produrre una caricatura di se stesso e stimolare comportamenti nefasti. Per di più, è impossibile separare la questione dell’organizzazione dal contenuto d’un progetto o di una prospettiva specifica.

È in quest’ordine schematizzato che intendiamo chiarire alcune delle nostre scelte e idee. Lo scopo non è di additare alcuni compagni o voler privare certe dinamiche del loro sviluppo naturale (e quindi di tempo, di esperienze e di errori). Ma sarebbe sbagliato non osare criticare certe realtà problematiche all’interno di quello che si può chiamare, con un po’ di buona volontà, “movimento anarchico”. Forse divergiamo quanto a idee da alcuni compagni che si avventurano su uno stesso terreno di lotta (quello della prigione in tutte le sue forme), e in tal caso è bene che queste idee si manifestino. Sull’argomento sono circolati una serie di testi e di critiche che ci hanno ispirato parecchio nello sviluppo del nostro progetto. Speriamo che queste esperienze e considerazioni saranno utili ai diversi compagni per affinare i loro progetti, ciascuno secondo il proprio contesto e le proprie idee.

Non è un caso se il periodo glaciale che stiamo attraversando a livello sociale ha anche delle conseguenze nel movimento anarchico. In mancanza di una chiara prospettiva e una volta perduta la determinazione di dare “l’assalto al cielo”, è quasi logico che una parte del movimento si sia ridotta a una sorta di folclore senza senso. Un terreno su cui prospera questa miseria è quello della lotta contro il carcere. Sembra che tale lotta sia diventata uno degli ambiti prediletti per circondarsi con un’aureola di radicalità e d’importanza. E spesso — almeno per chi cerca qualche cosa in più delle dichiarazioni di solidarietà prêt-à-porter — il vuoto e la mancanza di prospettive si tramutano rapidamente in ascesso. Inoltre, non è difficile trasmettere all’interno l’immagine di essere “attivi”, dato che i prigionieri hanno semplicemente meno strumenti per rendersi conto di quanto accade all’esterno per inserirlo in un contesto e magari per confutarlo. Tale immagine è sufficiente per guadagnare credito presso altri compagni, mentre in realtà la comunicazione con i compagni detenuti non viene mantenuta, la volontà reale di battersi contro la prigione è assente (o si è spenta a causa di tante esperienze negative e di una serie di pose che sostituiscono la lotta reale), molte promesse fatte non vengono mantenute e la continuità necessaria (spesso i prigionieri sono là rinchiusi per un po’ più di qualche mese) manca. Mentre prosperano le sigle rassicuranti, alcuni ne traggono qualche conclusione...

La cosiddetta lotta contro il carcere talvolta assomiglia più a un attivismo anti-repressione. L’informazione è diventata la parola d’ordine centrale e i suoi diffusori sono i portatori della solidarietà. E questa informazione ha sempre meno senso, poiché se ne fa sempre meno uso. Non se ne discute, non si riflette sul modo di ribaltare certi attacchi repressivi trasformandoli in una intensificazione delle lotte. La sola cosa che sembra contare è la mera diffusione di informazioni ed è su questo terreno che le sigle prosperano. Si salta allora da un feuilleton repressivo all’altro, mentre l’attacco contro il movimento viene consumato come uno spettacolo ricco di spettatori e i compagni incarcerati vengono spesso staccati dal loro contesto di lotta e dalle loro idee.

La solidarietà non può essere ridotta a «diffusione di informazioni». Noi concepiamo la solidarietà come un tentativo o una tensione permanente, da un lato verso il proseguimento della lotta dei compagni incarcerati e, dall’altro lato, verso il coinvolgimento attivo dei prigionieri nelle discussioni e nelle lotte all’esterno... Per riprendere uno slogan il cui contenuto è stato scalzato negli “ambienti anti-carcerari”: «La nostra solidarietà non è carità». In effetti la nostra solidarietà si basa su una rivolta condivisa, su idee e prospettive comuni. Questo è il nostro punto di partenza e ci sembra il modo migliore di lottare contro l’isolamento che lo Stato cerca di imporre ad alcuni compagni.

