La notte che attaccammo Berlusconi a San Siro

Tratto da: Senzasoste.it che celebra così il ritorno del Livorno in serie A

Chi ha visto Il Maledetto United, sui 44 giorni come allenatore del Leeds da parte di Brian Clough, sa cosa vuol dire avere una magnifica ossessione nei confronti di una squadra avversaria. Clough, alla fine degli anni ’60 allenatore del Derby County in seconda divisione, arriva ad esprimere questa ossessione con un apparente nonsense calcistico. La sua tensione sul campo si esprime infatti nel costruire una squadra, che sia promossa in prima divisione, non tanto per vincere un campionato ma per poter competere regolarmente con il Leeds United. Squadra che Clough finirà per allenare, pochi anni dopo, trascinandola in una breve ma poderosa spirale autodistruttiva. Forse fatale perché, dall’arrivo di Clough, il Leeds non ha più avuto l’aureola della grande squadra e, con il passare del tempo, esclusa la parentesi del campionato vinto nel ’92, ha finito per impantanarsi nelle serie minori britanniche.

Non sono mai stato tifoso di Clough anche perché in Inghilterra c’è la squadra che amo quasi quanto il Livorno, il Liverpool Fc. E Clough, quando era alla guida del Nottingham Forest, un paio di storiche umiliazioni ai rossi del Merseyside le ha inflitte eccome. Clough ha vinto Coppe dei Campioni quanto Mourinho ma con una provinciale. E la sua magnifica ossessione per il Leeds mi ricorda fortemente quella di noi livornesi nei confronti del Milan di Silvio Berlusconi. E qui basta ricordare che la notte del ritorno in A nel 2004, dopo 55 anni e molti decenni di campionati improbabili, i muri di Livorno furono punteggiati da scritte che, oltre a festeggiare la promozione recitavano un inequivocabile “Silvio eccoci”. Volevamo mettere sotto il nano, non ci interessava che il suo Milan fosse campione d’Italia, e l’anno prima d’Europa, e niente ferma la follia di un popolo se si è dato entusiaticamente una meta.

Va detta una cosa, ho avuto la strepitosa fortuna di vivere una dimensione educativa che si dà su quattro agenzie formative fondamentali del mondo moderno: la politica, l’università, la cultura underground e la vita da stadio. Se le vivi separatamente ti mancherà sempre qualcosa: se gli astri hanno deciso che le vivrai assieme avrai dentro una potenza di vivere che ti accompagnerà fino alla fine dei tuoi giorni. Insomma il caso, o un particolare equilibrio della società negli anni della formazione, ti può regalare quella dimensione formativa che era la norma e il privilegio delle classi nobiliari dell’Ancien Régime. Un’educazione filosofica, sportiva, artistica e militare: un’equilibrio formativo stabile tra diverse facoltà, e differenti modalità di approccio alla complessità del mondo, che appunto era prerogativa delle classi nobiliari. Non a caso nella nostra società la politica di massa è svilita in una serie di processioni sterili di anime candide con il cero in mano, l’università è ridotta all’accattonaggio, la cultura underground rimossa e la vita da stadio denunciata come un crimine. Perché siamo in una società classista, verticale dove si fa di tutto affinchè la vita pubblica non si riproduca con criteri di emancipazione collettiva. Non è quindi possibile né pensabile coltivare spazi di formazione che, intrecciandosi tra di loro, diano una educazione complessa ed elevata alle lower classes.

Trovatemi, ad esempio, un movimento di massa in Italia che negli ultimi vent’anni abbia favorito il protagonismo irruente delle classi meno elevate. Al massimo tutta classe media timorosa del declassamento. Una spiegazione del fenomeno l’avrete nell’inaridirsi di queste quattro agenzie formative negli strati più bassi della società. Ultima vittima del fenomeno di inaridimento della vita sociale italiana, dove gerarchie e produzione di contenuti si sono verticalizzate, è stato proprio il calcio.

