Un "Colpo di Coda" a "La Zampata della Vita"

riceviamo e diffondiamo questa analisi-risposta all'articolo pubblicato su Machete n°4

"Anche se l'articolo La zampata della vita risulta approssimativo e superficiale, assumendo toni provocatori più che critici attraverso l'uso di luoghi comuni,  mi accingo comunque, in maniera non molto difficoltosa ma piuttosto prolissa data la natura boriosa dello stesso, a rispondere.

ALLA ZAMPATA DELLA VITA RISPONDO CON UN COLPO DI CODA

Nell'articolo menzionato, apparso sul numero 4 di Machete, si contrappone un attivismo radicale in difesa delle creature più deboli all'antispecismo definito come una teoria che incita alla loro sacralizzazione, sostenendo che il primo apre le gabbie e il secondo conforma i cervelli spacciando per etica ciò che è morale . Peccato però
che la maggior parte delle rivendicazioni di liberazione animale al loro interno utilizzino spesso la parola antispecimo.  Chi scrive sembra non considerare che aprire le gabbie significa riconosce bisogni e necessità
anche agli altri animali, primo fra tutti quello alla libertà, una pratica che supporta una teoria, quella antispecista.

Certamente in queste righe parlerò come antispecista e non come portavoce di un movimento, parlerò da individuo quale sono e non come membro di una massa.

L'antispecismo come predisposizione mentale non sostiene l'inviolabilità di altre esistenze ma il semplice superamento delle barriere antropocentriche che pongono l'essere umano al centro di un universo in cui gli altri esseri viventi sono solo risorse da sfruttare fino all'esaurimento, In questo quadro generale tutti gli Stati e le varie istituzioni sono contraddistinti da una filosofia specista, L'antispesicmo diviene allora una visione del mondo  in cui l'umano è una forma di vita tra le altre forme di vita, un animale tra gli altri animali che non dovrebbero essere considerati come macchine, proprietà o risorse la cui ragione di esistenza è il consumo umano.
Qui non c'è il rispetto di OGNI Vita, come tende a sottolineare l'articolo, ma di quelle vite deboli sottoposte al dominio umano, di quegli schiavi silenziosi   nascosti dietro muri, non solo di cemento, ma di ignoranza. Un'ignoranza politica che non assolutizza l'unica parola assoluta, libertà, ma che la rinchiude dentro gabbie mentali di distinzione di specie “dall'oppressione di alcune specie animali si passa al rapporto che si deve avere con ogni specie “ come se solo alcune classi di animali fossero sottoposte al dominio umano. Relativizzare ancora una volta.
Continuando la lettura del testo autori quali Singer e Regan vengono descritti come profeti di una nuova religione mentre sono solo filosofi paragonabili a Bakunin o Kropotkin e cosa assurda si vuole far passare il loro pensiero come il pensiero unico del “movimento antispecista”...sarebbe come dire che tutti gli anarchici sono stirneriani. Scrivere “gli antispecisti alla Singer o alla Regan” è non considerare che ci sono antispecist* che non si riconoscono in questi due autori, insomma è come dire “gli anarchici alla Malatesta o alla Proudhon o vattelapesca” senza riconoscere che ci siano anarchici che non hanno filosofi di riferimento.

Analisi interessante, che non viene nemmeno sfiorata dall’articolo apparso su questo aperiodico anarchico è  la differenza abissale tra le lotte per l'emancipazione umana e la lotta antispecista: nel primo è lo sfruttato a
lottare perché il suo sfruttamento termini, nel secondo è una parte degli oppressori che combatte l’oppressione di cui, facendo parte della specie dominante, sono portatori.
E’ assurdo pensare che gli altri animali sottoposti al dominio umano possano, in qualche modo, sovvertire il sistema di cui sono vittime.

