Yemen – Sconfitti i Fratelli Musulmani, gli sciiti tornano in scena

La conquista di Sana’a da parte della ribellione houtista il 21 settembre 2014 mette fine al dominio dei Fratelli musulmani e dei loro alleati tribali nel sistema politico nato dalla sollevazione rivoluzionaria del 2011. La resa improvvisa della capitale yemenita di fronte a un movimento sciita, senza una grande resistenza da parte dell’esercito, ha colto di sorpresa molti e ha provocato letture talvolta contraddittorie.

di LAURENT BONNEFOY, ricercatore del Centre d’études et de recherches internationales (Ceri) della facoltà di Sciences Po, membro del programma Wafaw del Consiglio europeo. Autore, fra l’altro, di Salafism in Yemen. Transnationalism and Religious Identity, Columbia University Press, New York, 2011.

Tratto da Le Monde Diplomatique

Nel 2007, mentre iniziava il quarto ciclo della sanguinosa guerra del Saada (1) che opponeva il presidente Ali Abdallah Saleh a membri della minoranza zaidita sciita (2), davvero pochi avrebbero pensato che il capo dei ribelli, Abdulmalik al Houti, sarebbe un giorno diventato l’uomo forte dello scenario politico yemenita. Al tempo, egli era solo il nuovo leader degli houtisti, un movimento armato che appunto portava il suo nome e che era tradizionalmente attivo nella regione settentrionale di Saada. Nato nel 1982, egli era succeduto al fratello maggiore, morto in battaglia nel 2004, e al padre che si trovava in condizioni di salute precarie.

La rivendicazione da parte degli houtisti dell’identità zaidita appariva marginale in un paese che non si strutturava più prioritariamente intorno al confronto fra zaidismo sciita (circa un terzo della popolazione) e shafeismo sunnita, maggioritario. Grazie a un processo di convergenza storica delle appartenenze religiose, la maggioranza delle élites (e lo stesso presidente Saleh) e una larga parte della popolazione, benché di origine zaidita, avevano abbandonato questa affiliazione per un’identità musulmana più unitaria (3).

In modo sempre più evidente a partire dal 2004, gli houtisti si sono inscritti in un universo simbolico esplicitamente sciita. Vicini all’Iran e a Hezbollah, sostengono il regime di Bashar al Assad in Siria e ripetono slogan antiamericani e antisraeliani simili a quelli che risuonavano nel 1979 nelle strade di tehran; si sono anche riappropriati di alcune feste specificamente sciite, come l’Ashura (4).

Dopo la sollevazione pacifica del 2011 (5), l’abbandono del presidente Saleh sembrava lasciare campo libero alla principale formazione di opposizione: il partito al Islah, frutto di un’alleanza fra i Fratelli musulmani e alcune élite tribali conservatrici.

Riconfigurazione del campo tribale

Nel momento più forte della mobilitazione del 2011, l’appoggio logistico e umano offerto dal partito islamo-tribale e la sua esperienza avevano innegabilmente fornito la massa critica necessaria al movimento rivoluzionario.

Il governo di unità nazionale formato nel novembre 2011 per accompagnare la transizione politica seguita alle dimissioni di Saleh contava su diversi membri di al Islah. Gli organi di sicurezza erano stati progressivamente affidati a un numero sempre maggiore di persone vicine a questo partito. Inoltre i capi di quest’ultimo sembravano i principali alleati del presidente a interim Abd Rabbo Mansour Hadi, giocando il gioco della transizione e rivendicando una legittimità rivoluzionaria. A quel punto la marcia di al Islah verso il potere sembrava più che probabile. Ma la serie di rovesci sperimentati dai Fratelli musulmani nella regione ha cambiato il contesto, e la conquista di Sana’a da parte degli houtisti, avversari di al Islah, può essere interpretata nello stesso senso.

Forti della lezione appresa con l’estromissione, il 3 luglio 2013 da parte dei militari, di Mohamed Morsi, l’esponente dei Fratelli musulmani egiziani che era diventato presidente poco più di un anno prima, i responsabili di al Islah si erano premurati di non apparire in prima linea e di non dare l’impressione che stessero sequestrando il processo rivoluzionario. Ma i loro alleati tribali e militari, che storicamente avevano giocato un ruolo preponderante nel loro radicamento sociale, li hanno trascinati con sé nella caduta. Ormai, i Fratelli musulmani yemeniti devono rivedere ambizioni e modalità organizzative.

L’offensiva houtista su Sana’a aveva come obiettivo principale Ali Mouhsin. Parente stretto del presidente Saleh, egli aveva preso il comando della prima divisione blindata per condurre la guerra del Saada contro gli houtisti. La sua defezione, nel marzo 2011, aveva contribuito alla caduta del despota. La cattura della sua base e la sua fuga verso l’Arabia saudita, il 21 settembre 2014, indicano la volontà di vendetta degli houtisti. Molti fanno anche notare che l’ex presidente Saleh abbia potuto sostenere discretamente i ribelli, chiedendo ad esempio ai militari ancora a lui fedeli di non combattere. Il giorno della presa di Sanaa, egli si è accontentato, sibillino, di postare su Facebook una sua sorridente fotografia.

