Ucraina – La nuova fase del conflitto e gli interessi in gioco
di Andrea Ferrario
Dopo un periodo frenetico di trattative a tutti i livelli, la situazione nell’Ucraina Orientale sembra essere nuovamente degenerata. Tutte le parti in causa in realtà hanno motivi per essere interessate a un compromesso, ma le loro motivazioni diverse rendono difficile conseguirlo.
La situazione in Ucraina ha registrato una nuova forte escalation dopo che i tentativi di trovare soluzioni diplomatiche hanno subito una battuta d’arresto. Qui di seguito facciamo un riassunto del modo in cui si è arrivati agli ultimi sviluppi e della situazione attuale, per poi tentare alcune ipotesi sul retroterra dell’escalation e sulle motivazioni che muovono i singoli attori del conflitto, cioè rispettivamente l’Ucraina, i separatisti, la Russia e l’Occidente.
Gli sviluppi più recenti
A partire da metà dicembre la tregua che era stata firmata a Minsk il 5 settembre scorso è sembrata per la prima volta tenere, fatta eccezione per isolati incidenti di lieve entità. Contemporaneamente, nel periodo che va dalla settimana prima delle feste natalizie fino alla prima metà di gennaio, è stato un fiorire di frenetiche iniziative di pace. Difficile riassumerle a posteriori, è sufficiente dire che si sono mobilitati con ripetuti incontri tutti i canali esistenti, dai “quattro della Normandia” (i ministri degli esteri di Ucraina, Russia, Germania e Francia), fino al Gruppo di Contatto (Ucraina, Russia, Osce, separatisti), a svariate commissioni, al presidente bielorusso Lukashenko e, soprattutto, al presidente kazako Nazarbaev. Nessuno degli incontri ha portato a risultati concreti. Quello che avrebbe dovuto essere il più importante e probabilmente la sede per un nuovo accordo di pace (quello previsto nella capitale kazaka Astana per il 15 gennaio tra Poroshenko, Putin, Hollande e Merkel), è stato annullato e rimandato a data da definirsi. Il ripetersi a scadenze serrate di incontri negoziali che non portano a risultati non vuole necessariamente dire che le trattative sono completamente in alto mare. Può significare anche che si sta discutendo di aspetti molto concreti, non più solo generici come prima, con la conseguenza che il braccio di ferro si fa più difficile. Questa ipotesi sembra confermata dal fatto che i rappresentanti delle varie parti hanno sempre tenuto un assoluto riserbo sui contenuti dei recenti negoziati, un ulteriore segno del fatto che sono in discussione temi fondamentali. Riguardo a questa serie di trattative va poi rilevato un particolare molto importante: per la prima volta gli Usa non prendono in alcun modo parte al processo negoziale. A livello Ue ci sono invece chiare disparità di linea tra la Germania, che ormai da alcuni mesi ha invertito la rotta e tiene un atteggiamento più duro nei confronti della Russia, e la Francia, il cui presidente si è spinto a cavallo tra dicembre e gennaio fino ad auspicare a chiare lettere una cessazione delle sanzioni perché, citiamo le sue parole, Mosca avrebbe già pagato abbastanza. Secondo la maggior parte degli analisti i punti di discordia fondamentali sono i futuri assetti del Donbass e, su un altro fronte, le modalità di controllo dei confini con la Russia, che Mosca vuole a tutti i costi mantenere completamente porosi.
Dal 10 gennaio circa c’è stata una ripresa degli scontri armati tra separatisti e forze di Kiev, incentrati in particolare sull’aeroporto di Donetsk, ma con focolai anche in altri punti su tutta la linea di divisione tra le due parti del conflitto, con un numero notevole di vittime tra la popolazione civile. La maggior parte degli osservatori di norma più attenti ha commentato all’avvio di questa nuova fase che probabilmente la ripresa dei combattimenti era da considerarsi un “alzare la posta” in un momento in cui le trattative si facevano maggiormente concrete. Sul campo comunque non si registrano più solo scambi di artiglieria, bensì quella che sembra essere un’offensiva da parte dei separatisti. Le forze ucraine hanno perso il controllo dell’aeroporto di Donetsk (di valenza più simbolica che effettiva), le formazioni separatiste stanno attaccando intensamente la sacca di Debaltsevo, che interrompe le comunicazioni dirette tra Lugansk e la capitale del Donbass, e cercano di avanzare a nord di Donetsk. Combattimenti sono in corso anche sulla linea di contatto nell’area di Lugansk, dove entrambe le parti sembrano essere ferme. Dopo le stragi di Volnovacha e Donetsk, nelle quali sono stati colpiti autobus, il 24 gennaio c’è stato il pesante bombardamento di un quartiere di Mariupol, lontano da obiettivi militari rilevanti, che ha causato 30 vittime civili. I separatisti hanno annunciato nella stessa data un’avanzata verso la città, con l’intenzione di prenderla d’assedio. Se confermato, il tentativo di prendere Mariupol (oltre 400.000 abitanti) per mano militare sarebbe uno scenario da incubo. I separatisti non sarebbero certamente in grado di condurre da soli un’avanzata di questa portata, e nemmeno di sostenere semplicemente scambi di artiglieria intensi (sul perché e sulla situazione interna dei separatisti si veda sotto), è evidente quindi che dietro all’escalation c’è una decisione di Mosca, con i relativi rifornimenti di armi e supporti logistici – non ci sono invece conferme indipendenti sufficientemente attendibili di una presenza diretta delle forze armate russe, come invece era avvenuto ad agosto. Le forze armate di Kiev si sono sicuramente riorganizzate negli ultimi mesi dopo la disastrosa sconfitta di agosto, dovuta sia all’incompetenza dei vertici militari sia alle velleità politiche dei “patrioti” Poroshenko e Yatsenyuk. Fino a quale punto sia stata efficace questa riorganizzazione lo si vedrà probabilmente nelle prossime settimane. Intanto Poroshenko ha decretato una nuova fase di mobilitazione della popolazione che coinvolgerà oltre centomila cittadini, che per la maggior parte verranno però impiegati per una rotazione degli effettivi sul campo. Un forte handicap per i militari ucraini è l’impossibilità di utilizzare l’aviazione, dopo che l’abbattimento dell’aereo malese a luglio ha “sancito” che i separatisti/i russi sono in grado di abbattere aerei fino a un’altezza di diecimila metri nei cieli ucraini. Per le popolazioni civili ovviamente si tratta di un fatto positivo, visto che i colpi dell’aviazione ucraina sono stati responsabili di una buona parte delle vittime del conflitto nel periodo giugno-luglio.