Sostenere che  l'analogia tra razzismo, sessismo, omofobia e specismo, ovvero la supposta superiorità di chi appartiene ad una determinata categoria eletta socialmente, sia un ossessione significa sminuire il loro reale significato e non considerare la gerarchia ahimè esistente tra razze, sessi, generi o specie presente in questo tipo di società. Ciò che si rifiuta è quindi la discriminazione utilizzata per disporre della vita e della libertà di una essere senziente e non la diversità biologica che intercorre ed è per questo che quando  parlo di animali lo faccio da essere umano, perché è ciò che sono, e il mio “interesse”semplicemente si riferisce a esigenze vitali quali la sopravvivenza e la libertà allo stato selvatico e non come si è voluto intendere in senso capitalistico.
Proseguendo si legge “È straziante notare nella stragrande maggioranza delle analisi antispeciste la totale assenza di ogni riferimento culturale” mentre la  lotta contro l'antropocentrismo è pregna di una profonda analisi anti-civilizzazione e l'anarchismo verde trasuda una tensione palpabile verso lo specismo ovvero verso il dominio umano nei confronti del vivente.
Ed è proprio qui l'errore di chi ha scritto, il non ritenere l'antispecismo una lotta contro il dominio non solo intraspecie (umano sull'umano) ma interspecie (di un animale sugli altri animali); il nocciolo non è riconoscere lo sfruttamento umano e/o quello animale, la questione è riconoscere lo sfruttamento. Ineludibile il fatto che il
secondo include il primo e non viceversa per il semplice fatto che l'essere umano è un animale e come tale dovrebbe comportarsi, rinunciando ad ogni cosa che abbia compromesso la sua natura selvaggia trasformandolo in un animale addomesticato in nome della civilizzazione.
Di certo non ci si aspetta qualcosa da coloro che ciechi dinnanzi alla sofferenza umana continuano nella riproduzione quotidiana della vita piuttosto si spera che quelli che hanno sentito empaticamente questo sopruso scavino più in profondità per sentire anche le urla più sommesse, le urla dei più deboli tra i deboli: gli animali-non-umani.
È all'interno del contesto sociale che il veganesimo prende forma non come dogma ma come consapevole atto politico di astinenza da una pratica di sfruttamento, come resistenza ad una logica di dominio, come azione quotidiana di rifiuto. Non ci si può arroccare dentro la torre della scelta personale, così facendo si giustifica lo sfruttamento tout court e si annulla il peso politico che ogni azione comporta.
Si sostiene che esista una riga di confine che ognuno traccia ma il nodo fondamentale è che finchè esisterà questo sistema nessuna riga di delimitazione sarà accettabile: il mocassino in finta pelle non deve tacere la coscienza critica ma anzi ampliarla. Non si sta dichiarando che il veganesimo sia la scelta migliore ma solo la meno peggiore in questo scenario  e nemmeno la si vuole proporre come obbligo morale (nessuna lotta antiautoritaria si propone come tale) ma si ricerca il riconoscimento di punti comuni, primo fra tutti la libertà; “[...]stabilire COSA si possa mangiare o COSA non si possa mangiare. È inaccettabile!” io invece trovo inaccettabile che dopo righe e righe di retorica sulla terminologia che si rifà a valori del capitale l* stess* scrittore/ice mercifichi miserabilmente gli altri animali: con quel “cosa” ha trasformato dei soggetti in oggetti.
Consumare la sofferenza è un affare, in tutti i sensi, del nostro modello sociale.
Ciò su cui si basa il veganesimo, come atto politico, è una verità oggettiva (come lo sono tutti i tipi di sfruttamento fisico) che si basa sull'esperienza, una realtà: chiunque può andare in un macello o in un
allevamento e osservare da sé lo sfruttamento e la tortura. Se accettiamo che non esistono verità neppure l'autoritarismo, la gerarchia, il capitalismo, il militarismo lo sono eppure le varie individualità
anarchiche agiscono affinchè queste cessino e a nessuno viene in mente di dire che queste lotte, derivando da fatti oggettivi, siano costrizioni morali.
Nessun atto politico è per natura individuale giacchè il personale è politico. Ogni scelta, per quanto singolare, comporta delle conseguenze ed è di queste che ci si fa carico, è questa la responsabilità dinnanzi a cui
si è chiamati a rispondere. Non si può far affidamento alla coscienza personale perchè ci sono persone che non hanno coscienza e allora come fare? Non credo che nanobiologi o lobbysti ne possiedano una; questo non significa conformare le menti ad un delirio collettivo ma semplicemente considerare il peso che ogni azione comporta,
Solo riconoscendo loro lo status di soggetti, e non di oggetti, non ci si comporterà da sfruttatore  e nemmeno ci si renderà complici di siffatte torture. E il mangiar brandelli di una animale in questo preciso contesto storico, politico e culturale non è compiacere le logiche di dominio che trovano negli animali non umani schiavi incapaci di ribellarsi, non per condizione mentale ma fisica? Non è forse su di essi che lo sfruttato diventa a sua volta sfruttatore come per una sorta di rivalsa?
Poi esistono contesti nei quali nutrirsi di un altro animale non comporta una sua sistematica uccisione e reificazione come nel caso delle tribù selvagge le quali rifiutando la civilizzazione non hanno conosciuto il
