John Zerzan: "Bisogna distruggere l'apparato tecnologico"

John Zerzan: "Bisogna distruggere l'apparato tecnologico"

Intervista effettuata dal periodico spagnolo Diagonal a John Zerzan
fonte:http://diagonalperiodico.net/Hay-que-destruir-el-aparato.html
traduzione: Culmine

Mercoledì 10 febbraio 2010 - Numero 119
DIAGONAL: In una recente intervista hai detto che stanno venendo fuori
delle posizioni che mettono efficacemente in discussione la modernità e il
progresso. Qual è la tua opinione sul movimento della decrescita e sulla
sua capacità di risposta alla crisi economica globale?
JOHN ZERZAN: Un paio d'anni fa, a Barcellona, si è tenuta una discussione
considerevole, in particolare da parte di gruppi francesi di questa
tendenza. Alcuni aspiravano ad integrarsi nel gioco parlamentare, cosa che
considero una cattiva idea e non so quale grado di radicalismo implica la
loro proposta. Da un lato, alcuni dei loro concetti non vanno molto
lontano, come le "città lente", gli "slow-food" o l'idea di
semplificazione. D'altro lato, non hanno una gran portata perché mancano
della critica sulla totalità del fenomeno. Tutto il mondo va verso la
direzione della crescita industriale fuori da ogni controllo: la Cina,
l'India e molti altri paesi avanzano con una rapidità verso tale realtà.
Quindi, la decrescita potrebbe essere desiderabile, ma bisogna impostare
una lotta concreta contro tutte queste dinamiche, istituzioni e forze che
spingono verso l'altra direzione. Credo che promuovano qualcosa di sano
ma, se scelgono la strada dell'integrazione in partiti verdi ed altri,
credo che il loro obiettivo resterà compromesso dalla dinamica dei
partiti, anche se  talvolta sono capaci di trovare una via alternativa.
D.: Qual è la tua posizione teorica rispetto a questa lotta?
J.Z.: L'anti-industrialismo. Se non ci occupiamo noi di questo problema,
evitiamo di attaccare la principale manifestazione della società di massa,
in vigore da 9.000 anni. Non possiamo se non riconoscere una realtà che
non rende felice quasi nessuno, nei confronti della quale stanno reagendo
gruppi umani in tutti i continenti, in tutti i paesi. La società
industriale avvelena l'aria, conduce alla schiavitù milioni di persone,
annienta i popoli originari e le loro forme di vita. Al giorno d'oggi non
si tratta nemmeno di nascondere la sua vera natura, i suoi agenti operano
alla luce del giorno. Copenaghen è stato un disastro completamente
prevedibile e Obama è un altro Bush, sembra che sia definitivamente
terminata l'illusione e magari adesso possiamo affrontare i nostri veri
problemi.
D.: Che opinione hai di Internet? E' un sintomo di addomesticamento o ha
un peso specifico come strumento trasformatore?
J.Z.: Entrambe le cose, penso. Non so qui, ma negli USA passiamo la nostra
vita davanti allo schermo. Siamo dediti a questo tipo d'interazione,
suppongo per il livello di abbandono esistente. Oggi un amico è qualcuno
che probabilmente non hai mai visto di persona, andiamo da tutti i lati
con il cellulare incollato all'orecchio. Sembra che nessuno voglia esser
presente in questo mondo sradicato, siamo sempre in un'altra parte. Ma non
c'è un'altra parte. Questo mondo si definisce per la tecnologia, la
tecno-cultura si espande a gran velocità, nonostante sia economicamente
escludente. Ed alla base di questo processo c'è il post-modernismo, che si
caratterizza per l'adozione incondizionata della tecnologia, così come per
la perdita delle idee di causalità, valore o significato. C'è solo spazio
per il momentaneo ed il triviale.
D.: Credi che questo sistema sia implementato dall'alto o si tratta di una
deriva alla quale abbiamo lavorato noi stessi?
J.Z.: Credo che questa situazione provenga dal nostro sistema di consumo.
Sarà impossibile affrontare efficacemente il problema senza applicare una
critica radicale a questo fenomeno, perché la tecnologia in sé è neutrale.
Se non politicizziamo la questione del suo utilizzo e le radici della sua
esistenza, sarà impossibile frenare questa situazione. Gli effetti
negativi di questo modello sono visibili sulla salute fisica e mentale
della nostra società. Per esempio, il fenomeno delle sparatorie nelle
scuole e nelle istituzioni. Queste manifestazioni patologiche si producono
nei paesi più sviluppati - USA, Finlandia o Germania-, come sintomi di una
società disfunzionale, del vuoto di un mondo uniformato che sta terminando
con l'idea di comunità e tanti altri concetti importanti nella nostra
vita. Fino a che continueremo a puntare in una società tecnologica di
massa, come fa la sinistra, non saremo capaci di liberarci da tutta questa
zavorra, tornando ad un'esperienza diretta del mondo.
D.: Come affrontare il processo pratico per cambiare il modello?
J.Z.: Ponendo il problema sul tavolo, dandogli il rilievo che merita e
insistendo sul ruolo centrale che deve giocare nella discussione pubblica.
La nostra posizione implica la distruzione di tutto l'apparato tecnologico
prima che ci distrugga e che elimini qualsiasi valore e contesto alla
vita. Si tratta di ricollegarci con la terra, per questo la nostra
fondamentale ispirazione ci è data dai modi di vita dei popoli indigeni.
D.: Cosa faresti se il sistema cadesse domani ed avessi la possibilità di
intervenire e di implementare cambiamenti concreti?
J.Z.: Il problema è che la gran parte della popolazione delle grandi città
morirebbe in tre giorni. Non dureremmo molto senza energia, con gli
alimenti in putrefazione, senza la capacità di sopravvivere e con
l'istinto atrofizzato. Non sapremmo cosa mangiare, quali sono lo piante,
come fare un fuoco, cercare acqua, rifugio... Ci dobbiamo preparare per
questo processo, perché la città è artificiale ed insostenibile e non
rappresenta il mondo che dovremmo affrontare quando il sistema si
fermerà... Inoltre, possedere quegli strumenti di sopravvivenza ci
fornisce un potere politico, dandoci la sensazione di autonomia. Se vuoi
venir fuori dal sistema, ma non hai queste conoscenze, alla fine
sicuramente non ne sei capace.

Gio, 11/02/2010 – 14:18
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