Al quadro complessivo va aggiunto il moltiplicarsi e l’intensificarsi da due mesi a questa parte degli attentati al di fuori del Donbass. I casi sono stati particolarmente numerosi a Kharkiv e a Odessa, ma sono state colpite anche Kherson e la regione di Zaporozhie. Vengono presi di mira soprattutto luoghi di ritrovo di sostenitori di un’Ucraina unita, edifici pubblici e infrastrutture. Gli attentati sono tutti rigorosamente anonimi e non rivendicati: più che a una tradizionale organizzazione terroristica si ha quindi l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di “gruppi di sabotaggio” che opera nelle retrovie ucraine. Si registra inoltre un notevole salto di qualità nelle dichiarazioni dei dirigenti separatisti: il capo della “repubblica di Donetsk” (RPD), Aleksandr Zakharchenko, ha dichiarato a chiare lettere che i separatisti non rispetteranno più la tregua siglata a Minsk. E’ la prima volta che una delle parti del conflitto lo dice apertamente. Zakharchenko ha poi rincarato la dose dando l’ordine ai suoi uomini di “non prendere più prigionieri, perché non abbiamo più bisogno di scambi” come invece era avvenuto finora a intervalli regolari: si tratta nei fatti di un’autorizzazione a uccidere i soldati ucraini catturati. Rimane però nel complesso il fatto che ipotizzare un’avanzata in condizioni ambientali ancora di pieno inverno appare molto azzardato, senza poi tenere conto che l’esercito ucraino è in grado di opporre una resistenza. Infine, sul terreno la situazione sociale si fa sempre più catastrofica, in particolare nelle repubbliche separatiste, dove l’economia è ferma da mesi, le medicine stanno finendo e si moltiplicano da ogni parte le voci di morti di fame. Secondo gli ultimi dati diffusi da Onu e Osce il numero complessivo delle vittime dall’inizio del conflitto fino a oggi ha superato le 5.000 (militari più civili). L’Onu ha poi diffuso il dato secondo cui i profughi sarebbero in totale oltre 1,5 milioni, per la stragrande maggior parte provenienti dal Donbass – di questi 950.000 sarebbero fuggiti in Ucraina e 600.000 in Russia. Va precisato che si tratta di numeri da prendere con le dovute riserve, perché l’Onu non effettua alcuna verifica autonoma e si limita semplicemente a raccogliere e ridiffondere i dati che le vengono forniti dai governi di Kiev e Mosca. Ma indipendentemente dai calcoli esatti, i numeri sono sicuramente quelli di una catastrofe di dimensioni enormi per la popolazione civile.
Dopo questo riassunto degli sviluppi salienti delle ultime settimane, passiamo ora ad analizzare le posizioni delle varie parti del conflitto e a formulare qualche ipotesi, naturalmente con beneficio d’inventario vista la complessità di una situazione che si evolve in modo molto rapido e confuso, e spesso non verificabile in tutti i dettagli.
Ucraina
Apriamo dicendo subito che, a nostro parere, il potere di Kiev è quello per i cui equilibri interni l’ipotesi di una guerra aperta è meno problematica. La troika Poroshenko-Yatsenyuk-Turchinov, insieme all’oligarchia della quale cura gli interessi, è impegnata nel tentativo di ricreare un sistema compatto in seguito alla disgregazione istituzionale successiva alla caduta di Yanukovich. Dopo le travagliate fasi del caos successivo a Maidan e poi dell’interregno della gestione Poroshenko iniziata a fine maggio, lo svolgimento delle elezioni di fine ottobre e la successiva difficile formazione di un governo hanno creato le basi per un ricompattamento nella nuova situazione. I metodi ai quali le autorità ricorrono sono sempre più di segno autoritario, dalla legge contro il terrorismo di quest’estate, alla più recente bozza di una legge sulla polizia, alla creazione di un ministero dell’informazione e alla prevista riforma del codice del lavoro, per non parlare poi dell’accresciuto ruolo di esponenti neofascisti nella vita istituzionale e politica. Inoltre, sono state approvate in violazione della costituzione norme che conferiscono personalmente al presidente del Consiglio di Sicurezza, Turchinov, poteri straordinari in campo militare e repressivo, in assenza di un adeguato controllo. La situazione economica è disastrosa e più che “sull’orlo del default” è di “default di fatto”, come d’altronde ammettono le stesse autorità. Nel 2014 il Pil è calato di circa il 7,5%, la hrivna ha perso oltre il 50% del proprio valore, l’inflazione si aggira sul 25% e le riserve in valuta sono crollate a soli 7,5 miliardi di dollari, quando a inizio 2014 erano a un già magro livello di 20 miliardi. Secondo le stime, Kiev necessita di prestiti per altri 15-20 miliardi di dollari, dopo i 17 miliardi già stanziati nel 2014 (ma corrisposti solo in parte). Si tratta di cifre che nessuno si illude possano servire a rilanciare l’economia ucraina, e la funzione dei fondi sarebbe unicamente quella di tapparne le falle più grosse per un periodo limitato. E’ chiaro che a questo punto i costi per la cosiddetta “comunità internazionale” si stanno facendo molto alti. Il governo Yatsenyuk ha approvato prima delle feste natalizie un bilancio che prevede pesantissimi tagli alla spesa sociale, in particolare all’educazione e alla sanità, con un forte aumento in termini reali della spesa militare. Inutile dirlo, i costi delle malefatte degli oligarchi prima, e della guerra poi, vengono scaricati per intero sui lavoratori, mentre gli interessi dei capitalisti non vengono per nulla toccati dal nuovo governo, che opera d’altronde in alleanza con loro.