modello industriale di produzione. Queste realtà non si nutrono di carne quotidianamente e cosa più importante non si conformano ad un modello di allevamento/deportazione ma bensì a quello di caccia/raccolta, come giustamente descritto nel brano e personalmente mi trova d'accordo nel sostenere “Allorché questa industria infame dovesse scomparire, insieme al mondo di cui è espressione, c'è da credere che si ritornerebbe alla caccia” ma se questa industria è infame perchè non rinunciare al nostro ruolo di consumatori?
Il ritornello “Io voglio mangiare quello che mi piace” sarebbe ammissibile in un mondo privo da ogni forma di dominio, un mondo in cui delle gabbie sono rimaste solo le macerie ma dovremmo essere realisti e constatare che
è impossibile in questa società rimanere neutrali, che “ogni singolo individuo può cambiare le cose, il modo in cui le cambiamo dipende da noi, perchè la scelta è nostra.” E' il nostro agire quotidiano che permette alla teoria di svestire i panni della retorica per divenire azione, quell'incantevole parola in bocca a tanti anarchici. Il veganesimo non rappresenta altro se non un'azione di libertà in questo mondo di prigioni.
Lo sbaglio che si commette è di considerare la mortificazione dei sensi, la RINUNCIA alla carne, al latte alle uova, al miele etc, che un vegano compie trascurando in maniera evidente  che ciò che si rifiuta è un prodotto derivante dallo sfruttamento, quindi ciò a cui si rinuncia è lo sfruttamento!
Segni lampanti di qualunquismo presenti nell'articolo sono rintracciabili nel “Tanto varrebbe far notare che il fiore strappato appasisce in fretta, ciò denota una sensibilità, la fine di una vita, quindi...” e chi ha mai
sostenuto il contrario, ovvero che le piante non siano anch'esse vita? Non starò a farmi forte del fatto che gli animali sono esseri senzienti che percepiscono il dolore “grazie” alla presenza di un sistema nervoso più
complesso, queste speculazioni scientifiche le lascio a chi non ha argomentazioni migliori. Io dal canto mio ritengo che l'agricoltura e l'allevamento siano i due pilastri fondamentali sui quali si erige la civilizzazione, esempi lampanti di come l'essere umano ha manipolato ciò che lo circonda per interessi (intesi come rapporti di potere) personali, mettendo in pratica appunto un principio antropocentrico: che il mondo gli appartiene.
Fatta questa premessa se il vegano “sostiene” l'agricoltura quale strumento di sopraffazione per controllare cicli al di fuori della sua portata ecco che allora l'onnivoro si avvale di entrambe; è inoltre indubbio che un qualsiasi essere vivente debba nutrirsi per sopravvivere, in questo caso il veganesimo diventa solo la scelta meno peggiore.  Usare come argomentazione la mancanza totale di coerenza, insita in ogni scelta effettuata all'interno di un sistema in cui siamo tutti intercalati quale risultato dei compromessi che ognun* è costretto a fare, per difendere la
propria incoerenza mi sembra un atteggiamento mediocre degno del più misero pensiero; a dimostrarlo in maniera ancora più lampante è la testuale frase “Il risultato è che mentre gli onnivori stanno attenti a
venire incontro ai principi dei vegani, la maggior parte di loro non fa niente per venire incontro ai gusti degli onnivori.” Non capisco se il significato di questa frase sia da intendere che  i vegani dovrebbero
cucinare ciò che “sollazza” i palato dei mangiatori di animali oppressi (e se così fosse non ci sarebbero parole per rispondere a questa ottusità) o se invece si riferisce alla soia e ai suoi derivati (ed in questo caso
direi che far conoscere a chi crede che i vegani si nutrano solo di insalate e paste al pomodoro, piatti più complessi non è poi così un male, certamente sostituire cibo spazzatura non vegano con cibo spazzatura
vegano non ne migliora la qualità). In questo modo si è passati però dall'antispecismo, come fiolosofia politica, al veganesimo, come sterile regime alimentare, che è sì una sua espressione pratica ma letta nella sua
totalità e non smembrata dal resto delle proprie tensioni politiche che porterebbe inevitabilmente a compiacersi per il solo fatto di essere vegani...ma è proprio quest'ultima concezione che l'antispecismo cerca di
spronare a livello di coscienza politica, sostenendo che la teoria debba diventare prassi e che il solo fatto di essere vegani non possa bastare per mettere fine allo sfruttamento e al dominio. E' proprio l'inclusione
del vivente come soggetto di mercificazione da parte dello Stato e del capitale che rende questa filosofia una lotta a 360 gradi.

Mi chiedo poi che cosa faccia un animale per conquistarsi il nostro astio, e poi l'antipatia e il suo opposto, la simpatia, non sono concetti morali di riferimento come buono o cattivo? io la gallina la trovo brutta ma non
per questo mi pongo a giudice della sua condanna.
Si legge “Ammesso e non concesso che esistano delle leggi della natura universali perché dovrei supinamente conformarmi ad esse? E se volessi sfidarle?” ma non è quello che da millenni provano a fare sedicenti scienziati, biologi, biotecnologi, etc? Sfidare la natura portandoci al collasso, alla distruzione del pianeta che abitiamo insieme ad altri?

Un animale umano"

Sab, 12/12/2009 – 07:44
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