“Il nemico in casa nostra”: Mafia Capitale

Per quanto decaduto dagli onori della cronaca, ci sembra necessario fare qualche riflessione a freddo sullo scandalo di #mafiacapitale. Un argomento ancora scottante malgrado il dibattito pubblico, sulla scorta della tragedia di Parigi (e veicolato dai media mainstream), si è incentrato su altro: la presunta minaccia islamica e lo scontro fra civiltà, impantanando le voci più critiche nel dibattito su essere o non essere Charlie. Così ha potuto fuggire dai riflettori il ben più quotidiano argomento dello scontro all’interno della nostra società, e i metodi in cui una sua parte (la cupola) ha potuto indisturbata fare affari sulla gran parte dei cittadini. È un vero peccato, perché a ben guardare anche nei palazzi romani avremmo potuto trovare un consorzio che riuniva terroristi (neri) e predicatori (democratici) le cui attività – stando agli ultimi sviluppi delle indagini – avevano ramificazioni in Africa e in Est Europa.

Nel periodo di massima audience di Mafia Capitale, quello che ha fatto guadagnare alla notizia paginoni sui giornali, approfondimenti e ricami di ogni genere è il fascino da romanzo noir che aleggiava sulla vicenda: dalle suggestioni tolkieniane del nome dell’operazione di polizia allo spettro della Banda della Magliana, resa ormai celebre da film e serie tv. Un intreccio infinito di storie di duri da borgata, servizi segreti, politici collusi, mafia di ogni provenienza, finanza e servizi vaticani, fino all’intrigante commistione tra ex terroristi neri, ex brigatisti e coop “rosse”. In conclusione, come ciliegina sulla torta, nella cooperativa 29 Giugno lavora persino Pelosi, l’assassino di Pasolini.

La presenza di cooperative come ingranaggi determinanti in queste dinamiche criminose è passata in secondo piano, forse per il timore che troppa polvere uscisse da sotto il tappeto, forse per l’assuefazione a casi del genere. Gli scandali che hanno al loro centro le cooperative sono infatti venuti prepotentemente alla ribalta in questi ultimi anni (Mose, Expo, facchini, Coop, Mps, ecc.) mostrando come anche il mondo dell’economia sinistrata soggiace alle stesse logiche di rapacità e sfruttamento di tutto il sistema capitalistico. Questo non meraviglia in alcun modo se si pensa che le “cooperative”, dell’edilizia, della logistica, della grande distribuzione, dell’agricoltura e oltre, muovono un giro di affari a dodici zeri, arrivando a produrre ricchezza per il 12% del PIL italiano. Non meraviglia neanche il fatto che un giro di affari come questo abbia il potere di influenzare la politica, facendo varare leggi ad hoc ed assegnare pubblici appalti a chi di desiderio, servendo così da rete clientelare per il partito di riferimento.

In un’intervista a Mario Frau, autore del libro “La coop non sei tu. La mutazione genetica delle Coop: dal solidarismo alle scalate bancarie”, si parla di spirito originario delle cooperative tradito, quello spirito per cui i lavoratori si uniscono in social catena e, strappando uno spazio di lavoro al malvagio sistema di sfruttamento dell’imprenditoria privata, mettono su un’associazione in cui gli utili sono divisi equamente, nessun plusvalore viene rubato dal padrone e le scelte economiche sono subordinate alle scelte ideali.

Si parla di come, per una sorta di incredibile mutazione genetica, questo nobile scopo in determinate coop sia stato tradito rendendole “…degenerate e corrotte, governate da caste autoreferenziali che non rispondono a nessuno del loro operato e meno che mai ai loro soci.” Si cita la frase di Bruno Trentin: “le Coop hanno perso l’anima inseguendo ad ogni costo il profitto e l’arricchimento a scapito dei propri valori originari”.

L’unica risposta possibile è quella di un celebre comico dei nostri giorni: “E’ il capitalismo, bellezza!”. Come non ha potuto funzionare il “socialismo” in un solo paese, così non può funzionare la solidarietà in una sola impresa: le cooperative che producono beni o servizi si trovano fatalmente in concorrenza con aziende private in un regime di libero mercato, e le cooperative i cui soci non desiderano auto-sfruttarsi oltre una certa soglia devono cedere il passo alle aziende più abili nello sfruttare maggiormente i lavoratori. In tal modo le coop che sopravviono e prosperano sono quelle che, abbandonato ogni ideale e principio etico, fanno del loro status aziendale speciale una copertura e un mezzo per aggirare controlli e regolamentazioni sul lavoro, divenendo sfruttatori ancora peggiori delle ordinarie aziende capitaliste, si pensi che la Coop è il primo gruppo sul territorio italiano nell’ambito della grande distribuzione organizzata con una quota di mercato del 18,5% nel 2011.