La troika al potere oggi a Kiev è controrivoluzionaria nel vero senso della parola, perché sta portando a termine una politica mirata a seppellire definitivamente il processo rivoluzionario apertosi con Maidan, con l’obiettivo di rinstaurare sotto nuove sembianze un regime che replica nella sua essenza quello precedente, con la differenza sostanziale che è scomparso l’attore primario (Yanukovich e la sua “famiglia”, il cui sottobosco però è ancora vivo e vegeto) e che un altro (l’oligarca Rinat Akhmetov) è stato per ora messo “nel freezer”. Il sistema oligarchico viene infatti nella sua essenza preservato sia in termini politici che in termini economici, le politiche repressive approvate seguono la traccia di quelle famigerate introdotte, e poi ritirate, da Yanukovich nel tentativo di soffocare Maidan, mentre quelle economiche e sociali sono per il loro carattere un proseguimento di quelle del precedentemente regime, solo intensificate a causa delle conseguenze della guerra. Si può dire paradossalmente che il potere di Kiev è alla fine diventato un alleato del regime di Putin in quella che secondo noi è la vera guerra che ha originato il conflitto: quella contro le aspirazioni democratiche popolari di cui Maidan è stata espressione. E’ quindi banale trarne la conseguenza che in questa situazione al governo di Kiev la guerra conviene, almeno nella prospettiva di breve respiro tipica di un regime autoritario: si mandano decine di migliaia di giovani e lavoratori a morire o a deperire al fronte, si fa passare un clima patriottico che soffoca ogni dibattito con l’accusa di traditore a chi dissente e al contempo si ha un’economia di guerra che è ideale da una parte per lo sfruttamento dei lavoratori, e dall’altra per le ruberie degli oligarchi. I possibili esiti per una parte in guerra però sono tre: una vittoria, una sconfitta e un limbo di “guerra latente” che dura molto a lungo. La nostra opinione è che in tutti i tre casi Kiev, intesa come vertici politici e sistema oligarchico, non certo come popolazione dell’Ucraina, ha la possibilità di rafforzarsi o perlomeno di mantenere e consolidare la propria attuale posizione. In caso di vittoria e di guerra latente (termine impreciso, con il quale indichiamo l’attuale situazione di guerra per il momento non ancora a tutto campo) è evidente che il potere ucraino potrebbe continuare a seguire indisturbato la propria opera di consolidamento grazie al clima “patriottico”. Una sconfitta militare sarebbe più difficile da gestire, ma dopo quella disastrosa di agosto il governo di Kiev ha dimostrato di sapere volgere anche una situazione del genere a proprio vantaggio: anche l’essere vittime e promettere una rivincita offre nel contesto dato un’arma politica potente, se si è capaci di usarla.
C’è comunque un grande “ma”. Quali sarebbero i destini del Donbass rispettivamente in caso di vittoria o di sconfitta di Kiev(nel caso della “guerra latente” lo stiamo vedendo già ora)? Nessuno ha la bacchetta magica per dirlo con esattezza, ma secondo noi gli esiti potrebbero essere di natura simile in entrambi i casi. Dopo la sua elezione Poroshenko ha optato per una scelta rivelatasi sotto tutti i punti di vista sciagurata, quella dell’azione militare di vasta portata. Non ci riferiamo tanto al periodo da metà giugno a inizio luglio, in cui le operazioni sono state tutto sommato ancora limitate, anche e soprattutto in termini di vittime civili. Ci riferiamo invece al “dopo presa di Slavyansk”, quando la tattica di Kiev è stata quella degli assedi dei grandi centri urbani con i criminali bombardamenti contro Donetsk e Lugansk (in quest’ultimo caso i bombardamenti sono stati opera in larga parte anche dei separatisti, ma grazie alla tattica scelta dai vertici militari ucraini i miliziani delle “repubbliche” hanno avuto gioco facile a presentarli alla popolazione come opera esclusiva delle forze di Kiev). E’ chiaro a tutti oggi, e di sicuro anche ai vertici di Kiev, che dopo le migliaia di morti e le enormi distruzioni è semplicemente impensabile una ripresa di controllo della regione che riporti alla situazione di prima. Una soluzione conveniente per loro però i vertici ucraini potrebbero facilmente trovarla e sarebbe quella di ripristinare le vecchie reti politico-economiche oligarchiche utilizzando come pedina il Blocco di Opposizione (cioè quel che rimane del Partito delle Regioni), che ha ottenuto un risultato insperato alle ultime elezioni e al quale potrebbe essere “riappaltato” il Donbass con una tornata elettorale locale, che gli ex uomini di Yanukovich potrebbero gestire senza timori di subire intralci da parte di una popolazione ormai affamata e disperata. Inoltre, l’attuale dirigenza delle “repubbliche” separatiste è composta da ex uomini del sottobosco locale di Yanukovich, a partire dai due rispettivi capi Zakharchenko e Plotnickiy, fino al comandante Khodakovskiy e ai leader neofascisti che hanno sempre operato in sintonia con il potere della “famiglia” dell’ex presidente: tutti personaggi che non avrebbero nessuna difficoltà a collaborare con gli ex del Partito delle Regioni. Su un altro fronte, Kiev potrebbe decidere di “scongelare” l’oligarca Akhmetov che, fatta eccezione per alcune dichiarazioni a uso propagandistico, nessuno si è mai sognato di colpire nei suoi interessi personali o economici, né a Kiev né tra i separatisti, e che non a caso è molto attivo nel fornire aiuti