La finanza “islamica” nello scontro della competizione internazionale

Dal n. 20 di “Alternativa di Classe”

La finanza islamica nacque nel decennio 1970/’80 nei Paesi del Medio Oriente, sulla scia dell’arricchimento legato al petrolio, ma seguendo la Sharia, cioè la legge islamica, anche se fu il Pakistan il primo Paese al mondo ad “islamizzare” tutto il proprio sistema bancario. La Sharia, in materia di finanza si basa, di fatto, su tre principi cardine: “il divieto di chiedere interessi (riba), considerati una forma di usura; la condivisione dei rischi e dei profitti tra creditore e debitore e, infine, l’obbligo di appoggiare tutte le transazioni finanziarie su di un attivo reale”, fatto che, in teoria, escluderebbe il ricorso a prestiti in genere, ed, in particolare, a “prodotti derivati”, in quanto meramente speculativi. Secondo il Corano, il denaro non potrebbe generarsi da altro denaro; dovrebbe, cioè, essere investito in attività “concrete”, compreso anche l’acquisto immobiliare.

I fondi di investimento islamici, ad esempio, escludono, per statuto, le società che hanno un rapporto fra debiti e capitale sociale superiore al 130%.
Le banche islamiche si distinguono allora dalle altre banche, e, con esse, non sarebbe potuto accadere, almeno nella stessa forma, quel che è accaduto per i “mutui subprime” in USA. Piuttosto che concedere un mutuo a una persona che intende comprare una casa, riscuotendo in cambio un interesse sul prestito, la banca islamica acquista direttamente la casa, concedendola poi in una sorta di “affitto” al cliente, che si impegna a versare la cifra corrispondente in più rate mensili, pagando una commissione sul servizio ottenuto; pagate tutte le rate, il cliente diventa proprietario della casa.
Dalla fine degli anni ’70, le banche islamiche sono cresciute del 15 per cento annuo, arrivando, già cinque anni fa, nel mondo, ad un giro d’affari pari all’1% del mercato finanziario globale, mentre i “Sukuk”, le obbligazioni islamiche, hanno conosciuto un grande sviluppo: già nel 2007 le emissioni di titoli conformi alle leggi coraniche hanno superato i 30 miliardi di dollari.
L’enorme dilatazione del mercato finanziario globale, che sta accompagnando la crisi, fa sì che il superamento dell’1%, che si registra oggi, da parte della finanza islamica (i cui principali istituti bancari sono, soprattutto, in Arabia Saudita, oltre che nel Kuwait), rappresenti un suo sviluppo altrettanto enorme sul piano internazionale, e senza il ricorso agli “espedienti” utilizzati dall’Occidente, mentre si verifica un’interpretazione meno rigorosa che nel passato sui “prodotti derivati”; alcune banche islamiche oggi distinguono tra fondi derivati “semplici” e fondi derivati “complessi”, mantenendo l’ostracismo solo per questi ultimi. Tutto ciò dimostra come lo sviluppo della finanza islamica sia divenuto “sul campo” veramente importante, anche se non “dominante”.
Si sta imponendo, perciò, e non da oggi, la valutazione di una possibile (e sempre più necessaria per il capitale) compatibilizzazione fra la finanza internazionale, soggetta tutta alle stesse leggi, indipendentemente dalla provenienza nazionale e/o dalla etnia e/o dalla religione professata da chi vi “opera”, e la finanza islamica, con le sue “eccezioni”: in questo campo gli USA ed, in Europa, la Gran Bretagna sono all’avanguardia, ma gli altri principali Paesi imperialisti sono su quella scia. Anzi, la oggettiva corrispondenza di alcuni “precetti islamici” con quelli delle “banche etiche” e del “microcredito” occidentali, aldilà dei presupposti (che non appassionano certo i “pescecani” della finanza…), depongono per una direzione di sempre maggiore integrazione… Qualche economista vede addirittura come appetibili i principi economico-giuridici islamisti, in quanto considerati come veicoli di uno (impossibile!, n.d.r.) sviluppo capitalistico al riparo dalle crisi!
