Sulla mistificazione mediatica del 2 dicembre a Livorno

Da SenzaSoste:

Cominciamo da un rilievo autobiografico. Se dovessi ricordare la prima volta che sono stato messo in difficoltà da una domanda espressa dalle forze dell’ordine porterei la memoria ad un episodio di molti anni fa. Durante un’occupazione, di quelle raccontate dal bel video di Luca Falorni che racconta di 20 anni di spazi occupati a Livorno, si presentarono polizia e vigili urbani. I quali, per conferire con gli occupanti, chiesero di parlare con il capo. Assieme ad altri compagni ci trovammo spiazzati. Per un motivo molto semplice: non avendo capi, e rifiutando l’idea di capo, non potevamo indicarne uno per parlamentare con le forze dell’ordine.

Viene anche alla memoria la lettura di uno stralcio del processo 7 aprile, quello contro l’autonomia. Il compagno Lucio Castellano, mente e persona brillante, tragicamente scomparso in un banale incidente di moto, si trovò, di fronte ad un tribunale della repubblica, a dover spiegare come funzionassero capi, gerarchie ed organigrammi della sua organizzazione. Castellano in poche parole argomentò che questa spiegazione era impossibile. Perchè il capo d’accusa, su organigrammi e gerarchie, e persino sull’idea dell’esistenza di una organizzazione, era costruito secondo la visione del mondo dei pm e non secondo elementari criteri di ricerca antropologica. “Ci rappresentate ad immagine e somiglianza del vostro mondo ma qualsiasi cosa siamo, noi non siamo così”, disse in sintesi Castellano.

La lettura degli atti del processo 7 aprile, istruttiva per storia ed evoluzione di tutto un dispositivo criminologico che va dalla sinistra istituzionale dell’epoca al centrosinistra di oggi, viene anch’essa improvvisamente alla memoria aprendo la pagina del Tirreno dedicata ai procedimenti che riguardano la vicenda del 2 dicembre. Per il Tirreno, Chernobyl culturale livornese persino rassicurante nella sua permanenza di produzione di scorie tossiche in forma di notizia, è inquisito il leader dell’ex caserma occupata. Ora chiunque conosca i collettivi della ex caserma, non per averla vista su Google Maps ma perchè ne ha varcato la soglia e non certo per una frettolosa conferenza stampa, sa che non esistono capi, gerarchie e che esiste una cultura del rifiuto della leadership a favore di una della cooperazione. Che ha pregi e difetti, punti di forza e di debolezza, come una qualsiasi cultura della cooperazione ma non è un’organizzazione basata sul primato di capi e leader. Evidentemente per il Tirreno una volta rintracciata la caserma su Google bisogna aggiungere dei tag con la voce “antagonisti”, “leader (magari con foto tessera digitalizzata truce o militante)” poi “violenti” e “stadio, curva, schiamazzi” fino all’infinito e nella logica del mondo da “io assediato” che il giornalista della stampa locale interiorizza e riproduce.

Il mestiere del giornalista, ed anche il suo rapporto con il potere, è infatti molto cambiato.  La mancata conoscenza del territorio, che oggi caratterizza ovunque questa figura professionale, viene surrogata dalla navigazione su Google e Facebook. Un giornalista da desk che, oltre ai danni culturali che perpetua, riproduce questi schemi mentali nella funzione ancillare ad una repressione che supporta in automatico. E che dire del livello di garantismo, quindi di qualità dell’informazione che riporta prima  i fatti e poi i giudizi, de La Nazione? La redazione livornese del quotidiano fiorentino titola infatti che sono stati individuati gli autori dell’assalto alla prefettura. Ci siamo capiti, per Verdini e la caserma dei marescialli c’è la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Qui siamo al fumetto “Dredd, io sono la legge”: appena iniziata la fase istruttoria ci sono già i colpevoli e ben individuati. Una concezione dell’informazione giuridica che affonda le sue radici in un periodo precedente alla presa della Bastiglia: un livello di informazione barocco, reticente quanto garantista per i rami alti della società e per il resto c’è già la certezza della colpevolezza al primo accenno di procedura. E sul Tirreno finiscono infatti le liste dei nomi. Tanto per chiudere il cerchio dell’esecrazione e della certezza pubblica della condanna.

