La natura dell’euro: “frenatore” della caduta del saggio di profitto

http://www.inventati.org/cortocircuito/wp-content/uploads/2015/07/EiR1.pngDa un articolo di Domenico Moro sull’euro, che cade a proposito oggi che si parla della situazione in Grecia.

3. La natura dell’euro: “frenatore” della caduta del saggio di profitto

Come appare evidente, l’Uem (Unione Economica e Monetaria) ha numerosi e strutturali difetti di costruzione, che non sfuggirono ai suoi padri fondatori, a partire da Romano Prodi. Dunque, perché l’euro è nato? E, soprattutto, perché ancora oggi viene difeso con tanta pervicacia? La ragione è che l’introduzione dell’euro è la modalità scelta dal capitale europeo per rispondere alla crisi generale del modo di produzione capitalistico. Più precisamente, l’euro è stato giudicato come lo strumento più efficace per contrastare la caduta del saggio di profitto, dopo che le politiche keynesiane si erano dimostrate fallimentari. Infatti, tra gli anni ’70 e ’80, le politiche espansive di bilancio, collegate all’estensione del welfare e all’intervento statale in economia, cominciarono ad avere effetti controproducenti per il capitale. Il saggio di profitto non solo non subiva incrementi ma veniva depresso ulteriormente. Infatti, mentre negli Usa la spesa pubblica consisteva in parte notevole in spese militari, che sostengono le grandi corporation militari-civili, in Europa la spesa pubblica era soprattutto di carattere sociale con la conseguenza di mitigare l’impatto delle ristrutturazioni industriali, che divennero molto frequenti tra gli anni ’70 e ‘80. L’aumento della protezione sociale consentiva di limitare la creazione dell’esercito industriale di riserva e il suo effetto di compressione verso il basso sui salari.
L’euro rappresenta un “facilitatore”, se non l’agente ideale, di quelle misure che il modo di produzione capitalistico da sempre mette in atto per rallentare la caduta del saggio di profitto nel tentativo di evitare il proprio crollo. Alcune di queste misure sono strettamente legate all’internazionalizzazione del capitale ed alla realizzazione del mercato mondiale.

La prima misura è lo sviluppo del commercio estero, che rappresenta la valvola di sfogo alla sovrapproduzione di merci, a sua volta una manifestazione della sovraccumulazione di capitale sotto forma di mezzi di produzione e potenza produttiva. Inoltre, il commercio estero permette di innalzare il saggio di profitto grazie alla possibilità di collocare le merci a prezzi più alti di quelli domestici, realizzando così margini maggiori. La seconda misura è l’esportazione di capitali, che permette di spostare gli investimenti da aree dove il livello di accumulazione è più alto e il saggio di profitto è più basso verso aree più periferiche dove il grado di sviluppo dell’accumulazione e i salari sono più bassi mentre il saggio di profitto è più alto.
L’integrazione valutaria europea è funzionale al perseguimento di entrambe tali soluzioni. In primo luogo, l’introduzione dell’euro facilita le esportazioni di merci, rimuovendo le barriere commerciali e i costi di transazione all’interno dell’area valutaria. In questo modo l’euro asseconda la tendenza neo-mercantilista che si è affermata in questi ultimi anni e che è caratterizzata proprio da una crescita economica basata sull’export. Il problema è che di tale tendenza ha beneficiato esclusivamente la Germania, con l’inclusione di qualche suo satellite come l’Austria. Del resto, una posizione neo-mercantilista pura è praticabile solo da pochi paesi, perché agli ampi surplus commerciali di pochi non possono che corrispondere i deficit di molti, determinando una situazione di squilibrio economico internazionale. Ciò è stato vero soprattutto fino al 2007, anno in cui la Germania registrò un surplus di 126,5 miliardi di euro mentre Portogallo, Grecia, Spagna e Francia avevano un debito commerciale rispettivamente di 16,3, 22,6, 48,2 e 52,3 miliardi. Dopo il 2007 il mercato Ue, a causa del crollo dei salari e dell’occupazione, ha perso parte del suo peso sugli attivi della Germania. Tuttavia, la Germania è riuscita a compensare il calo del surplus intra-Ue, aumentando il surplus commerciale extra-Ue, grazie alla sua capacità di usare l’Europa come retroterra industriale per la conquista dei mercati mondiali. Infatti, mentre il surplus intra-Ue tra 2007 e 2012 cala da 126,5 miliardi a 44 miliardi, quello extra-Ue cresce dai 67,6 miliardi di euro del 2007 ai 138 miliardi del 2012 . C’è però da considerare, secondo alcuni analisti, che l’importanza dell’interscambio intra-UE per la Germania sia maggiore di quanto possa apparire dalle statistiche ufficiali. Infatti, parte dell’import intra-Ue della Germania è in realtà rappresentato da riesportazioni di merci da parte dell’Olanda (che mostra surplus con l’estero effettivamente eccessivi) e del Belgio di merci di provenienza extra-Ue, che transitano attraverso i porti di Rotterdam, Amsterdam e Anversa. Se spostassimo Olanda e Belgio fuori della Ue, nel 2013 la Germania ridurrebbe il surplus extra-Ue da 155 a 87 miliardi e aumenterebbe quello intra-Ue da 44 a 112 miliardi di euro .
Ma, soprattutto la realizzazione di un’area valutaria comune è funzionale all’esportazione di capitale ed all’integrazione fra i capitali di varia provenienza, favorendo le privatizzazioni e liberalizzando la circolazione dei capitali. Si tratta di un aspetto che si collega alla forma transnazionale che le grandi imprese stanno assumendo da alcuni decenni. Le grandi imprese non si limitano ad investire a livello multinazionale, anche i capitali che investono sono di provenienza multinazionale. Inoltre, il vantaggio offerto dall’introduzione dell’euro non si limita agli investimenti in impianti produttivi ma si estende anche agli investimenti di portafoglio, cioè agli investimenti puramente finanziari, in obbligazioni, titoli, ecc.