In più, la diffusione dell’Islam nel mondo (con almeno 38 Paesi a maggioranza islamica), la presenza sempre più penetrante, ed a volte aggressiva, di un “Islam politico” in vari Paesi di fede maomettana, nonché la forte immigrazione da tali Paesi, consigliano alla finanza internazionale la via dell’integrazione. Ed infatti, già dal ’95 a Barcellona, sul piano politico, l’Unione Europea era riuscita ad operare in tal senso, varando una importante partnership commerciale con le borghesie di Siria, Giordania, Libano, Israele, OLP, Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco e Turchia; nel 2000, poi, nasceva una effettiva “zona di libero scambio mediterranea” (cui, al Marzo ’03, erano già aderenti, nell’ordine, anche Autorità Nazionale Palestinese, Tunisia, Marocco, Giordania ed Algeria), allargata perfino ad Israele (del resto, candidato allo stesso ingresso a pieno titolo nella UE).
Da sempre, il Medio Oriente, con l’enorme presenza di petrolio e gas nel sottosuolo, ha attirato gli appetiti dei principali Paesi imperialisti, che hanno fatto a gara, con le “buone” o con le “cattive”, a garantirsi interlocutori sul posto, e da sempre Israele è stato il principale alleato USA nella zona. Non potendo, però, affidarsi al solo Israele, gli Stati Uniti hanno puntato, soprattutto dopo gli anni ’70, anche ad ingraziarsi le borghesie arabe, con alterne fortune. In questo contesto, Hamas, storicamente “braccio armato” dei Fratelli Mussulmani in Palestina, legato alla Siria, ed, ancora di più, all’Arabia Saudita, rappresenta la borghesia islamica palestinese; essa conta seguaci soprattutto a Gaza, ed i suoi capi si sono arricchiti con il mercato nero di combustibili provenienti dall’Egitto. Fra l’altro, anch’essa punta a controllare quei giacimenti di gas naturale trovati a Gaza, sui quali il Governo israeliano metterebbe le mani più che volentieri. Oggi le riserve marine sono in mano alla Gran Bretagna, mentre quelle sotterranee, di più recente scoperta, vedono in vantaggio compagnie USA.
Il capitale islamista, però, ha iniziato da tempo, ovviamente, a puntare ad una propria base territoriale, dalla quale competere, e, sulle orme dell’Europa, ha costituito un blocco monetario transnazionale: i Paesi Arabi del Golfo (le sei monarchie di Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), sono divenuti il 1° Gennaio ’08 un Mercato Comune, con un Consiglio monetario comune, costituito nel 2009, e con un esercito comune di 100mila uomini, annunciato dal 21-12-’13. Essi traguardano per il 2020 una moneta comune, che strategicamente non potrà che puntare, aldilà delle contingenti ed obbligate alleanze, a soppiantare il dollaro nel commercio di petrolio. In particolare, favoriti dalla diffusione dell’Islam nel Nordafrica, soprattutto Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti stanno attuando una forte penetrazione commerciale in Africa, atta a garantire loro, nel compensare l’alta percentuale interna di terre desertiche, il necessario import di generi agricoli, oltre allo sfruttamento, diretto o indiretto, di numerosi giacimenti di vario tipo, ivi scoperti; tale decisione li porta in competizione con gli stessi USA, che hanno appena adottato un analogo indirizzo.
Da almeno mezzo secolo gli USA hanno favorito in Medio Oriente tutte le divisioni possibili, sia etniche, che religiose, per poi, in un modo o nell’altro, inserirsi in esse, e trarne vantaggio sia geopolitico, che economico, per sfruttare i giacimenti di petrolio e gas naturale della zona, o, almeno, controllarne i prezzi, garantendo una prospettiva di potere locale a settori ex tribali, ed oggi borghesi. Il governo di Al Maliki prima e di Al Abadi ora in Iraq, da essi insediato, non riesce nemmeno a tenere unito il Paese, da cui la borghesia kurda di Barzani è riuscita a staccare, di fatto, il suo territorio di riferimento: un prezzo probabilmente messo già in conto dagli USA. L’offensiva militare è di ISIL (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), una scissione di Al Qaeda (la nota organizzazione terroristica guidata dalla ricchissima famiglia di Bin Laden, peraltro ex fantoccio USA), che, con finanziamenti di dubbia provenienza ed una diversa strategia d’azione, è divenuta ancora più forte di essa. ISIL ha conquistato interi territori, in cui fa valere la propria versione della legge islamica, insieme alla presenza, sia in Siria che in Iraq, di moltissime altre piccole strutture politico-militari autonome, con storie e finanziamenti riconducibili ai vari attori sul campo, che si alleano o si combattono tra loro. Lo stato di guerra, negli anni mai davvero cessato, sta continuando a martoriare la vita di quelle popolazioni. L’obiettivo delle milizie dello Stato Islamico, stimate oggi in 30mila uomini, che attira le ire (perlomeno quelle ufficiali) di tutti i Paesi arabi, è quello di costituire nella regione un “califfato islamico”, destinato, a “bocce ferme”, a sconvolgere tutti gli attuali equilibri geopolitici internazionali. Non a caso, infatti, la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro lo Stato islamico è stata adottata all’unanimità…