In Inghilterra gli stadi sono pieni ma di persone che hanno un potere d’acquisto superiore rispetto alle classi meno elevate che, un tempo, popolavano i terraces. In Italia l’operazione di sostituzione allo stadio di un ceto sociale con un altro non è riuscita. Infatti gli stadi sono semivuoti, spettrali di notte e cimiteriali di giorno. In compenso la ristrutturazione urbanistica attorno agli stadi, l’irrompere delle pay-tv, l’erosione del potere d’acquisto hanno spedito i proletari ai domiciliari in poltrona a guardarsi la partita. Mentre la moglie pressa, chiedendo quanto manca alla fine dell’incontro, perché c’è da fare un salto a quel centro commerciale dove fanno gli sconti proprio il fine settimana. Oppure, se si tratta di ragazzi, la partita è sempre un’occasione per passarsi una canna comodi sul divano. Il rituale animale e dionisiaco dello stadio, questo sconosciuto per le classi popolari di oggi. Non a caso la fierezza, la sfacciataggine e l’ironia delle classi popolari italiane si è andata affievolendo. Favorendo la crescita di figure chiuse ed intristite dal basso potere d’acquisto quanto eccitate istericamente dallo spettacolo televisivo. Il calcio moderno rappresenta una delle spiegazioni di questo fenomeno.

Quando siamo arrivati in serie A tutti questi fenomeni erano già ad un livello avanzato. Ma noi, dopo oltre mezzo secolo di assenza dalla massima divisione, eravamo come un’intera regione di selvaggi improvvisamente catapultata, dal tempo e dallo spazio, nel bel mezzo di una metropoli cablata. Le regole della civilizzazione calcistica, che fanno presa disciplinare sui tifosi quando si frequenta abitualmente la massima divisione, non ci avevano ancora dannatamente influenzati.
Già da qualche anno l’adrenalina del calcio circolava velocemente in città e mi aveva riaperto le vene dell’educazione da stadio in cui mi ero formato fin dalla prima elementare. Fino ad allora seguivo, come sempre, il Livorno ma a partire dalla fine degli anni ’90  era come se i Sex Pistols in persona mi avessero risucchiato assieme a diverse migliaia di persone. Non finirò mai di ringraziare i ragazzi della curva per questo. Mi sono ritrovato addosso una energia potente e continua che di solito si ha a vent’anni, non a quaranta, e ancora oggi ne sento la lunga spinta propulsiva. Grazie ragazzi, se mi sento l’uomo bicentenario.

C’è un rito calcistico inglese che gli italiani conoscono poco: quello che si gioca attorno al brivido per il sorteggio degli accoppiamenti per la FA Cup. Perché in Italia la coppa nazionale è un torneo senza una vera tradizione. Quindi quando si parla di sorteggio viene subito a mente quella sorta di estrazione  extralusso del lotto, in sale ovattate nella tipica luce azzurrina che fa tanto marchio Uefa, che è la cerimonia gli accoppiamenti per la Champions League. Comunque tutta roba che, a parte le eccezioni, ricorda nel complesso i martedì e i mercoledì sera davanti alla televisione all’ora di cena, niente che rimandi al fremito per l’attesa di un scontro storico sul campo come avviene in Inghilterra per il sorteggio della FA Cup. Dove, a differenza degli italiani, non si spera di incontrare l’avversario più facile ma nell’accoppiamento che crea la partita più sentita o prestigiosa.

Bene, durante tutta la prima parte dell’estate del 2004 un’intera città, felicemente invasata di calcio, sognava il Milan alla prima giornata di serie A. Altro che partita d’esordio facile: volevamo il presidente del consiglio. Che già da un paio d’anni era oggetto di un famoso coro allo stadio, regolarmente multato per “offese a presidente di altra squadra tesserata”, che ha fatto il giro d’Italia. Berlusconi doveva essere nostro, per un intreccio di motivi calcistici e politici. Volevamo la squadra più forte, ed essendo la nostra tifoseria comunista, anche il bullo capitalista più duro del paese. Il sogno della prima con il Milan sportivamente aveva un senso: all’epoca le neopromosse giocavano obbligatoriamente almeno una delle prime tre giornate con le migliori classificate. Il regolamento andava nella direzione delle nostre speranze.

