[Svizzera] Il cambio franco-euro, l’attacco padronale, la risposta operaia
Ciò che ci pare utile rimarcare è come l’articolo restituisca bene il senso di un attacco alla classe operaia che si materializza a valle negli stabilimenti industriali, ma che non parte necessariamente lì. Per questo, non per ragioni di carattere ideologico o astratto, è necessario che la risposta dei lavoratori non rimanga ristretta al perimetro aziendale: le politiche della banca centrale, così come quelle praticate dal governo, incidono in maniera pesante sulla vita e sulle condizioni di lavoro di tutte e tutti noi, lavoratrici e lavoratori.
La situazione che si presenta in Svizzera è da questo punto di vista esemplare e andrebbe riportata ai tanti che ogni volta che si apre una vertenza in una azienda sono sempre pronti a pronunciare la fatidica frase: “Sì, però teniamo la politica fuori da questa storia”…
Il 15 gennaio 2015 la Banca nazionale svizzera (BNS) ha deciso di abolire il tetto di 1.20 franchi svizzeri (CHF) per un euro. Dopo l’annuncio, il cambio si è stabilito a poco più di un franco per un euro (1.00 EUR = 1.05 CHF). La soglia minima di cambio (1.00 EUR = 1.20 CHF) era stata introdotta il 6 settembre 2011. In questo modo la BNS aveva ceduto alla pressione politica per difendere il settore d’esportazione e del turismo. Dal momento che, con la crisi nella zona euro, in poco tempo il cambio era diminuito drasticamente (da 1.55 CHF a 1.20 CHF l’euro). Per mantenere il cambio minimo, la BNS ha dovuto comprare massivamente euro. Ma con l’insicurezza in merito alla Grecia e l’annuncio del Quantitative Easing (QE) da parte della Banca centrale europea (BCE) – cioè il fatto di mettere a dispositione dei mercati 1140 miliardi di euro – l’unica possibilità per mantere il cambio minimo sarebbe stato l’ulteriore acquisto di euro. Non volendo mettere a rischio i bilanci, la BNS ha deciso l’abolizione della soglia minima di cambio. Ma la BNS ha potuto ricorrere a questa misura senza rischiare una svalutazione del franco solo grazie alla stabilità economica e politica del paese (ci si può immaginare cosa succederebbe in Grecia con l’abbandono dell’Euro e la reintroduzione della Dracma). In questo modo, il franco svizzero diventa ancor di più una “valuta di rifugio“. Il capitale che in tempi di crisi non può essere investito in maniera redditizia nel settore produttivo sarà depositato in “posti sicuri“.
Questo cambiamento ha portato conseguenze importanti per l’economia svizzera. Da un giorno all’altro, i costi della produzione per l’esportazione sono aumentati dal 10 al 20%. Per causa dell’alta specializzazione del settore dell’export ed i costi attuali relativamente bassi per le materie prime, l’elemento determinante per i prezzi dei prodotti svizzeri è il costo del lavoro, cioè i salari. Così i costi aggiuntivi vengono scaricati sulle operaie e sugli operai. La diminuzione dei salari (spesso molto più importanti per i frontalieri che per i “nazionali“), l’aumento del tempo di lavoro fino alle cinque ore settimanali e la reintroduzione del lavoro (gratuito) di sabato sono le prime misure introdotte.
Ma che cosa vogliono dire, nella vita concreta degli operai, questi cambiamenti? I contatti avuti con diversi operaie e operai ci danno un’immagine piuttosto difficile della situazione operaia attuale. L’operaio di una fabbrica che produce materiali sintetici nel canton Argovia ci ha spiegato che con l’aumento del tempo lavorativo di un’ora al giorno, per gli operai che fanno il turno serale/notturno, adesso il turno finisce dopo la mezzanotte. Così in futuro, chi non possiede macchina deve organizzarsi per rientrare a casa, perché a partire dalla mezzanotte non circolano più autobus.
In un’assemblea sindacale, gli operai dell’industria di imballaggio del cantone Basilea Campagna (che si trova alla frontiera con Germania e Francia) hanno spiegato che diverse imprese hanno iniziato a pagare i salari dei frontalieri in euro ad un cambio fisso di 1.10 CHF. In questo modo, gli operai perdono fino al 20% del loro salario. In più, alcune imprese hanno introdotto il lavoro ridotto (più o meno corrispondente alla cassa integrazione italiana), cosa che diminuisce considerevolmente il salario. Sopratutto per gli operai che pagano la cassa malattia in Svizzera (e perciò in franchi svizzeri) questo corrisponde ad un’esplosione dei costi per la salute.