Ed è con la scusa di “fermare il genocidio”, che sarebbe prodotto da questi jihadisti, che l’imperialismo USA ha da qualche giorno avviato direttamente raid su quei territori con aerei e droni. Ciò, mentre in Siria continua la guerra, nella Libia (di cui poco si parla) gli scontri armati, ed a Gaza il crudele tiro al bersaglio, tra una “tregua” e l’altra… Nel caos, che ne deriva, e che viene fatto passare per scontro a matrice soprattutto religiosa, si scontrano anche gli interessi degli altri imperialismi lì presenti in qualche modo: Cina, Russia ed Europa, innanzi tutto. Vi hanno, poi, un ruolo di primo piano le potenze di area, come Iran, Arabia Saudita, Turchia ed Israele, mentre ogni capo-fazione borghese intesse alleanze, puntando ad accreditarsi verso questo o quell’imperialismo, per acquistare prestigio e potere. E’ così che gli USA hanno fatto ancora una volta ricorso all’attacco militare, un terreno sul quale sanno che la loro supremazia è intatta!
In questo contesto, la Francia e l’Italia scalpitano, e, dopo propositi di intervento diretto in Iraq, “a sostegno delle popolazioni kurde”, chiedono ed ottengono dalla UE il permesso di fornire apertamente armi “ai kurdi”: la UE non vuole “restare indietro” rispetto agli USA! Del resto, l’imperialismo di casa nostra, oltre ad essere il primo fornitore UE di armi ad Israele, ha già dimostrato di non voler perdere terreno nemmeno nel business con gli arabi! Mentre è noto che, attraverso una società con sede a Cipro, noto paradiso fiscale, un terzo delle cave di marmo di Carrara è in mano alla potente famiglia di Bin Laden, più recente è l’accordo con la “più araba” delle compagnie aeree dei “Paesi del Golfo”, la Etihad di Abu Dhabi, da poco emersa tra i giganti “Emirates” di E.A.U. e “Qatar Airways”, per “salvare” ALITALIA. Con il 49% dei capitali, pari a 560 milioni di Euro, e la “benedizione” delle banche italiane, la nuova compagnia italo-araba sarà sì più “sexy” di come era ALITALIA, viste le nuove hostess con il velo, come dice il manager australiano J. Hogan, ma al prezzo, poco considerato, di ben 2171 esuberi. Intanto l’emiro-finanziere Hamed bin Zayed Al Nahyan, in pratica il nuovo padrone, fa sapere che vuole “l’unità dei sindacati” in Italia: del resto, “Etihad” significa “Unione”…
Non va dimenticato, infine, che, prospettiva davvero pericolosa per gli USA, per i “petrodollari” e per il loro ruolo internazionale, l’Iran, le cui banche sono tutte islamiche dal 1983, aveva inaugurato fino dal 17-2-’08 la nuova Borsa del Petrolio dell’Isola di Kish (allora solo “zona di libero scambio”, in concorrenza con Dubai); tale Borsa, pur funzionando, in una prima fase, solo in Dollari (per le forti pressioni americane), come le altre due esistenti Borse sugli idrocarburi, non a caso site una in USA (la NYMEX di New York) e l’altra in Gran Bretagna (la IPE di Londra), ha avviato nell’Ottobre 2009 una seconda fase, terminata il 18- 7-’11, quando è stato deciso che gas naturale, petrolio greggio e suoi derivati possono essere trattati, secondo i contratti ammessi dalla legge islamica, anche in Euro, in Yen, in Rial iraniano ed in Rublo russo. Vi partecipano Arabia Saudita ed Iran, sunnita la prima e sciita il secondo, ma, rispettivamente, primo e secondo produttore mondiale di petrolio, e, dalla parte della domanda, Cina, Giappone e Russia. Quest’ultima ha annunciato la prossima nascita dei “petro-rubli”, convertibili in tutto il mondo, dopo l’apertura di una Borsa del Petrolio anche nella Federazione Russa.

tratto da http://www.pane-rose.it/files/index.php

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