umanitari al Donbass. La foto in cui i presunti “acerrimi nemici” Akhmetov e Kolomoyskiy si sono fatti ritrarre teneramente abbracciati durante la cerimonia di inaugurazione di Poroshenko è un simbolo di come gli oligarchi siano sempre pronti ai compromessi più spregiudicati. Lo stesso Poroshenko è un uomo con un passato nel regime di Yanukovich, mentre i vari Yatsenyuk, Avakov & Co. hanno ampia esperienza di gestione di compromessi con le elite locali, quando necessario. Una soluzione del genere potrebbe convenire anche alla Russia, per la quale però ogni eventuale uscita dalla guerra sarebbe più complessa, come vedremo sotto. Stante il riuscire a conseguire accordi sugli aspetti più delicati (controllo dei confini, per esempio), Mosca potrebbe dare il suo patrocinio a una tale soluzione. Se gestita bene, questa ipotesi potrebbe valere anche in caso di una sconfitta militare di Kiev, ma Mosca dovrebbe in tale evenienza avere un ruolo maggiore e, di conseguenza, assumersi anche oneri più alti. In entrambi i casi, per la popolazione della regione si profilerebbe un futuro all’insegna della repressione e dello sfruttamento. Naturalmente tutto questo vale solo nel caso in cui la guerra dovesse limitarsi al solo Donbass. Se la Russia dovesse decidere di perseguire il progetto della “Novorossiya” fino a Odessa a Ovest e Charkiv a nord, per l’attuale Ucraina sarebbe un colpo mortale – attualmente non sembra un’ipotesi all’ordine del giorno, ma non la si può escludere del tutto, visto che a Mosca esistono potenti (e criminalmente folli) lobby che con ogni probabilità continuano a prenderla in considerazione.
Separatisti del Donbass
Nella “Repubblica di Donetsk” (RPD) e in quella di Lugansk (RPL) sembra ormai quasi portato a termine il lavoro di pulizia interna. Come ampiamente riferito dalle cronache, l’1 gennaio nella RPL è stato ucciso in modo brutale ed eclatante il comandante Aleksandr Bednov “Batman”, esponente della cosiddetta ala radicale le cui truppe erano state rafforzate in autunno da volontari neonazisti della formazione “Rusich”, provenienti dalla Federazione Russa. Dopo la sua uccisione, un altro dei comandanti più importanti di tale ala, Pavel Dremov, che come l’estremista di destra Mozgovoy era uno dei beniamini della sinistra internazionale filoseparatista, ha prontamente chinato il capo accettando di diluire le sue forze in quelle della RPL solo alcuni giorni dopo avere pubblicato un proclama di guerra contro la dirigenza della “repubblica” accusata di essere ladra, terrorista e affamatrice del popolo. Altri comandanti noti sono stati disarmati nell’area al confine con la Russia. Il caso dell’uccisione di Bednov è però un’eccezione: la cosa che più impressiona finora in realtà è come la quasi totalità dei leader più prestigiosi sia andata pacificamente in pensione a Mosca o in Crimea seguendo docilmente quelli che evidentemente sono gli ordini del Cremlino. A rendere ancora più cupo il clima interno delle “repubbliche” c’è stato l’annuncio di Zakharchenko che a gennaio verrà introdotta la pena di morte, sebbene si tratti in realtà di una formalità di valenza più che altro simbolica, visto che nei fatti la pena capitale viene già praticata in modo massiccio nelle due “repubbliche”.
La situazione economica, come già ricordato, è disperata. Ciò è dovuto non solo alla guerra e al blocco economico messo in atto da Poroshenko da dicembre, ma anche alla rapina sistematica operata dai separatisti e agli aiuti economici fino a oggi quasi inesistenti della Russia. E’ in atto un vero e proprio disfacimento della società: non c’è lavoro, nei pochi casi in cui c’è raramente viene retribuito, i pensionati fanno letteralmente la fame, i negozi sono riforniti, ma la popolazione non ha i soldi per acquistare prodotti, fatta eccezione per la borghesia separatista e quella speculatrice che popolano senza ritegno i ristoranti nel centro di Donetsk. Le istituzioni esistono solo sulla carta, tutto va avanti in qualche modo con gli sbrigativi metodi mafioso-polizieschi dei leaderini locali. I separatisti pagano il prezzo della loro stessa natura, cioè quella di essere sempre stati un corpo estraneo alla popolazione locale, capaci di sopravvivere solo grazie al sostegno di quanto è rimasto del sistema oligarchico di Yanukovich e a Mosca. Nei lunghi mesi di pace e di guerra in cui hanno hanno avuto il controllo della situazione non sono mai riusciti a ottenere un sostegno di massa, o comunque il sostegno attivo di settori importanti della popolazione. Quando si sono insediati ad aprile nell’indifferenza della stragrande maggior parte della popolazione, la prima cosa che hanno fatto, invece di lottare per i loro presunti e inesistenti obiettivi di “liberazione”, è stato procedere immediatamente a reprimere ogni possibile opposizione mediante uccisioni ben selezionate di ogni potenziale oppositore politico o sindacale, l’uso sistematico della tortura e arresti arbitrari tra gli elementi emarginati della società (in particolare proletari e giovani). La manifestazione antiseparatista del 28 aprile a Donetsk, che per numeri era analoga alle punte massime raggiunte in rare occasioni dai separatisti, nonostante scendere in piazza volesse dire allora mettere a rischio la propria vita, è stato l’ultimo tentativo di opporsi all’oppressione delle milizie. Dopo di allora, chi ha potuto è fuggito, chi non ha potuto si è dovuto piegare alle repressioni.