Una mattina di agosto sulla spiaggia, dopo che la pubblicazione del calendario della A era stata rimandata per i consueti problemi strutturali della Lega Calcio, aprii la Gazzetta quasi strappandola. C’era il calendario del campionato: lanciai un urlo selvaggio, facendo girare dallo stupore gli assopiti bagnanti del primo mattino che erano nei dintorni. Avevamo la prima con il Milan a San Siro, l’undici settembre. Finalmente faccia a faccia con l’imperatore: pensai “ora ti si dà noi il Malines”, con l’ entusiastica spensieratezza delle classi popolari quando si lanciano all’assalto del padrone. Passai l’intera mattinata al cellulare sulla spiaggia. A differenza della triste figura del manager che, grazie al cellulare,  si porta il lavoro in spiaggia si trattava di desiderio di pianificare la trasferta in ogni dettaglio già da subito. Chi non conosce quei momenti, non se ne abbia a male, sa poco delle modalità con le quali l’energia sociale si organizza quando tende verso uno scopo. Oltre a perdersi un divertimento unico delle società contemporanee. Certo, mancava un mese alla partita. Nel calcio praticamente un’eternità. Ma per la prima volta nella mia vita, dopo quella mattina di marzo del ’90, sentii che finalmente andavo alla guerra contro l’imperatore. E mica con un’esercito qualsiasi: con quello della mia città, pieno di giovani che la falce e il martello li avevano tatuati sul braccio. Praticamente l’incubo del cavaliere materializzatosi come se fosse stato disegnato dallo sceneggiatore di 300: caratteri epici entro dettagli reali. Anni dopo Berlusconi ingaggiando Allegri, un tipo di livornese dai modi più preteschi e dimessi, gli ricordò di avere il difetto di essere nato nella nostra città. Era la prima volta in assoluto che Berlusconi nominava Livorno. La retorica del commodoro di Arcore ha una caratteristica: tende a nominare pochissimo, se possibile, gli avversari che gli fanno male o che sono potenzialmente pericolosi per la sua immagine. Non nego che le dichiarazioni di Berlusconi su Allegri mi provocarono una certa soddisfazione.

Due-tre giorni prima della partita lanciai un post su Indymedia dal titolo inequivocabile: 11 settembre 2004, scontro di civiltà a Milano. Ebbe un numero notevole di accessi. Mi ricordo la critica di un carissimo amico proprio alla vigilia della partita, al bar prima di preparare uno striscione. Mi diceva che avevo esagerato nel lanciare in questo modo l’attenzione sulla partita. Il riferimento all’ “11 settembre” e allo “scontro di civiltà” tra occidente e mondo islamico, così come pensato dal grosso dei media, gli sembrava esagerato per rappresentare una partita anche se giocata tra due squadre e due città sideralmente differenti. Qui bisogna capire la differenza tra uno spin-doctor, orientatore professionista di notizie e un mediattivista. Apparentemente, seppur da posizioni sociali molto differenti, entrambi svolgono una attività simile. Che consiste nel cercare di orientare l’interpretazione di una notizia prescelta, facendone lievitare il peso e allargare l’evidenza entro una miriade di notizie prodotte lo stesso giorno. Ma la differenza tra le due figure non sta solo nei mezzi a disposizione. E nemmeno nel fatto che lo spin-doctor è il leone degli uffici stampa, la cui agenda di indirizzi sul cellulare rappresenta l’inventario delle prede catturate, mentre il mediattivista è un’intruso che talvolta riesce a farsi spazio nei palinsesti di notizie previsti per la giornata. La prima vera differenza sta nell’uso degli slogan e del linguaggio mainstreamEntrambi li usano: ma lo spin-doctor lo farà per imprigionare gli avversari nelle regole di questo linguaggio, facendo deperire le notizie altrui e crescere la propria, il mediattivista per scatenare il potenziale evocativo del linguaggio mainstream travolgendo completamente le regole che l’hanno prodotto. Per cui l’ “11 settembre”, e lo “scontro di civiltà” che hanno un potere comunicativo enorme, da sintagma evocativo della necessità dei bombardieri delle forze del bene si trasformavano in un catalizzatore di mobilitazione in un contesto completamente differente. Talmente differente da volgersi contro uno dei primi ministri che, sullo scontro di civilità e l’11 settembre, una parte di carriera se l’è costruita. L’altra grande differenza tra un Alastair Campbell, l’alpha dog degli orientatori di notizie, e un mediattivista è l’effetto che si vuol ottenere. Per Campbell, per anni al servizio di Blair, si trattava di ottenere il silenzioso consenso dell’opinione pubblica, bella e ordinata nella propria casina, a ogni politica di privatizzazione e persino di guerra durante l’esperienza del New Labour. Un lavoro ottimo per fare splendida figura nelle serate nei pub più esclusivi, mandare in disgrazia milioni di persone, per poi vendere a caro prezzo a Random House i diritti per il libro di memorie. Un mediattivista si immette in uno sciame di commenti di notizie di rete per ottenere l’effetto opposto: cerca di far uscire la gente dalla propria casina ordinata e pulita per togliere consenso proprio a quelle politiche che mandano in disgrazia milioni di persone. A volte i mediattivisti ci riescono, pur non coordinandosi e neanche conoscendosi tra loro, ed è anche per timore di questo fenomeno che i Campbell, una volta cumulato il bottino, vanno prima possibile in pensione.

