E se lasciassimo da parte le emozioni… e riflettessimo?
Riceviamo e pubblichiamo
È guerra …
Una guerra nascosta, voluta dai padroni, subita dai proletari
Il raid omicida alla redazione di «Charlie Hebdo» (Parigi, 7 gennaio 2015) ha suscitato un comprensibile sdegno. I media e le anime belle (che non mancano mai) hanno poi enfatizzato l’orrore, eccitando le emozioni, col risultato di offuscare le circostanze in cui il raid è avvenuto. E ottundere le menti.
Piaccia o non piaccia, è stata un’operazione militare di quella guerra asimmetrica che da oltre un decennio insanguina il mondo. E di cui non si parla, celando quello stretto vincolo che lega la crisi del modo di produzione capitalistico alla guerra.
Crisi, guerra, disgregazione sociale
Via via che la crisi si aggrava, l’Occidente (Stati Uniti d’America, Francia, Inghilterra, Italia …) si trova sempre più invischiato in conflitti che coinvolgono molti Paesi con una forte presenza della religione islamica, a partire dalla Somalia (1992), passando per l’Iraq e l’Afghanistan, finendo (per ora) con la Siria. L’immediato risultato è stata la disgregazione della struttura statale e sociale di quei Paesi, cui non ha fatto seguito, come auspicavano i signori del Pentagono, la costruzione di nuovi Stati (State-building), bensì una diffusa disgregazione. Il vuoto «istituzionale» è stato colmato da aggregazioni di carattere etnico-religioso, nel caso specifico tribale-islamico, in grado di offrire un’immediata assistenza materiale. Assistenza però assai precaria, momentaneamente soccorsa da una prospettiva di redenzione sociale. Precaria anch’essa, poiché non può dare una risposta reale ai problemi che travagliano quei popoli, se non rinnegando gli inesorabili legami con i rapporti di produzione capitalistici, di cui quelle aggregazioni sono figlie.
In altri termini, sono aggregazioni che qualunque veste indossino – religiosa, etnica, familistica, di genere, ambientalista, localistica ecc. ecc. – surrogano lo Stato al quale, seppur caricaturalmente, finiscono per fare riferimento, mantenendo con lui un rapporto contraddittorio di amore e odio. E al tempo stesso, danno spazio a interessi particolari, tipici di un racket. Isis ne è un esempio lampante.
Inevitabilmente, le aggregazioni etnico-religiose vengono a trovarsi invischiate in una rete di interessi particolari, i cui fili sono tirati dai grandi e piccoli centri del capitalismo mondiale. E, in questa rete di interessi, naufragano miseramente le assillanti campagne «antiterrorismo».
Questo è lo scenario che ha dato slancio alla guerra asimmetrica. Una guerra strisciante ma permanente, con fronti mutevoli e gradi di intensità diversi, ma tutti rivolti a creare destabilizzazione in casa altrui, coinvolgendo in misura crescente la popolazione civile, direttamente o indirettamente.
Terrorista è lo Stato!
Le campagne contro il terrorismo sono una sporca foglia di fico che copre la violenza reale, la violenza degli Stati e dei padroni, di ogni colore e religione, per mantenere i propri privilegi.
Il terrorismo lo subiscono da tempo (da sempre!) i proletari, i senza risorse del Sud del Mondo, con rapine e bombardamenti.
La guerra asimmetrica ha riportato il terrorismo in un’Europa che, da settant’anni, aveva dimenticato gli orrori della guerra. Appagandosi di quel modesto (e precario) benessere che, oggi, con terrore, vede minacciato.
Orrori e terrori, oggi ridestati, vengono usati da padroni, politicanti e pennivendoli per far dimenticare che la guerra è frutto dell’attuale crisi del modo di produzione capitalistico. E che questa crisi è il vera pericolo che minaccia il modesto (e precario) benessere dei proletari europei. Un po’ invecchiati, ma sempre proletari.
Le conseguenze sono sotto i nostri occhi, in Francia ancora di più.
Come ci dice Marie-Cécile Plá.
Dino Erba, Milano, 9 gennaio 2015.
E se lasciassimo da parte le emozioni …
E riflettessimo?
Dopo aver ricevuto l’ennesimo sms con «Je suis Charlie», in cui mi si chiede di esporre alla finestra una candela accesa, non farò nulla di tutto questo. Forse mi farò dei nemici, ma tutto questo sentimento di compassione mi risulta insopportabile.
Io non sono Charlie, grazie, ma ho il mio nome e sono cittadina di questo paese, o per lo meno cerco di esserlo.
Non ho alcun problema a difendere la libertà di espressione e sono come voi orrorificata da quello che è appena avvenuto. Detto questo, cerco di riflettere un po’ su un quesito fuorviante: «Ma chi trarrà profitto da questo crimine?».
Quindi non andrò a manifestare con gli araldi dell’unità nazionale, tutti uniti contro la barbarie. Seguite il mio ragionamento. Io non dico come un cagnolino obbediente: «Sì, io sono Charlie», perché questo non vuol dire un bel niente. Non sono un’ebrea tedesca più di quanto non sia una sans papiers, non sono senza diritti o senza casa, ma ho gli occhi. Howard Zinn diceva che nella storia ci sono le vittime, i carnefici e coloro che «passano e vanno», quelli che danno un’occhiata con «obiettività» sul mondo e i suoi orrori. Io sono in movimento, in azione, o almeno ci provo.
Io non accetto che in nome di una pretesa libertà, che poi non ci dicono che cosa sia, trasformino le mie strade, la mia città, il mio quartiere in fortezze assediate. Incontrare gente in uniforme, con spaventosi mitra, a me provoca angoscia. E poi mi piacerebbe proprio che un bel giorno mi spiegassero in che modo dei tipi armati di mitra possano impedire a una bomba di esplodere o in che modo imporre il controllo capillare delle persone possa aumentare la mia sicurezza. Non so voi, ma a me, tutto ciò accresce in modo raggelante la mia sensazione d’insicurezza.
Eccovi le istruzioni ricevute via e-mail dal ministero dell’Educazione il giorno stesso dell’attentato:
- «per le scuole materne, i genitori sono autorizzati a continuare ad accompagnare i loro figli in classe la mattina e a ritirarli la sera.
- si invita comunque a fare particolare attenzione a qualsiasi situazione si possa eventualmente verificare e, in tal caso, di riportare a casa i figli».
A voi il giudizio…
Ripeto la mia domanda: nel momento in cui la legge Macron [ministro dell’Economia del governo Hollande-Valls, ndr] fa precipitare ancor più il nostro Paese nella miseria e nella precarietà, nel momento in cui la Francia, che ignora i trattati internazionali che ha comunque firmato, si permette di lasciare centinaia di bambini a dormire all’aperto, senza cibo, senza scuola, senza alcun tipo di protezione. E il termine «centinaia» non è un’esagerazione, dal momento che il degrado calcolato e voluto dei servizi pubblici – scuole, ospedali, ecc. – comincia a renderci la vita veramente insopportabile, proprio in questo momento chi trae profitto da questo crimine?
Marie-Cécile Plá, 8 gennaio 2015
Da: Des Nouvelles Du Front.
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