Le due matrici del separatismo, cioè il neofascismo panrusso e il sistema capitalista oligarchico dell’Ucraina Orientale, sono sempre ben vive e rappresentate dalla situazione attuale di repressione sistematica e politiche guerrafondaie nel Donbass. Non è un caso nemmeno che i separatisti non siano mai riusciti non solo a mobilitare la popolazione, ma nemmeno a reclutare combattenti in modo consistente. Anche se è impossibile fare stime precise, secondo le ampie testimonianze raccolte dai media indipendenti, e in particolare da quelli russi che meglio riescono a muoversi nella regione, negli ultimi tempi i “volontari” venuti dall’esterno potrebbero costituire addirittura più della metà dei combattenti separatisti. In particolare, nelle ultime settimane sarebbe incrementato il numero e il ruolo di “volontari” ceceni inviati da Ramzan Kadyrov. In questo momento, per esempio, questi ultimi controllano l’importante città di Krasnodon e sono stati loro a disarmare alcuni comandanti locali in altre zone della RPL. Una conferma del loro ruolo sempre più importante la si è avuta quando qualche giorno fa hanno rapito per 24 ore una figura di spicco come il “governatore popolare” Pavel Gubarev al fine di intimidirlo. I separatisti quindi non possono aspirare in alcun modo ad agire in autonomia, tanto meno a rappresentare gli interessi delle popolazioni locali. Rimangono, e anzi sono sempre più, solo delle marionette di Mosca che in qualche occasione in primavera avevano temporaneamente accennato a qualche velleitario colpo di testa per motivi di ambizione personale, ma che hanno comunque messo sempre al primo posto gli interessi del Cremlino. E’ pertanto da escludersi la loro capacità di dare vita a repubbliche anche solo in minima misura indipendenti. Al massimo potrebbero fare da luogotenenti per una nuova versione locale della Transnistria su commissione di Mosca, con un pari brutale sfruttamento della popolazione da parte di un’elite capitalista di stampo mafioso. Tuttavia il Donbass, sia per dimensioni geografiche e di popolazione che per rilevanza economica e geopolitica, difficilmente potrebbe durare a lungo come nuova versione della Transnistria. L’aspirazione della quasi totalità dei simpatizzanti passivi dei separatisti è invece con ogni probabilità quella di un’annessione alla Russia, con le sue pensioni relativamente più alte e il clima di ordine e disciplina. Ma la Russia evidentemente non ne vuole sapere. Per cui anche per i separatisti, visto quanto sopra descritto, l’opzione più razionale appare quella di un Donbass formalmente nei confini dell’Ucraina, ma con un alto grado di “autonomia” e un ampio controllo economico e politico indiretto da parte di Mosca. I loro leader provengono dal sottobosco dell’oligarcato, in collaborazione con il quale potrebbero costruire un nuovo Donbass “etnicamente ripulito” dalla popolazione di nazionalità ucraina maggioritaria fino all’inizio del conflitto. Per farlo sarebbe semplicemente necessario ripulire ulteriormente le proprie fila dalle teste più calde e da chi ha commesso crimini troppo impresentabili: nulla di più facile. In alternativa, in caso di un’operazione militare russa per la conquista della “Novorossiya”, i separatisti potrebbero fare da paravento per l’invasione e da organi repressivi locali. Le operazioni di pulizia effettuate finora dai separatisti nelle proprie fila fanno pensare che Mosca le abbia imposte per disporre sul terreno di strutture locali più affidabili in vista di qualche formula di compromesso sul Donbass e che quindi al Cremlino abbia vinto l’ala più “liberale” (per usare un comodo eufemismo) a svantaggio di quella “radicale” del complesso militare-industriale. Ma potrebbe essere un inganno. E’ possibile infatti che i “radicali” del Cremlino abbiano accettato di sacrificare i comandanti da loro protetti (rimane praticamente solo Mozgovoy) per favorire una maggiore stabilità nelle “repubbliche” dopo avere raggiunto con i “liberali” un compromesso che tenga maggiore conto della linea voluta dalla lobby militare-industriale. Gli sviluppi di questi ultimissimi giorni potrebbero essere un segno di questo spostamento su obiettivi più radicali.
Russia
Le mosse della Russia di Putin sono tradizionalmente difficili da anticipare e interpretare. La sicurezza garantitale dalla rendita economica energetica e da un sistema di verticale oligarchica efficace nel garantire l’ordine interno avevano permesso finora al Cremlino di essere spregiudicato nelle proprie mosse. Oggi le cose però stanno cambiando rapidamente. Se l’Ucraina è in situazione di default di fatto, la Russia è sull’orlo del baratro economico, con la differenza che la prima era già in una situazione analoga negli anni di Yanukovich e vi è ampiamente abituata, mentre per il regime di Putin si tratta di una novità. Non si può proprio dire però che sia una novità del tutto inattesa: è come minimo dall’inverno 2013, e comunque prima dell’esplosione di Maidan, che gli analisti spiegavano dati alla mano che la Russia stava andando inevitabilmente verso una grave crisi economica. Si trattava solo di capire se si sarebbe trattato di un vero e proprio sprofondare nel baratro, oppure di una lenta ma chiara discesa. La crisi del rublo è un segno del fatto che la prima ipotesi è all’ordine del giorno. La crisi dei prezzi delle materie prime energetiche acuisce ulteriormente i rischi, e di molto. Era comunque chiaro da più di un anno che il modello economico-politico di Putin, basato su una rendita energetica depredata al solo fine di tenere in piedi un elefantiaco sistema burocratico-capitalista redistribuendo una quota minima al ristretto ceto medio urbano e a parte dei dipendenti statali, non avrebbe più potuto continuare come prima. Si tratta sicuramente di un elemento che ha inciso fortemente sulle scelte del Cremlino riguardo all’Ucraina e che, soprattutto, lo ha spinto ad agire con urgenza per chiudere il capitolo di Maidan. Ora, con il rublo che ha perso l’80% del suo valore, l’inflazione in netto rialzo, la prospettiva che le rendite energetiche rimangano dimezzate per lungo tempo, un Prodotto Interno Lordo dato secondo le stime prevalenti in crollo del 5% nel 2015 e un settore aziendale dall’indebitamento altissimo, la Russia si trova di fronte alla necessità di fare scelte urgenti di portata ancora più ampia.