Insomma, in quei giorni su Internet mi sentivo l’Alastair Campbell dell’armata amaranto, non cercavo riconoscimenti nei pub esclusivi né volevo mandare in disgrazia nessuno. O meglio nessuno tranne uno: lavoravo assieme ad altri per costruire un’epica dove il nano ne usciva stroncato come mai in precedenza. L’idea della bandana da portare in migliaia, rovesciamento ironico dell’immagine di Berlusconi pirata in vacanza in Sardegna in quell’estate, fu lanciata da altri spin-doctor informali della rete. Funzionò benissimo, attirando con forza l’attenzione del media mainstream, assieme ad altre decine di iniziative.
Avevamo creato un campo di forza che rivoltava i riflettori, di solito riservati ai protagonisti ufficiali, verso di noi. E’ così che si fa quando il nemico è proprietario di tutti i riflettori del paese. Al contrario di come si fa comunemente in Italia dove si scende in piazza e poi ci si lamenta che i riflettori sono puntati verso dove vuole l’impresario. Con il più classico effetto sciame (in tanti senza una regia ma verso un obiettivo) ci fu quindi una convergenza di un corpo di spedizione di quindicimila persone vibranti e decise ad arrivare a disturbare la festa direttamente nel luogo delle cerimonie privilegiato dall’imperatore: lo stadio di San Siro.
Ed eravamo sicuri, come i fanti russi a Stalingrado, che in qualche modo saremo riusciti ad inscenare la più spettacolare scenografia di detronizzazione di Berlusconi che si sia mai vista in questo paese. L’Italia ha visto manifestazioni contro il governo anche di milioni di persone, tra il 2002 e il 2003 a Roma ce ne sono state due che si perdevano a vista d’occhio. Ma la detronizzazione del presidente del consiglio non era mai stata inscenata. Si sono al massimo giocati riti propiziatori della speranza che qualcuno per interposta persona, di solito il magistrato di turno, lo facesse.
La manifestazione a Roma inoltre si gioca, tradizionalmente, entro un simbolico rassicurante per la politica. Non è questione di parole d’ordine o di atti più o meno di forza che vi vengono esercitati. Per quanto abbia numeri ciclopici la manifestazione a Roma rappresenta una modalità classica dell’espressione politica: si va nella capitale per parlare, in un modo o in un altro, alle istituzioni. Le quali non solo di questo hanno ormai un’esperienza pluridecennale, per sapere come comportarsi in questi casi e trasformarli in un rito abitudinario della politica, ma sono intrecciate ai media in modo tale da far evaporare la forza della massa che manifesta in un più fluido e mediale fenomeno di opinione pubblica . Per cui si vedono manifestazioni di centinaia di migliaia di persone che svaniscono in pochi secondi nell’etere, nel breve spazio di un servizio televisivo blindato, evaporando il proprio potere comunicativo.

Se un presidente del consiglio tenta di imporsi come sovrano, le manifestazioni a Roma hanno invece il simbolico della normale dialettica politica che, in fondo, finisce per rendere normale questo potere proprio perché lo si critica con le armi di sempre. Ma Berlusconi rappresenta un fenomeno politicamente eccezionale ed è proprio questa ritualità del politico che va rotta. Non va cercato a Roma ma là dove è il simbolico del suo potere reale: Cologno Monzese. Un imperatore va stanato proprio perché il suo potere non circola assieme agli altri, come nelle democrazie occidentali, ma si annida sovrano in un luogo ritenuto inaccessibile. In senso simbolico, e Cologno e San Siro sono simboli della natura inaccessibile e strategica del suo potere.
Perché a Roma puoi manifestare quanto vuoi, prenderti la piazza come ritieni opportuno, ma è dove si fanno le televisioni che l’epressività di massa delle manifestazioni viene diluita nel palinsesto. Rendendoti lontano al resto del paese. Berlusconi è un tipo di potere unico, irriducibile agli altri della politica, e in quel modo lo devi affrontare. Schiantandolo sul piano della politica e dello spettacolo. Sul terreno, e in rete, devi quindi essere un’eccezione che i media non possono evitare pena la loro crisi di credibilità (e quindi di audience e di fatturato). E attenzione alla copertura mediale dei giorni precedenti e successivi all’evento. E’ lì che si gioca la portata temporale e la diffusione di significato che dell’evento che produci. Altrimenti sei un battito di ciglia in un palinsesto.