L’esistenza di una valuta comune alla seconda area economica mondiale dopo gli Usa consente al mercato finanziario mondiale di disporre di una valuta di riserva e di scambio alternativa al dollaro, in modo da regolare gli investimenti speculativi in funzione delle opportunità di guadagno offerte dalle variazioni dei cambi e dei tassi d’interesse. La stretta disciplina di bilancio è coerente con il mantenimento del valore dell’euro al di sopra di quello del dollaro, in modo da difenderne il ruolo di valuta mondiale e attirare i capitali internazionali, con particolare riferimento a quello che era il vecchio mercato degli euro-dollari, nato e sviluppatosi in Europa a partire dagli anni ’70-80, grazie ai profitti non rimpatriati prima delle multinazionali degli Usa e successivamente anche europee.
La ragione principale della nascita dell’euro è, però, da individuare nel fatto che l’esistenza di una unione valutaria è lo strumento migliore per costringere i paesi europei alla realizzazione di quelle “riforme strutturali” ritenute necessarie dal capitale per contrastare in modo diretto la caduta del saggio di profitto. Tra queste “riforme strutturali” al primo posto ci sono quelle del mercato del lavoro, del welfare e delle pensioni, la cui realizzazione è ripetuta come un mantra da Bce e Commissione europea, oltre che ovviamente dalle organizzazioni imprenditoriali. Infatti, per il capitale, i mezzi migliori per contrastare la caduta del saggio di profitto sono: a) creare un ampio esercito industriale di riserva, cioè una massa di disoccupati e precari da attrarre e respingere dalla produzione a seconda dell’andamento del ciclo economico e b) aumentare la quota del profitto sul valore prodotto riducendo la quota che va al salario.

Ciò significa ridurre il costo del lavoro, riducendone tutte le sue componenti: diretta (il netto in busta paga), indiretta (i servizi sociali pubblici) e differita (pensioni). Del resto, il modello imposto attraverso l’euro è quello tedesco: la deflazione salariale che si sostituisce all’inflazione come leva competitiva. Non scordiamo che in Germania la realizzazione della riforma Hartz ha determinato il calo dei salari in rapporto a quelli degli altri paesi europei, contribuendo, insieme all’euro, ad aumentare la competitività della manifattura di quel Paese. L’euro, a causa dei suoi meccanismi di funzionamento e delle misure di austerity, funziona come una pressa gigante che comprime il salario medio in tutte le sue dimensioni, riducendone la capacità reale di acquisto tendenzialmente verso livelli di pura sussistenza, e creando nuovamente un esercito industriale di riserva permanente come non avveniva dalla fine del XIX secolo.
La pressione dell’euro non viene, però, esercitata solo sulla classe dei salariati, ma anche sui settori intermedi e piccolo borghesi della società e all’interno del capitale industriale e commerciale stesso, favorendo l’eliminazione delle imprese più deboli e non monopolistiche. L’euro è, in definitiva, il mezzo più efficace per la ristrutturazione coatta della produzione e della società nel suo complesso, a favore del settore apicale del capitale, quello finanziario (inteso come integrazione di capitale industriale e bancario) e transnazionale. I vincoli posti dai trattati europei sono il mezzo per bypassare la resistenza dei movimenti operai nazionali e la vischiosità rappresentata dai vari parlamenti. Gli esecutivi, composti da quella stessa élite politica che partecipa alla definizione dei trattati europei, prevalgono sui parlamenti e impongono le cosiddette “riforme strutturali” a tutta la società con il <<ce lo chiede l’Europa>> e lo spauracchio dello spread e del default. In questo modo, la rappresentatività democratica e la credibilità dei parlamenti, già compromessa da leggi elettorali maggioritarie e dalla trasformazione dei partiti di massa in comitati elettorali, si riduce ai minimi termini. Si tratta della attuazione di una strategia che ha radici antiche. L’unificazione europea era individuata già nel 1975 dalla Commissione Trilaterale, una delle organizzazioni più importanti del capitale transnazionale, come lo strumento più efficace per eliminare l’”eccesso di democrazia” dei Paesi occidentali e superare i vincoli posti dagli Stati nazionali allo sviluppo delle politiche neoliberiste .
Le conseguenze dell’introduzione dell’euro sono devastanti per le classi subalterne e per l’Europa nel suo complesso. L’euro porta all’impoverimento di massa e all’incremento dei divari sia all’interno dei singoli Paesi europei sia tra i Paesi che ne fanno parte. L’Europa, al suo interno, è oggi più divergente di dieci anni fa sul piano del Pil e del reddito pro capite e la sua economia è sempre meno stabile. L’euro è un assurdo sul piano economico generale ma, dal punto di vista del capitale, non è affatto privo di logica. Se non si capisce questo suo aspetto di duplicità è difficile rendersi pienamente conto del perché le élite capitalistiche europee (non solo quelle tedesche e per certi versi specialmente quelle non tedesche) continuino a difendere, seppure con accenti diversi, l’esistenza della Uem.

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