Nel loro complesso, la crisi economica interna e il conflitto con l’Ucraina rischiano di diventare una mina esplosiva per il regime del Cremlino. Quest’ultimo aveva gestito in modo molto efficace la sua guerra contro Maidan, in particolare con l’operazione dell’annessione della Crimea, portata a termine a regola d’arte anche perché chiaramente organizzata con cura ben prima della fine di Maidan. Nel Donbass le cose sono evidentemente state organizzate più in fretta, e comunque su un terreno molto più difficile per la Russia, vista la rilevanza del sistema oligarchico locale con cui era necessario fare i conti, da una parte, e una comunità russa locale molto meno compatta che in Crimea, dall’altra. Il Cremlino comunque alla fine è riuscito a gestire l’operazione in modo molto abile, soprattutto nell’intervenire militarmente in modo spudorato in estate senza subirne conseguenze diplomatiche disastrose, creando così tra l’altro un secondo importante precedente dopo quello della Crimea. Ma alla fine sembra essere caduto nella trappola in cui sempre più spesso cadono negli ultimi anni le potenze imperialiste: riescono a ottenere successi nel gestire la strategia di guerra e nel vincere militarmente, ma poi sono incapaci di gestire anche solo a medio termine la situazione sul terreno in modo razionale. Sotto svariati aspetti, il pantano russo nel Donbass del dopoguerra assomiglia a quello statunitense nell’Afghanistan o in Iraq. Per inglobare l’Ucraina Orientale o tenerla in vita come entità indipendente dopo una guerra distruttiva la stessa Russia dovrebbe essere uno stato con un sistema di garanzie sociali evolute e un’economia in grado di investire su progetti magari a bassa rendita immediata, ma con prospettive di crescita a lungo termine. Un sistema neoliberale, e per di più di carattere oligarchico-rentier come nel caso russo, è semplicemente incapace di farlo senza mettersi radicalmente in discussione. Il risultato è che le simpatie di cui poteva godere la Russia tra alcuni strati della popolazione del Donbass sono sicuramente calate di molto e continueranno sempre più a calare, dopo che finita la guerra di agosto il Cremlino ha nei fatti abbandonato a se stessa la regione, rendendo così ancora più complessa una soluzione che vada a vantaggio di Mosca.
Abbandonare definitivamente il Donbass, però, vorrebbe dire perdere fortemente di prestigio come potenza imperialista. Chi più tra i tanti russi che vivono in altri stati oserebbe in futuro guardare a Putin come a un salvatore? Quali altri gruppi si metterebbero con tanto ligio ossequio al suo servizio come manodopera dei suoi piani? Ma anche la crisi economica sta già intaccando fortemente il prestigio di Mosca. Il crollo del rublo sta provocando sconquassi simili nei due più importanti altri membri dell’Unione Eurasiatica, che appare un progetto sempre più fragile. In Bielorussia, Lukashenko ha dovuto svalutare la moneta locale del 30% e licenziare come capi espiatori sia il governo che il governatore della banca centrale. Anche in Kazakistan la moneta locale si è pesantemente svalutata, con tutti i conseguenti problemi. Le rimesse dei moltissimi immigrati dell’Asia Centrale che lavorano in Russia hanno perso drasticamente di valore, causando grandi problemi sia al Kazakistan che ad altri paesi come il Tajikistan e il Kirghizistan, dove le rimesse degli emigrati arrivano rispettivamente al 42% e al 31% del Pil. A gennaio poi è stato registrato un crollo dei rientri in Russia, dopo le feste, degli immigrati dall’Asia Centrale che evidentemente, in mancanza di prospettive di lavoro o di un reddito minimamente ragionevole, preferiscono hanno preferito rimanere nel loro paese: per paesi già fragili il ritorno in massa di una popolazione che rimarrà forzatamente disoccupata è altamente destabilizzante. Come se non bastasse, anche nella finora docile Armenia, una vera e propria colonia russa, sono esplose manifestazioni contro Mosca dopo l’ennesimo episodio di violenza criminale contro la popolazione locale da parte di soldati russi di stanza nel paese. La Russia, insomma, rischia di perdere progressivamente le più importanti leve di controllo proprio su quello “spazio ex sovietico” rispetto al quale ha tentato di ribadire il proprio diritto di veto con la guerra contro l’Ucraina.
Visto questo quadro, la scelta più razionale per il regime russo sembrerebbe essere quella di giungere a un compromesso come quello già dipinto sopra nella sezione sull’Ucraina, cioè qualche forma di “autonomia” larga nel Donbass sotto la tutela del vecchio sistema oligarchico, che consenta a Mosca da una parte di conservare un diritto di veto sul sistema politico-economico dell’intera Ucraina e dall’altra di tornare ai rapporti amichevoli con l’Occidente che erano in atto prima del 2013, guadagnando così più spazio di manovra per risolvere i propri gravissimi problemi economici. Se è questo a cui il Cremlino sta puntando adesso, il recente riaprirsi del conflitto potrebbe essere solo un alzare la posta in gioco in vista di trattative (con il rischio però sempre presente che la situazione sfugga di mano). A tale proposito va rilevato che il ministro degli esteri russo Lavrov ha ripetuto più volte nella sua ultima conferenza stampa che il Donbass deve rimanere nei confini dell’Ucraina, e questo è in sintonia con una possibile intenzione di giungere a un compromesso. Ma a uno stato in preda a una crisi sistemica profonda come la Russia anche la guerra a tutto campo, magari perfino oltre i confini del Donbass, potrebbe apparire un soluzione accettabile di fronte al rischio di disgregarsi. La storia offre numerosi esempi a riguardo. Quindi riteniamo ancora una volta che tale ipotesi, per quanto appaia in questo momento improbabile, non sia da escludersi.