Noi avevamo creato, collettivamente e reticolarmente, una potente attesa attorno ad una semplice prima giornata di campionato tra una squadra campione d’Italia e una neopromossa. Di solito è roba da abituali servizi precampionato con tutto lo spazio dedicato alla squadra campione d’Italia pronta ad asfaltare la simpatica provinciale. Invece, prima sui giornali locali e poi sui media nazionali, per non parlare di Internet, l’attenzione si era creata con una forza inusuale. E tutta la forza stava nell’eccezionalità dell’evento: una partita che si trasformava in una manifestazione, una manifestazione in una partita in un continuo ed energetico scambio di ruoli e di significati.
Berlusconi non lo batti se sei classificabile, se non sei l’eccezione che sfugge persino alla rappresentazione delle sue televisioni che, per motivi di audience, sono costrette a rappresentarti. Importando così il veleno che le uccide proprio entro gli stessi canali nei quali dovrebbero far circolare egemonia. Con una scenografia spettacolare e di massa, finivamo così giusto nel luogo ritenuto inaccessibile del sovrano e sui sui circuiti mediali. Là dove controlla le potenze del calcio, creandosi una reputazione da mito metropolitano, e senza pagare il prezzo della critica della politica. Là dove il suo potere si rende così spontaneo e naturale. Là dove questo potere mescola elementi magici e primordiali. E noi invece eravamo diretti lì come un proiettile, proprio per sciogliere l’incanto.

La mattina della partenza in pullman per Milano, quando davanti allo stadio i mezzi furono costretti a partire in anticipo per canalizzare in qualche modo il troppo entusiasmo, capii appena arrivato davanti alla curva nord che l’operazione stava riuscendo in modo strepitoso. Cantavamo in massa come se fossimo già a San Siro ed era sicuro che la voce non sarebbe calata che all’alba del giorno dopo. C’era un canto, preso dai tifosi dell’Aek con i quali eravamo gemellati (una tifoseria poderosa e bollente come non trovi in Italia) opportunamente riadattato in italiano che funzionava da oscuro e rumoroso mantra collettivo per non farti mai perdere la carica e per rilanciarla.
Ricordo il viaggio in pullman come qualcosa di percettivamente accellerato, i primi insediamenti della metropoli che si vedevano dai finestrini. L’energia della giornata ti trasformava la percezione: sembrava di entrare a Trantor, la città pianeta di Asimov cuore del vecchio impero galattico nella trilogia della Fondazione, che nella letteratura di fantascienza è il punto metropolitano da dove si governano le metropoli della galassia. Oddio, ero in un pullman dove, detto senza perifrasi, c’era gente con la quale avresti potuto entrare in un mercato della Bagdad occupata ed uscirci avendo fatto tutti gli acquisti senza sgualcirti i vestiti. A quel punto entrare nella Trantor lombarda era solo questione di dettagli logistici.