Non stupisce perciò che in cooperative di tal fatta sfruttamento, corruzione e collusioni mafiose siano all’ordine del giorno. Non stupisce perché piegandosi alle logiche del sistema capitalistico le cooperative subiscono le sue caratteristiche strutturali, anche di quelle additate dai moralisti e dagli ipocriti come difetti da sanare attraverso una corretta applicazione della giustizia penale.

La corruzione, infatti, è endemica a livello mondiale: dall’India alla Cina, dall’Iran alla Colombia gli scandali per corruzione dilagano, la Banca Mondiale calcola che in media il 10% dei costi e fino al 40% dei proventi di ogni opera pubblica se ne vadano in mazzette, calcola anche che i fondi dedicati alla corruzione siano 2.000 miliardi di euro, il 2,3% del PIL mondiale (dati dell’OCSE)

Anche la criminalità organizzata si trova ormai ovunque sul globo. Risulta infatti utile, necessaria: produce ricchezza e lavoro, concede nuove possibilità di ascesa sociale o di impiego per gli emarginati, ma soprattutto offre una serie di servizi che uno stato che ama definirsi democratico e sbandiera una serie di principi etici (solitamente lettera morta tra i primi articoli delle costituzioni) non può gestire alla luce del sole. Emblematico il caso, narrato da Terzani nel suo “In Asia”, della Yakuza giapponese che, per quanto formalmente illegale, gestisce prostituzione, gioco d’azzardo e l’industria del crimine tutta alla luce del sole: gli Yakuza portano all’occhiello il distintivo della banda di appartenenza, hanno il biglietto da visita che li qualifica per grado ed affiliazione, le sedi delle bande esibiscono una targa di ottone con nome e simbolo accanto al portone e sull’elenco telefonico se ne può trovare il numero come associazioni di mutuo soccorso; fare il mafioso in Giappone non è un mestiere da non rivelare e di cui vergognarsi, ma una posizione sociale rispettata e ostentata.

10959327_1395360674103341_3679462557510706126_nIn Italia e nel resto del mondo la situazione, per quanto meno formalizzata, non è molto diversa: i mafiosi sono una parte importante e produttiva della società come narra Sorrentino sempre ne “La grande bellezza” per mezzo del vicino di casa del protagonista al momento in cui viene arrestato dall’antimafia: “Sono un uomo laborioso, uno che, mentre lei trascorre la vita a divertirsi, a fare l’artista, fa andare avanti il paese”. Del resto la stessa Unione Europea ha immesso dal 2014 nel calcolo del PIL le attività criminali di prostituzione, commercio di stupefacenti, contrabbando di alcool e sigarette “in ottemperanza al principio secondo il quale le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tutte le attività che producono reddito, indipendentemente dal loro status giuridico” (Istat).

Nella società del libero mercato in cui l’egoismo del singolo è messo sopra l’altare, eletto a legge universale che regola il buon funzionamento della società stessa, è il desiderio di profitto personale ad autoregolare il mercato. Il crimine e la corruzione come scorciatoie per raggiungere il profitto, come punte di diamante dell’egoismo, sono così la normalità.

Perché una cooperativa funzioni è necessario che il mondo intero sia una cooperativa, è necessario che l’interesse del genere umano divenga il principio regolatore della società. Una società che si occupi di soddisfare i bisogni di ognuno invece di ammaliare il singolo con la promessa del benessere guadagnato su lacrime e sangue di altri. Una società dove la stessa idea di ottenere qualcosa a discapito di altri sia bandita e con essa il furto di beni, tempo e lavoro altrui.

Una società del genere è probabilmente utopica e, per realizzarla, occorre non solamente uno stravolgimento nel modo di produzione, ma anche un profondo cambiamento dell’animo umano. Guardando però gli ultimi anni vediamo il trionfo del capitalismo, in cui alla crescita delle economie emergenti non ha fatto fronte il miglioramento delle condizioni di vita della gran parte dei loro abitanti, l’eccessiva e sregolata produzione di merci ha portato ad una profonda crisi economica che sta portando al peggioramento delle condizioni di vita anche degli abitanti dei paesi di vecchia industrializzazione, l’ecosistema del pianeta sta venendo distrutto dalla sovrappopolazione, dall’utilizzo inefficiente delle risorse e dall’enorme produzione di rifiuti della società dei consumi, guerre e guerricciole insanguinano gran parte del pianeta e si inizia a “paventare” una nuova guerra mondiale che eliminerebbe un po’ di concorrenza e distruggerebbe abbastanza da dare un nuovo slancio produttivo alla stagnante economia del globo.

Qualunque scenario futuro possa venir fuori da queste premesse appare ugualmente pauroso e disperante per chi non è tra quei ricchi e potenti che il dottor stranamore avrebbe salvato dalla catastrofe nucleare mettendoli al sicuro nelle grotte e miniere più profonde circondati da ogni comfort. Per tutti gli altri appare necessario lottare per una società senza classi e sfruttamento dell’uomo sull’uomo, senza più riporre vane speranze in un “capitalismo dal volto umano” o in sacche di sopravvivenza all’interno o ai margini del sistema.

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