Ma in questo panorama, desolante quanto rassicurante nel suo ripetersi sempre uguale, della stampa locale come si colloca il pm Masini? E qui non si intende entrare nel merito dell’inchiesta, ci penseranno gli avvocati della ex caserma, quanto nella visione del mondo del Pm. Quella che promuove le inchieste, mediando con la procedura giuridica, cercando di produrre fatti giuridici. Già perchè il processo di trasformazione dei fatti in fatti di rilevanza giuridica è complesso e una visione del mondo schematica e riduttiva può sinistrare qualsiasi procedura alla radice. Oltretutto in Italia non esiste l’istituto dell’elezione diretta dei magistrati e, essendo il magistrato tale per concorso, la visione del mondo di un pubblico ministero e la sua conoscenza del territorio,  non sono esplicitati davanti al popolo. Ma solo passati attraverso il mondo chiuso, conflittuale, velenoso e corporativo-medioevale della magistratura (dalla fase concorsuale a quella della carriera) e amplificati dal marketing giuridico della stampa (salvo quando la magistratura mette in discussione il doppio livello attuale del diritto: quello per i rami alti della società e quello per i rami bassi).

In questo senso il pm Masini mostra una visione del mondo, elemento propulsore della capacità di fare inchieste, che è imbarazzante  quanto ristretto. Ci riferiamo agli atti pubblici. Masini infatti ha trascinato in giudizio, perdendo in dibattimento, una persona per il solo fatto di essere tatuata. Come se non bastasse, pochi mesi dopo, è spuntata l’ipotesi di reato per “apologia di reato in concorso”  verso un gruppo di persone accusate di aver affisso adesivi ironici contro il sistema vigente.

Se si capisce la razionalità culturale che sottostà alle inchieste del Masini, che ripetiamo trasformano una visione del mondo in fatti giuridici attraverso procedure e acquisizione di materiale probatorio, c’è sicuramente da stare tranquilli sul prosieguo dell’inchiesta riguardante i fatti in Prefettura. Ma quello su cui non c’è affatto da stare tranquilli, oltre al fatto che il procedimento penale diventa spesso una pena in sè, è questo continuo feed-back tra magistratura e stampa locale. I quali si alimentano, e si esaltano, in una visione del mondo schematica, timorosa dei poteri politici ed imprenditoriali locali che finisce per dispiegarsi come dispositivo punitivo principalmente nei confronti dei rami bassi o antagonisti della società livornese. In un modo di conoscere Livorno filtrato davvero attraverso le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso (quelle che si vuol vedere, nessuno ha tirato fuori quelle di sabato 1 dicembre), e Google maps. Perchè le ipotesi di reato esplicitate attraverso l’inchiesta sui fatti del 2 dicembre sembrano semplicemente riempire di significato giuridico i tag applicati dal Tirreno sulla caserma. Allora la procura alla voce “caserma” aggiungerà i tag “capi”, “gregari”, “responsabilità individuali”, “organizzazione e rivolta”, con foto e filmati, secondo una logica che, nella democratica Livorno sottostà in modo strisciante a quella dell’antico TULPS fascista prevedendo infatti anche l’ipotesi di reato di “adunata sediziosa” (tag finale e celebrativo).

E’ rivelativa una frase di questa cultura della conoscenza del locale via Google e registrazioni di telecamere, che è un modo superficiale di conoscere un territorio (come capire la dinamica emotiva di uno schiaffo o di un bacio da una foto) ma anche lo spessore antropologico, quello che si trasforma in fatti, che muove stampa e magistratura. E’ apparso un trafiletto in cui la stampa, con l’enfasi del gregario, riportava come in questura ci si sia fatti venire gli occhi rossi a visualizzare tutti i filmati disponibili. Si capisce così come magistratura e stampa siano concettualmente ed operativamente prigioniere, a diverso titolo, di una cultura visuale e televisiva di costruzione della prova. La dinamica di gruppo e anche diverse responsabilità individuali non possono però essere capite attraverso i filmati come prova regina. E nemmeno con le intercettazioni ambientali. Ci vuole una conoscenza complessa del territorio che nè il Masini nè la stampa locale mostrano nei fatti di avere. Infatti si partorisce, in concorso perchè la stampa è tutt’altro che critica, una sorta di ircocervo dove una manifestazione spontanea è metà delirio (“i minuti di follia” secondo il Tirreno) metà spedizione punitiva organizzata (stando alle ricostruzioni della procura che si leggono attraverso i giornali).  E soprattutto non si capisce perchè sia avvenuto un fatto del genere. Se non con la teoria del raptus (“i minuti di follia” del Tirreno) che non funziona nemmeno per spiegare i delitti passionali.