Eppure quando entrammo a Milano la sorpresa fu enorme. Insomma, di trasferte dall’età di 15 anni in poi ne ho fatte tante. Il Livorno l’ho visto in stadi dimenticati dallo stesso paese che li ospitava come in impianti di serie A. La città che si trova invasa da tifosi avversari immancabilmente ha due tipi di reazioni spontanee: indifferenza e ostilità manifesta che si esprimono e si mescolano a seconda del luogo che che vai a visitare, dei rapporti tra le tifoserie e dell’importanza della partita. Potrei raccontare miriadi di episodi di rapporti con i nativi invasi dalla partita, ne scelgo uno. Ricordo che ad una trasferta di molti anni fa a Reggio Emilia, dove successe un casino niente male, quando un mio amico disse a degli anziani, usciti improvvisamente da casa, increduli di quanto stavano osservando: “via giù, dalle vostre parti è dai morti del luglio ’60 (la famosa strage seguita alle proteste contro il governo Tambroni, nda) che non accade qualcosa di vivace. In fondo ci dovete ringraziare”.
Bene quella volta né ostilità né indifferenza, all’inizio molta curiosità. Va considerato che stavano sfilando per Milano dei pullman imbandierati del vessillo del Livorno ma anche di falce e martello, colmi di gente che cantava slogan tipicamente da stadio ma anche canti comunisti storici (oltre a cori irriferibili nei confronti di Berlusconi che univano i due repertori canori).
Non proprio uno spettacolo comune, un effetto straniamento di contesti, uno spiazzamento piuttosto forte per i milanesi di inizio XXI secolo. Ma la sorpresa vera fu quando, dal marciapiede, diversi milanesi cominciarono a salutarci a pugno chiuso. Alla faccia della metropoli berlusconiana e leghista nell’animo, disincantata e corrosa dall’individualismo rapace. A quel punto sul pullman ci siamo sentiti i liberatori di Milano, ci sembrava di aver riportato il 25 aprile. In diversi aprimmo il tettuccio del pullman, poveri autisti che ci hanno sopportato un giorno intero (ad uno per finire di far festa gli fecero anche il portafogli), e tirammo fuori un bandierone con la falce e il martello che sembrava tirato fuori dalle foto della Liberazione di Milano. Saluti, baci, pugni chiusi dal marciapiede, lì l’entusiasmo collettivo mi ha scalato vent’anni d’età. Se ancora ci fosse stata la leva mi avrebbero rispedito militare, abile, arruolato e pronto per esportare la democrazia ai quattro angoli dell’universo in nome del tricolore.

L’operazione, mai pianificata ma collettivamente desiderata, di andare a stanare l’imperatore direttamente sul suo trono si stava rivelando un trionfo. Avevamo anche conquistato i suoi cittadini eppure eravamo lì per uno degli eventi dove la distinzione amico-nemico si dà rigidamente, senza discussioni e rimescolamenti, costruendosi su criteri di appartenenza territoriale: la partita di calcio. Avevamo rotto quello schema, come tutti gli altri che l’imperatore aveva messo tra noi e la sua sconfitta. Opportunamente, per non trasformare la sconfitta in disfatta, a Berlusconi non restavano che un paio di mosse. Non venire a San Siro e non parlare di noi nelle sue televisioni per cercare di non far crescere l’importanza che già avevamo assunto. Le fece entrambe ma quando eviti la disfatta a favore di una sconfitta storica e netta non è che cambia molto. Dai cellulari ci arrivano voci e notizie dagli spalti che erano, minimo, entusiasmanti. Da un paio d’ore prima della partita lo stadio di San Siro, mica il Brilli Peri di Montevarchi, rimbombava di cori di schermo di migliaia di persone contro Berlusconi proprio nella sua tana. Dove aveva costruito quel dispositivo sociale così potente da portarlo sul trono d’ Italia. Dispositivo che noi mettevamo a ridicolo proprio nell’intreccio tra politica e spettacolo che aveva fatto la sua fortuna.

A quel punto, per finire di stroncare simbolicamente il regno di Arcore, c’era solo un non trascurabile dettaglio davanti a noi. O meglio, davanti agli undici che scendevano in campo: non potevamo perdere la partita. E così la gloriosa, specie in tanti derby con il Pisa, Unione Sportiva Livorno si giocava la partita di calcio più politica della sua storia. Del resto davanti a sé aveva una squadra che, vincendo, è stata un elemento fondamentale per il successo politico del suo presidente. Nel calcio la posta cambia a seconda del contesto e degli avversari: derby, salvezza, promozione, campionato. Con un avversario del genere c’era anche un potente simbolico politico in palio. E di quelli di prim’ordine, messo in palio dall’imperatore in persona e dalla nostra magnifica ossessione nei suoi confronti. E nel calcio solo la magnifica ossessione ti fa battere l’avversario prestigioso. Come sapeva Brian Clough. Solo che Brian non sapeva che questa dimensione può replicarsi dal calcio alla politica. Berlusconi e noi lo sapevamo benissimo.