Occidente
I veri tre attori di questo conflitto sono la Russia, l’Ucraina e i separatisti. Le potenze imperialiste occidentali vi svolgono un ruolo importante, spesso con pesanti ingerenze sia politiche che economiche, ma in ultimo sono attori esterni. Per questo saremo più brevi in merito. Prima però una premessa che ci riallaccia direttamente a quanto scritto sopra a proposito della Russia. A sinistra sono molti coloro i quali ritengono che la Russia sia costretta a difendersi da quello che è un accerchiamento da parte della Nato (degli Usa), una posizione condivisa in termini simili anche da molta estrema destra e da numerosi conservatori che adottano una visione esclusivamente geopolitica. Tra questi ultimi sono non pochi quelli secondo cui la Russia agisce per ottenere una garanzia che l’Ucraina non entri a fare parte della Nato. Si tratta a nostro parere di un’ipotesi ridicola: quale mai “garanzia” sicura può ottenere uno stato sul comportamento futuro degli altri stati nelle odierne relazioni interimperialiste? L’Ucraina per esempio ha rinunciato al proprio arsenale nucleare a fronte della garanzia scritta della Russia e delle potenze occidentali che in cambio la sua integrità territoriale sarebbe stata rispettata: alla prima occasione la garanzia scritta è finita direttamente nella pattumiera. Non si fa una guerra per ottenere una garanzia che non ha nessun valore pratico in prospettiva: al Cremlino siedono sì dei guerrafondai, ma non così stolti da non rendersene conto. Riguardo all’accerchiamento da parte della Nato/degli Usa da un punto di vista puramente geopolitico non vi è alcun dubbio sulla sua esistenza, come testimoniano le innumerevoli cartine che i sostenitori di questa tesi producono di solito a grande volontà. Ma se si prova a guardare a tali sviluppi da un punto di vista diverso, cioè quello delle popolazioni dell’ex impero sovietico, la prospettiva cambia. L’Europa Orientale, cioè il terreno di espansione della Nato (insieme ai paesi dell’Asia Centrale che ospitano basi Usa), è un’area che ha vissuto per decenni una terribile oppressione a opera della Russia, basta prendere a esempio, tra i tanti possibili, proprio il caso dell’Ucraina. L’attuale regime russo è guidato da un erede diretto di questo sistema, l’ex agente del Kgb Putin, e l’intera dirigenza russa ha un’ascendenza analoga. La Russia è un paese profondamente autoritario, repressivo e reazionario, che da questo punto di vista non ha pari in Europa. In più, è uno stato fortemente retrogrado in termini economici e istituzionali, che non ha nulla da offrire ai paesi dall’area, come tra l’altro testimonia la mafia economico-politica che difende i suoi non irrilevanti interessi economici nell’area. A questo va aggiunto che lo stesso stato russo ha centinaia di testate nucleari puntate sui paesi dell’area. Insomma, anche senza la Nato, la Russia sarebbe accerchiata da paesi ostili ed è lo stesso Cremlino che ha creato le condizioni fondamentali che favoriscono l’espansionismo imperialista occidentale. Non è secondo noi un caso che in realtà la Russia abbia convissuto per lungo tempo senza problemi, e la sua borghesia abbia prosperato non poco, con una Nato che si faceva sempre più vicina alle sue porte, e arrivava addirittura ai suoi confini nei Paesi Baltici. L’accerchiamento della Nato, sviluppatosi per un paio di decenni, non la ha mai portata a reagire con i fatti, nemmeno sotto il “duro” Putin, mentre una mobilitazione popolare come quella di Maidan, che metteva invece sì in discussione la sua esistenza, la ha spinta a intervenire immediatamente, a cominciare dalla Crimea. La tesi dell’accerchiamento come motivo che ha spinto la Russia “a reagire”, non sta in piedi di fronte a un’analisi meno ideologica rispetto a quelle geopolitiche. E così come viene promossa, questo tipo di analisi costituisce anche un ostacolo a un’autentica lotta contro l’imperialismo della Nato e dell’Ue, perché è di impedimento a una solidarietà con i lavoratori dell’Europa Orientale, che la realtà dell’imperialismo russo la hanno vissuta a lungo, sono ancora oggi concretamente esposti alle sue minacce di ogni natura e, di conseguenza, giustamente non potranno mai essere solidali con una posizione così reticente e ideologica.