C’è infine un livello che stampa e magistratura tengono lontano, nei loro continui feed-back, da questa vicenda. Quello politico. Nella doppia accezione: chiamare in causa i poteri locali, visto che tutto è cominciato a partire da una pacifica contestazione a Bersani,  e far capire le dinamiche politiche del territorio. Su queste ultime, la forte presenza di Neet (giovani che non lavorano e non studiano) alla corteo del 2 dovrebbe suggerire qualcosa sulle mutazioni ed i problemi reali di Livorno. Sul coinvolgimento del Pd in questa vicenda è chiara una cosa: lo choc della contestazione di giugno, con lo striscione ormai storico “via il Pd da Livorno”, è qualcosa che non deve essere ricordato. Quindi il PD meno si coinvolge e meglio è: guai se si capisce che il sovrano è gravemente malato. Figuriamoci il dottor Cardona, protagonista negativo della giornata per primo dicembre: siamo ad una concezione intangibile del potere.

Davvero sarebbe interessante sapere quali sono le frequentazioni culturali del Pm Masini. Se si vede, a parte la sfera professionale, con i poteri forti della città oppure se conduce una vita comune o isolata. Ma non per pruriti da Fatto Quotidiano semplicemente per capire se, e come, la visione del mondo che traspare dai suoi atti è personale o condivisa. Siccome in un magistrato la visione del mondo finisce per diventare procedura giuridica la stampa locale, se avesse una qualche consistenza, dovrebbe informare su questo invece di amplificare gli applausi che si fanno reciprocamente i protagonisti dell’inchiesta.

Chiunque abbia frequentato la sociologia giuridica, specie nel suo rapporto con i media, sa una cosa. Che visione del mondo dei media e dei magistrati finiscono per somigliarsi ed alimentarsi a vicenda. Anche nei momenti conflittuali. La Livorno che esce da questa sinergia, tra stampa ed inchieste, sembra infatti un luogo surreale. Dove avvengono solo piccoli fatti violenti, privati o pubblici, e storie di provincia (come la saga Doveri) di illecito arricchimento. Niente si sa del rapporto tra leva immobiliare e finanza, tra politica e affari e su una serie di operazioni, come la Livorno Basket o il bilancio di Spil, dove regnano la discrezione ed il linguaggio criptico. Dove c’è big business locale, guarda te il caso, c’è il silenzio. La stampa e la magistratura livornese sembrano infatti in preda ad una visione del mondo, e del potere, precedente alla presa della Bastiglia.

E’ evidente, che con la crisi verticale e materiale di Livorno, questa bolla speculativa di produzione di mondo, alimentata da media e magistratura, è destinata a scoppiare. Ma come tutte le bolle, prima che esploda bisogna alimentarla fino all’inverosimile. Come sta accadendo per l’inchiesta 2 dicembre. Alimentando una visione del mondo, ed un relativo materiale probatorio, che produce una Livorno vista da Google Maps o dalle telecamere di sorveglianza. Finchè bolla non esploda.
Quanto alle forze politiche istituzionali, un tempo prontissime ad uscire con comunicati assieme alla notizia di fatti del genere, se ne intuisce la logica. Il Pd preferisce stare lontano persino dalla stessa notizia che è stato contestato. Ma, e vale per tutti, un’inchiesta della magistratura del genere non tocca l’attuale core business dell’agonizzante politica istituzionale. Non si parla di mattone, di nomine, di ristrutturazione del porto. Non si aggiungono nè si spostano voti parlando di cose del genere. E se è così al diavolo il governo del sociale sul territorio, l’importante è che non si entri nel perimetro discreto della politica istituzione dove, tra veti e lotte intestine, si cerca faticosamente di fare business.

Ecco cosa è rimasto, tra feed-back compulsivi di stampa e magistratura e politica che si defila, di una città un tempo fiorente. E le bombe sociali ad orologeria piazzate in città saranno affare di chi, nel caso, se le vedrà scoppiare in faccia. Secondo le consolidate regole del nichilismo del potere labronico. Finchè dura.

Per Senza Soste, Ian St. John

12 febbraio 2013

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