Appena prima del fischio d’inizio quindicimila livornesi entusiasti ed impazziti a San Siro avevano già definitivamente lasciato un marchio indelebile della loro presenza. Accanto a me ricordo una vecchietta con un dente solo, che sembrava fotocopiata da un fumetto di nonna Abelarda, che si accendeva ai cori più pesanti contro Berlusconi agitandosi come una ventenne all’ingresso di uno storico concerto degli U2 a Wembley. Non sarebbe stata una partita normale e non lo fu. Il Milan, tanto per farci capire dove eravamo, segnò l’1-0 dopo appena centoventi secondi. Ma dopo una manciata di minuti eravamo già sull’1-1. Lucarelli tirò un rigore angolato ma non potentissimo che, prima di entrare in rete, sono sicuro avrà accorciato la vita a molti predisponendoli all’infarto al momento dell’età avanzata. A quel punto siamo esplosi come la folla sa fare quando il suo entusiasmo genera e incontra un evento storico pieno di una pluralità di signicati. La potenza dell’entusiasmo che esplode è l’omaggio al suo incontro con l’evento. Ma era nulla, e già il boato sul primo gol sarà arrivato alle orecchie dell’imperatore ovunque si sia trovato, rispetto a quando pareggiammo per la seconda volta ormai sicuri di lasciare imbattuti San Siro. Il Milan era infatti passato di nuovo in vantaggio, doppietta di Clarence Seedorf uno dei giocatori più completi e intelligenti che abbia mai visto ma che dopo quella partita ho preso in antipatia assoluta e perenne. Solo che di nuovo Lucarelli, con un tiro che sembrava ricavato dal repertorio dell’astuzia di Ulisse, su punizione inventò il pareggio con una palla che, per il modo con la quale entrò, rappresentava una spettacolare presa in giro al portiere del Milan e a Berlusconi. Siccome la seconda rete avvenne  proprio a ridosso del nostro settore l’esplosione della folla fu poderosamente rumorosa ed emotivamente devastante. Subirlo un gol del genere fa parte non dei ricordi brutti del calcio ma proprio della vita. Il punto è che noi, altro che subito, l’avevamo fatto e in un momento irreversibile della partita. Ricordo di essermi piegato quasi in ginocchio con i pugni chiusi, la testa da un certo punto non più rivolta verso il campo ma verso gli spalti, e di aver pensato per un attimo “sono proprio fuori mica ci esco”.

Gente che non si era mai vista prima abbracciata stretta, rotolata sulle gradinate, urla altissime di gioia tirate avanti fino all’inverosimile, oggetti di ogni genere che volano in campo e verso tutte le direzioni possibili. Era festa, ce l’avevamo fatta, avevamo costruito il rito simbolico di disintegrazione del potere di Berlusconi. Del suo cerchio magico fatto di politica e spettacolo. La sua magia nera non poteva più niente contro di noi. E, come nei riti propiziatori che si rispettino, esultavamo fragorosamente per rimarcare il fatto che era arrivato l’evento di liberazione per il quale la rappresentazione del nostro rito era stata costruita minuziosamente dalla mano invisibile del tifo amaranto. Bisogna ricordare che avevamo segnato anche il 3-2, che fu annullato, e non sono affatto convinto che fosse irregolare. Dettagli e non solo perché non si era perso, perché eravamo andati nel tempio del nano e ne eravamo usciti indenni, stroncandolo sul piano simbolico della politica e dello spettacolo. Perché anche la vittoria sul campo era, come dicono gli inglesi, only a matter of time. La nostra squadra aveva avuto un sabato da leoni e per la vittoria sul campo era questione solo di attendere la partita di ritorno. Devo dire che su diversi giocatori non avevo alcun dubbio che, con il Milan di fronte, avrebbero reso come l’Olanda di Cruijff di fronte all’Uruguay nella partita d’esordio ai mondiali del ’74 (guardate anche qualche spezzone su youtube per capire come questi interpretavano il calcio come disciplina dove convergono forza atletica, complessità organizzativa e danza moderna).