È a partire da questo angolo di attacco che la questione dei prigionieri “politici” e “sociali” potrebbe essere minata. Non basta in effetti proclamare che non c’è differenza. Il solo criterio che diamo alla nostra solidarietà è la condivisione di una rivolta o di idee con alcuni prigionieri (incarcerati sia a causa del loro percorso rivoluzionario, sia a causa delle condizioni di sopravvivenza). In questo senso, abbiamo fatto la scelta di non abbandonarci ad acrobazie che finiscono con l’esprimere comunque una solidarietà specifica a membri di gruppi autoritari o a celebri “criminali” i cui aspetti criticabili vengono deliberatamente elusi. Ci sembra che questa scelta di basare la nostra solidarietà su una rivolta condivisa ci permetta, più di ogni altra, di far emergere in maniera chiara e netta la nostra prospettiva anarchica di distruzione delle prigioni e del loro mondo. E questo naturalmente non solo nei confronti dei prigionieri, ma anche nei confronti di altri sfruttati e oppressi nella strada.

Se in certe contrade il riferimento demagogico ai “prigionieri politici” ci fa sempre più vomitare, da parte degli anarchici ciò appare piuttosto una propensione verso l’altro estremo. Ogni prigioniero che si ribella in un dato momento viene messo su un piedistallo e da quel momento etichettato come “ribelle sociale”. Questa è una conseguenza della funesta mentalità di non partire da una prospettiva autonoma, ma di voler ostinatamente scoprire dei “soggetti” dappertutto. Dinnanzi a ciò, noi tentiamo di sviluppare la nostra propria lotta, anche parziale, su una base chiara e con una precisa pratica. Non vogliamo più ingannarci incollando etichette un po’ dovunque. Inoltre, l’immagine che viene proiettata di certi prigionieri impedisce ogni discussione reale e quindi lo sviluppo di una prospettiva condivisa. I prigionieri vengono posti al di sopra di noi e allora ci si sente obbligati a trasmettere all’interno una immagine falsificata della fermezza e della forza del movimento esterno. In questo modo non si ingannano solo i prigionieri, ma soprattutto noi stessi. Il risultato è l’amarezza e il disgusto, all’interno come all’esterno.

Pensiamo infine che occorra cercare di evitare il più possibile che la lotta contro il carcere e la solidarietà con i compagni detenuti siano tenute separate dal resto delle lotte. Dovremmo andare alla ricerca di possibilità e di occasioni per porre la questione del carcere in altre lotte e viceversa. Concretamente, ci è sempre sembrato assurdo separare per esempio la lotta contro il carcere dalla lotta contro i centri di detenzione per clandestini. Parlare ai prigionieri solo di prigione piuttosto che affrontare anche altri aspetti del dominio ci conduce in un vicolo cieco. In effetti, dobbiamo parlare di tutto ciò che fa parte della nostra prospettiva anarchica, anche se ciò non facilita necessariamente le cose (quel che vogliamo fare con il denaro probabilmente non piacerà a parecchi ladri). In questo senso, siamo ben consapevoli dei limiti di una pubblicazione come La Cavale e ci lanciamo la sfida di superare questi limiti. D’altro canto, La Cavale è sempre stato uno strumento — per quanto modesto — della nostra attività attorno all’incessante agitazione nelle prigioni belghe, proprio perché non abbiamo mai considerato la contro-informazione e le analisi come un fine in sé, ma semplicemente come un primo passo, come un punto di partenza.

Intendiamo continuare nella direzione che ci sembra più fertile: basare i nostri rapporti e relazioni su prospettive condivise attorno alla lotta contro il carcere, su un’affinità reale e non su una immagine che si erode irrimediabilmente. Così abbiamo deciso di non utilizzare più il nome di Croce Nera Anarchica. Non consideriamo questa decisione un passo indietro, ma un passo in avanti per approfondire il nostro progetto ed affinarlo, un progetto diretto contro la prigione e il suo mondo e che si lega fra gli altri con l’agitazione nelle carceri belghe e con la lotta che i compagni detenuti conducono giorno dopo giorno dal fondo delle loro celle.

Ex-“Croce Nera Anarchica Anversa”

 

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Questo testo è stato scritto nel dicembre 2008. Diffuso inizialmente in un ambito ristretto, si è deciso di pubblicarlo per stimolare un dibattito ormai diventato urgente.

Lun, 08/06/2009 – 14:22
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