Anche i dieci figli di Abdallah al Ahmar, fondatore del partito al Islah e grande figura tribale nel 2007, sono stati presi di mira dagli houtisti insediatisi nella capitale. Nella lotta contro la ribellione, il clan al Ahmar ha progressivamente perso il sostegno delle tribù nel nord della capitale, il che è indice di una profonda riconfigurazione del campo tribale. I nuovi padroni di Sanaa hanno anche chiuso velocemente l’università religiosa al Iman, tenuta da Abdelmajid al Zintani, controverso personaggio di al Islah ed ex compagno di avventure di Osama bin Laden.

tawakkol Karman, un’attivista liberale del campo islamico e premio Nobel per la pace nel 2011, e Moham med Qahtan, quadro di al Islah che fu il trait d’union per un avvicinamento con i socialisti (6) e alcuni partiti zaiditi nei primi anni 2000, sono stati oggetto di atti di vandalismo, il che ha dato all’offensiva houtista un sapore di spedizione punitiva contro i Fratelli musulmani, con il rischio di alimentare tensioni confessionali fra sostenitori del rinnovamento zaidita sciita e islamisti sunniti.

Al Houti e il suo portavoce Ali al Boukhaiti hanno messo l’accento sulla portata più globale della loro offensiva: la salvaguardia della rivoluzione del 2011. L’annuncio della fine dei sussidi statali ai prodotti petroliferi, nel luglio 2014, ha fatto da detonatore alla marcia degli houtisti verso Sana’a. Al Houti e i suoi sostenitori hanno contestato il raddoppio del prezzo dei carburanti e la riduzione del potere d’acquisto, chiedendo le dimissioni del governo accusato di corruzione. Essi chiedono la messa in pratica delle am- biziose conclusioni della conferenza per il dialogo nazionale (conclusioni che, en passant, non avevano sostenuto al momento della loro adozione nel gennaio 2014) in materia di lotta alla corruzione, partecipazione dei cittadini alla vita politica e condivisione del potere.

Queste rivendicazioni offrono agli houtisti un’assise sociale e politica che va oltre i ranghi zaiditi. E spiegano in parte la debolezza della resistenza di fronte alla loro avanzata a Sana’a, dove, come conseguenza delle migrazioni interne, una parte significativa della popolazione non è di origine zaidita. L’atteggiamento lassista dei sostenitori dell’ex presidente Saleh, e la relativa passività di quelli del presidente Hadi e della «comunità internazionale», sono indice sia di una strategia ostile nei confronti dei Fratelli musulmani sia di una volontà di riconciliazione che vuole evitare la rottura e lo scoppio della violenza. A questo proposito, il coinvolgimento dell’Organizzazione delle Nazioni unite e del suo rappresentante speciale, il marocchino Jamal Benomar, è stato decisivo per la firma di un accordo, il 21 set- tembre, fra gli houtisti e il potere in carica.

Dopo il fallimento di un primo candidato, la difficile nomina di un governo di tecnocrati diretto da Khaled Bahah permette di inserire esponenti houtisti e segnala una certa normalizzazione. Anche se tuttora organizzati in milizie armate che occupano palazzi pubblici, essi non rappresentano più solo una ribellione nata in una periferia geografica e sociale, ma un segmento centrale del potere.

Per andare davvero oltre la dimensione confessionale, gli houtisti dovranno impegnarsi seriamente. I fattori negativi sono pesanti e le tensioni con le forze sunnite sono ancora particolarmente accese. Alcuni giorni dopo la presa di Sanaa, militanti di al Qaeda nella penisola arabica (Aqpa) hanno minacciato, e poi eseguito le minacce. Il 9 ottobre un militante jihadista si è fatto esplodere nel centro di Sana’a, uccidendo cinquantatré persone. Nello stesso momento, Yahya al Hajouri, ex direttore dell’istituto salafita di Dammaj, organizzava conferenze ad Aden e taez, regioni esclusivamente sunnite, facendo appello alla mobilitazione contro quelli che spregiativamente chiamava rawafidh (sciiti).

L’analisi delle motivazioni politiche, sociali e strategiche del sostegno della popolazione di Sanaa agli houtisti consente di smorzare una lettura confessionale dello scenario. E tuttavia, pur essendo salutare, non può invalidare del tutto la logica della confessionalizzazione dei conflitti. Questa è anche un retaggio diretto del regime di Saleh, il quale, dopo lo scatenarsi della guerra del Saada nel 2004, continuava a rimandare gli houtisti alla loro origine zaidita e ai loro legami, inizialmente inesistenti, con l’Iran, strumentalizzando al tempo stesso gli islamisti sunniti.