Fatta questa fondamentale premessa, torniamo all’attuale posizione delle potenze occidentali rispetto al conflitto ucraino. Come abbiamo già rilevato all’inizio di questo articolo, nelle recenti settimane di frenetiche trattative gli Usa sono rimasti fuori dalla scena. Nessun loro rappresentante ha preso parte agli incontri e Washington non ha nemmeno rilasciato dichiarazioni rilevanti riguardo a un eventuale processo di pace. Anche se gli Usa sono stati fin dall’inizio meno attivi dell’Ue nella gestione di questo conflitto, si tratta di una differenza notevole. E’ impossibile in questo momento dire se si tratta di una ancora maggiore delega all’Ue, più direttamente coinvolta fin dall’inizio della crisi, oppure se è il preludio a un cambiamento di rotta. Prima degli ultimi sviluppi il senato Usa aveva per la prima volta autorizzato il Presidente a fornire aiuti militari all’Ucraina, ma finora Obama, come già in precedenza, si è astenuto dal mettere in atto una tale opzione. E’ possibile che nell’amministrazione americana siano in atto discussioni sull’eventuale percorrimento di questa strada. Nel momento in cui scriviamo tra l’altro, Poroshenko ha dichiarato che ci sarà presto un incontro nel “formato di Ginevra”, cioè tra Ucraina, Russia, Ue e Usa. Le numerose stragi civili dell’ultima settimana potrebbero perseguire tra le altre cose proprio il fine di spingere Washington a un maggiore impegno diplomatico, visto che l’Ue rimane poco efficace. Bruxelles da parte sua ha investito molto negli ultimi negoziati, ma c’è stata un’evidente differenza di linea tra la Germania, meno possibilista, e la Francia, più conciliante verso la Russia. Sullo sfondo c’è la scadenza delle sanzioni contro Mosca, sul rinnovo delle quali sarà complesso trovare l’indispensabile unanimità: quelle adottate in occasione dell’annessione della Crimea scadono a marzo, le altre (più rilevanti) scadono a luglio. L’Ue e gli Usa sono comunque di sicuro consci del rischio che si sta prospettando nell’area: se l’Ucraina va in default e se la Russia precipita verso una crisi economica tale da minare le basi del suo stato il rischio è che si destabilizzi in modo caotico e incontrollabile l’intero “spazio ex sovietico”, con riflessi anche sul Medio Oriente e l’Asia. Per questo siamo convinti che cercheranno di fare il possibile per trovare una soluzione di compromesso senza perderci la faccia. A tale proposito va rilevato che recentemente, in occasione del forum di Davos, Merkel ha offerto a Putin la creazione di uno spazio commerciale comune tra Ue e Russia. Il suo vice Gabriel si è spinto più in là prospettando la creazione di un’area di libero scambio che comprenda l’Ue e l’Unione Eurasiatica e si estenda quindi “da Lisbona fino a Vladivostok”, utilizzando significativamente una formulazione coniata a suo tempo da Putin. L’opzione di una reciproca apertura dei mercati tra Ue e Unione Eurasiatica era già stata ipotizzata a settembre da funzionari di Bruxelles, subito dopo gli accordi di Minsk. Il fatto che un attore di primo piano della recente ondata di trattative sia stato proprio il presidente kazako Nazarbaev, e che il fatidico summit conclusivo, poi rimandato, avrebbe dovuto tenersi nella capitale kazaka Astana, è una testimonianza di come questa ipotesi venga realmente messa in gioco.
Arrivare a una pace sarebbe in realtà facilissimo. Basterebbe fare tacere i cannoni, ritirare tutte le forze militari e i mercenari, fare tornare i profughi, mandare in galera i criminali di guerra e gli affamatori del popolo, lasciando che gli abitanti del Donbass decidano in piena autonomia che futuro vogliono per sé. Il Donbass ha una classe operaia con una lunga tradizione di autorganizzazione e che si è tenuta totalmente al di fuori da questa guerra, a differenza dei capitalisti russi e della borghesia oligarchica locale (ivi compresi i capi dei separatisti, che sono per la maggior parte imprenditori proprietari di aziende): potrebbe essere la garante di una tale transizione. Si potrebbe anche smilitarizzare la Crimea, chiudere l’inutile base militare di Sebastopoli, che ha l’unica funzione di esercitare una minaccia contro i popoli dell’area, e fare tornare in Russia i suoi militari con il relativo ampio indotto di importazione, lasciando che gli abitanti della penisola decidano anche loro in modo autonomo e democratico il loro futuro. Naturalmente nella situazione attuale tutto questo appare solo come fantascienza. Ci sono interessi troppo grandi, e in possesso di armi troppo micidiali, per potere ipotizzare una soluzione del genere a breve termine. Ma l’unica soluzione per garantire una pace autentica e duratura è questa. Poiché i cannoni in questo momento lo impediscono, è necessario che trovino ogni spazio possibile le iniziative e le mobilitazioni che vanno in questo senso. I lavoratori del Donbass, nonostante la loro tragica situazione e a rischio della propria vita, hanno cercato di recente in più occasioni di mobilitarsi contro l’oppressione dei separatisti. Pretendere da loro che si prendano da soli carico di un tale compito, viste le stragi e il terrore di cui sono continuamente oggetto, sarebbe però troppo. In Ucraina sono in netto aumento le mobilitazioni contro le politiche di austerità del regime che, anche se per ora sono solo su temi sociali interni, minano oggettivamente le politiche guerrafondaie di Poroshenko e Yatsenyuk. Ci sono state questa estate anche piccole mobilitazioni di familiari delle reclute e molti ucraini cercano di sfuggire alla chiamata alle armi. In Russia ci sono coraggiose associazioni delle madri dei soldati che hanno denunciato l’intervento militare diretto di Mosca in Ucraina, ci sono state partecipate marce per la pace e con l’approfondirsi della crisi economica sono cominciate le prime piccole mobilitazioni dei lavoratori, che hanno però tutto il potenziale per crescere e minare il regime di Putin, cioè il motore primo di questa guerra. Ogni iniziativa che porti a un tacere dei cannoni avrebbe sicuramente un ruolo positivo in questo momento, perché darebbe più spazio a queste dialettiche. Nell’Europa Occidentale invece manca totalmente un movimento per la pace. La maggior parte della sinistra fa il tifo per gli imperialisti russi arrivando in alcuni casi addirittura a definirli “antifascisti”, un’altra parte spende tutte le proprie energie per trovare un’assurda equidistanza a priori tra le parti che le impedisce di definire le cose con il loro nome e la assolve dal difficile compito di analizzare e di lottare su basi concrete. Ciò non fa altro che rendere più difficile il compito di chi, sul terreno e a rischio della propria incolumità fisica, lotta per la pace e per l’emancipazione in assenza della necessaria solidarietà internazionale.
da https://crisiglobale.wordpress.com/