All’epoca diversi giocatori del Livorno, contaminati con entusiasmo dall’atmosfera della tifoseria, leggevano libri sull’Armata Rossa, salutavano manifestazioni a pugno chiuso dal balcone e non mi riferisco ai più noti. Ma a quelli che facevano squadra. Giocatori, e qui in un processo di trasferimento di energia anche ai più riottosi tipico delle manifestazioni collettive, che riuscivano a contaminare anche i tanti scarsi mercenari della pedata presenti nella rosa. E così, come in uno dei tanti racconti dei Grimm fatti di trasformazioni fantastiche, ricordo che il gruppo miracolò le doti di Giallombardo, uno dei peggiori esterni difensivi di sempre della storia del Livorno, che riuscì a cavarsela alla grande a Milano contro Cafù, pluricampione del mondo. O Vidigal, oggetto a lungo di uno storico coro di scherno della curva per le sue non proprio eccelse doti tecniche, che a San Siro tirò fuori una signorilità di gioco tale da scambiarlo per un Ruud Krol (giocatore della grande Olanda, nda) abbronzato e con l’accento portoghese.

L’unico dettaglio che mancava, la vittoria sul campo contro il Milan dell’imperatore dopo quella simbolica sui suoi riti di intreccio tra politica e spettacoli, fu messo così a punto nel gennaio del 2005. In uno stadio Armando Picchi ricolmo, per l’occasione della prima visita dei lussuosi mercenari di Berlusconi nella nostra tana, avvenne il lieto e poderoso evento. Verso la mezz’ ora del primo tempo, mentre la curva alzò il coro di “Bandiera Rossa”, segnammo per un inserimento di Colombo su una corta respinta del portiere del Milan dopo un calcio di punizione. In molti, pur presenti all’evento, non volevano credere a quello che avevano visto e sentito. La coincidenza del coro con il gol. E la tecnologia, in prova audio e video, ci dette celeste conferma. Avevamo compiuto di rito di distruzione del simbolico politico e spettacolare di Berlusconi, andando sul suo terreno irridendolo, ridicolizzandolo, togliendogli l’aureola magica del potere e restando incolumi. E poi l’avevamo battuto sul campo. Proprio ad Allegri Berlusconi ha detto che peggio che essere comunista è essere livornese. A parte le sue personali graduatorie è evidente che gli abbiamo fatto male, l’abbiamo sconfitto sul suo campo, quello dove si ritiene artefice unico ed inarrivabile.
Sul Corriere, se mi ricordo bene, lessi che alla ripresa degli allenamenti dopo Livorno-Milan Berlusconi andò a fare una bella lavata di capo ai giocatori. Come da rito presidenziale di squadra di provincia. Avevamo ridotto, con il nostro rito di liberazione dalla sua magia nera, Berlusconi a quello che era. Un imprenditore lombardo dello spettacolo, possessivo, che non ci sta a perdere proprio come un bambino. Ogni aura mitica era scomparsa. Bel lavoro ragazzi, non dimenticate di raccontarlo ai nipoti.

Come dopo l’11 settembre del 2001 gli Stati Uniti non sono caduti, noi non abbiamo fatto cadere Berlusconi. Ma abbiamo segnato una data che rivela, nelle sue pieghe di significato, come Berlusconi non sia invincibile e come lo si possa battere. All’epoca nessuno in Italia poteva raccogliere con intelligenza un evento del genere. I principali giornali, e qualche servizio televisivo, se ne occuparono e qualcosa di più approfondito lo scrisse Repubblica. Ma è come affidare la descrizione degli effetti politici e storici della battaglia di Stalingrado ad un lancio Ansa firmato Capezzone. Sinistra e centrosinistra di allora erano poi tutte ripiegate a costruire le condizioni di quel conclave che avrebbe prodotto una nuova candidatura di Prodi alla presidenza del consiglio. L’incrocio tra politica e spettacolo, che crea la politica e l’egemonia reali nella società, erano e resteranno per loro lontane. Quanto alla sinistra di movimento, beh deve ancora capire come funzionano le società contemporane quindi lasciamo perdere. Nessuno seppe veramente profittare degli insegnamenti di quell’evento. Ma basta riportarne memoria perché qualcuno, prima o poi, se ne accorga.

Il fatto che fossi presente non mi ha reso qualcosa di privilegiato, solo un testimone. A Goethe è toccata la battaglia di Valmy a me, molto più modestamente, San Siro. Ma sono convinto che anche Goethe si sarebbe divertito a vedere Milan-Livorno. Indicando come l’undici settembre del berlusconismo possa essere un utile esempio per chi voglia studiare i punti di debolezza dell’ammiraglio di Arcore.

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