Confusione a Ryiad

Più che di una manipolazione saudita caratterizzata da un’alleanza di opposti (in linea di principio contro natura) con gli houtisti contro i Fratelli musulmani, il laissezfaire di Ryiad sarebbe espressione di una debolezza strutturale. In Yemen, la diplomazia del regno si caratterizza per l’incapacità di agire, di formulare una politica e degli obiettivi. E non si tratta di una peculiarità saudita. Anche Stati uniti e Unione europea, che come i paesi del Golfo appoggiano la transizione politica e il presidente Hadi, si mostrano impreparati di fronte all’ampiezza delle crisi che lo Yemen attraversa. È evidente che tutti faticano a definire una politica, fra il massiccio utilizzo di droni contro Aqpa, il sostegno allo Stato centrale e le restrizioni all’immigrazione.

Resta il fatto che la crisi degli agganci tradizionali dell’Arabia saudita, in particolare il clan al Ahmar,

gioca un ruolo più complesso di quanto non si pensi, l’Arabia saudita, potenza regionale la cui ingerenza ha segnato la storia dello Yemen. La griglia di lettura dominante nel mondo arabo vede nell’attendismo della diplomazia saudita di fronte all’offensiva houtista il risultato di una logica ostile ai Fratelli musulmani e di un riavvicinamento strategico con l’Iran. Questa spiegazione non può bastare. La criminalizzazione dei Fratelli musulmani, che il potere saudita considera un movimento terrorista, deriva certo dalla politica interna di Ryiad, dalla sua rivalità con il Qatar e dal suo sostegno al regime del maresciallo Abdel Fattah al Sissi in Egitto. Ma a più riprese i diplomatici sauditi hanno ricordato che il movimento dei Fratelli musulmani in Yemen non entrava in questa politica.

Insieme all’ascesa dell’Aqpa e del movimento secessionista del Sud diminuiscono grandemente l’efficacia di azione di Ryiad e la sua capacità di analisi della situazione. Peraltro, la molteplicità di attori nella diplomazia saudita – ministeri, principi, soggetti religiosi, strutture para- pubbliche –, spesso in concorrenza gli uni con gli altri, appesantisce le decisioni e l’azione. Una simile pluralità rende abbastanza illusorio un avvicinamento a Tehran, visto che questi attori diversificati hanno per anni partecipato alla costruzione della «minaccia sciita» e alla sua stigmatizzazione sul piano religioso e su quello strategico.

(1)  Si legga Pierre Bernin, «Le guerre nascoste dello Yemen», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2009. trentamila, secondo le stime, le perdite in vite umane nella guerra del Saada (nord Yemen) a partire dal 2004.

(2)  Zaidismo: una branca dello sciismo specifica dello Yemen. In genere ritenuto moderato, è stato legato al regime politico-religioso dell’imamato che dominò per un millennio sugli altipiani del paese fino alla rivoluzione repubblicana del 1962.

(3) Cfr. «Les identités religieuses contemporaines au Yémen: convergence, résistances et instrumentalisations», Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée, Aix-en- Provence, aprile 2008.

(4) La festa dell’Ashura ricorda il martirio dell’imam Hussein, nipote del profeta, nel 680, a Kerbala (Iraq). Simboleggia la resistenza contro l’oppressione e dà luogo a riti spesso criticati dai religiosi sunniti.

(5) Per una riflessione sulla portata del movimento nel 2011, cfr. Subay Nabil, «Un peuple en quête de convergence: la révolution yéménite face à un pays fragmenté», in Laurent Bonnefoy, Franck Mermier, Marine Poirier (a cura di), Yémen. Le tournant révo- lutionnaire, Karthala, Parigi, 2012.

(6) Il Partito socialista ha guidato la Repubblica democratica e popolare dello Yemen (Rdpy), o Yemen del Sud, fino all’unificazione dei due Yemen nel 1990.

(traduzione di M.C.)

Maggio 1990. Unificazione della Repubblica araba dello Yemen (Yemen del Nord) con la Repubblica democratica e popolare dello Yemen (Yemen del Sud), sotto la guida di Abdallah Saleh, presidente del Nord dal 1978.

1994. Tentativo di secessione del Sud, represso dall’esercito.

2002. Inizio della campagna statunitense di assassini di membri di al Qaeda. A partire dal 2012, presenza delle forze speciali statunitensi sul terreno.

Gennaio 2009. Fusione delle branche saudita e yemenita di al Qaeda con il nome di Al Qaeda nella penisola arabica (Aqpa).

Gennaio 2011. Inizio delle manifestazioni contro il presidente Saleh. Scontri, talvolta armati, che si susseguono per più di un anno.

Marzo 2011. La ribellione houtista, in corso dal 2004, conquista la città di Saada.

Ottobre 2011. L’attivista Tawakkol Karman riceve il premio Nobel per la pace.

27 febbraio 2012. Saleh, ottenuta l’immunità, consegna il potere al nuovo presidente Abd Rabbo Mansour Hadi.

Aprile 2012. Violenti combattimenti fra l’esercito e Aqpa nella provincia di Abyane.

Marzo 2013. Si apre la conferenza di dialogo nazionale; termina nel gennaio 2014 con un documento che dovrebbe permettere di redigere una nuova Costituzione.

21 settembre 2014. I ribelli houtisti conquistano la capital Sana’a. Il 13 ottobre si forma un nuovo governo, sotto la guida di Khaled Balah. Hadi rimane presidente.

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