Esistono invece anche esempi di vertenze che dimostrano che le decisioni padronali non seguono una logica economica naturale, ma che sono sempre il rapporto tra operai e capitale e l’intensità della lotte di classe che decidono in quale direzione si vada. Nel canton Ticino per esempio, fino ad oggi ci sono stati quattro scioperi importanti nel settore industriale che sono riusciti a respingere i piani delle imprese. Si tratta della SMB a Biasca [produzione di pezzi di metallo per rotaie e merci militari], della ferriera Cattaneo di Giubiasco, della Exten di Mendrisio [produzione di materiali di plastica] e della Koscon di Stabio [anche questa società è attiva nella lavorazione di materie plastiche]. Gli sviluppi di questi movimenti di sciopero possono esser descritti così: l’impresa annuncia l’aumento del tempo di lavoro o la diminuzione del salario (fino a 26% in meno per i frontalieri della Exten), sempre con l’argomento dell’aumento dei costi per causa del “franco forte“; le commissioni del personale rifiutano i piani imprenditoriali, la pressione dell’impresa aumenta attraverso annunci di licenziamenti di membri delle commissioni del personale e di operai combattivi; gli operai – sostenuti dai sindacati – indicono uno sciopero ad oltranza, fin quando l’impresa non accetta delle negoziazioni e ritira i peggioramenti delle condizioni di lavoro.
Anche nella Svizzera francese si delineano delle lotte operaie nel settore industriale. Alla Mecalp Technology SA di Ginevra per esempio, una filiale del gruppo francese Bontaz-Centre, attiva nella produzione d’acciaio automatico, la direzione aziendale aveva annunciato la diminuzione dei salari, cosa che la commissione del personale non aveva accettato e così, come nei casi ticinesi, la direzione aveva licenziato gli operai più resistenti. Solo uno sciopero di due giorni era riuscito a fare reintegrare i licenziati in fabbrica. Per quel che riguarda le negoziazioni sulla diminuzione dei salari, il sindacato rivendica una mediazione politica tramite la Camera delle relazioni collettive di lavoro (Chambre des relations collectives du travail – CRCT), ma per il momento non sono state trovate „soluzioni“.
Che cosa c’insegnano questi esempi per capire l’insieme della lotte di classe in Svizzera?
Sicuramente ci troviamo di fronte ad una nuova fase di scontro sociale. Alcuni giorni dopo l’abolizione della soglia minima di cambio franco-euro, il ministro dell’economia svizzera Johann Schneider-Ammann aveva proposto di “discutere rapidamente del tempo di lavoro, della flessibilità degli orari, dei salari, dei costi addizionali al lavoro e delle indennità“. I padroni non ne hanno solo discusso, ma hanno applicato rapidamente e con brutalità queste misure. Questo cambia la qualità del sistema di concertazione in un paese come la Svizzera, nel quale lo stato tradizionalmente influisce minimamente nella regolazione del rapporto operai-capitale. Il fatto che ora il governo proponga delle misure concrete per salvare la “piazza economica svizzera“ ci dà un’idea sulla gravità della situazione economica svizzera in particolare, ma anche europea in generale.
Per quel che riguarda le vertenze, a prima vista l’intensità dello scontro diverge in base alla regione geografica. Nella Svizzera tedesca non si è ancora assistito allo scoppio di vertenze. Le operaie e gli operai hanno – per il momento – accettato tutte le misure padronali. Un operaio dell’industria dell’imballaggio ci ha spiegato: “L’ottanta per cento degli operai sono immigrati dell’est senza esperienze sindacali o di lotte. Vivevano con un salario al di sotto della media svizzera e con la diminuzione del salario si possono trovare in ulteriori difficoltà. Con la mancanza di prospettive sindacali, il peggioramento delle condizioni di lavoro non si traduce in rabbia e in disponibilità a lottare, ma in paura. La situazione è chiara: Se perdiamo questo lavoro, sarà difficile ritrovarlo alle stesse condizioni.” Ma il fatto che in alcune fabbriche ticinesi e della Svizzera francese si siano verificati degli scioperi importanti non ci può ingannare sul fatto che anche la maggior parte degli operai ticinesi e della Svizzera francese non abbia adottato strumenti radicali per combattere le misure padronali. Il sindacato Unia Ticino per esempio ha contato più di trenta imprese industriali che hanno o diminuito i salari o imposto il lavoro gratuito a partire da metà gennaio. E si tratta solo di una piccola parte delle imprese, vale a dire quelle nelle quali esiste un minimo di legame tra sindacato e operai.
Infine, anche gli scioperi condotti dagli operai più disposti ad opporsi ai padroni sono sempre rimasti nel tracciato tipico del sindacato confederale. Il momento d’autonomia si è limitato al fatto di contrapporsi alle decisioni padronali. Ma subito è stato chiamato d’aiuto il sindacato che ha manovrato il conflitto nelle corsie di concertazione. Così gli scioperi hanno avuto durata solo fino al ritiro delle misure padronali. Trovato il patto con l’impresa, le operaie e gli operai sono ritornati al lavoro. In questo modo gli scioperi sono rimasti dei “fuochi di paglia“ e isolati, sottratti ad una visione più generale d’attacchi padronali verso la classe operaia. I sindacati non riescono a sbloccare questa debolezza, anzi, con la loro politica sindacale di salvaguardia della “piazza economica svizzera“, rafforzano e consolidano questa tendenza.