Ikea on Strike: lettera aperta di un cassiere part-time
tratto da http://www.communianet.org
Sabato 11 luglio 2015 i 6.000 dipendenti dei 21 punti vendita IKEA in Italia hanno tenuto il primo sciopero nazionale dopo 25 anni di presenza del colosso svedese nel nostro Paese.
Lo sciopero giunge come conseguenza inevitabile dopo l’annuncio dell’azienda di voler azzerare il contratto integrativo, in mancanza di un nuovo accordo con i sindacati confederali entro il 1 settembre di quest’anno.
L’accordo sul contratto integrativo nazionale proposto dalla multinazionale svedese prevede un pesante taglio alle maggiorazioni domenicali e festive, un ulteriore incremento della flessibilità delle lavoratrici e dei lavoratori e l’azzeramento del premio aziendale fisso.
Sono un dipendente IKEA con contratto part time verticale, contratto che prevede 8 ore di lavoro il sabato ed otto ore di lavoro la domenica, i giorni con maggior flusso di clienti presso i 21 “store” duffusi sul territorio nazionale, a fronte di uno stipendio netto di poco inferiore ai 700 euro mensili.
Fino a qualche settimana fa lavorare in IKEA significava lavorare con ritmi decisamente intensi, mantenendo sempre un elevato livello di professionalità, con pause da un’ora ed una da un quarto d’ora (cronometrate dai responsabili di reparto), manifestando, nel lavoro quotidiano, una certa adesione ai “valori” IKEA e potendo però contare su un ambiente di lavoro sereno e su relazioni con l’azienda basate sulla correttezza e sul giusto riconoscimento dell’impegno profuso in favore del costante incremento delle vendite e della fidelizzazione della clientela.
Oggi invece ci ritroviamo di fronte all’aggressione pesante ai nostri redditi, ad una azienda ricca ed arrogante che vorrebbe disporre dei nostri tempi di vita a proprio piacimento, regolando i turni unicamente sul “flusso” di clienti, ad un clima aziendale e di relazione con i capireparto basato sulle minacce, non tanto velate, di conseguenze per chi si “contrappone” alle esigenze della multinazionale ed, infine, ai tentativi subdoli e meschini, da parte dei manager, di rappresentare i dipendenti come degli egoisti abituati a condizioni di privilegio rispetto ai colleghi che lavorano in negozi aperti più recentemente e, soprattutto, rispetto a ciò cui è stato ridotto il mercato del lavoro in Italia.
E invece siamo convinti delle nostre ragioni.
Ne siamo convinti perché l’attacco al reddito dei dipendenti è assolutamente ingiustificato, a fronte di un fatturato in costante crescita e ad una sempre maggiore ed evidente monopolizzazione del mercato dell’arredamento.
L’amministratore delegato tenta di spiegare la necessità di togliere i soldi dalle tasche dei dipendenti con il calo degli utili; per noi è evidente, il calo dei profitti è determinato dai cospicui investimenti che la multinazionale sta effettuando per un piano di espansione che prevede l’apertura di altri 10 negozi in Italia nei prossimi anni, non dal calo degli incassi, che anzi sono aumentati, nel 2014, del 3% rispetto all’anno precedente.
Sappiamo bene, (l’80% di noi ha contratti part time, e molti di noi devono integrare il reddito con altri lavori), che esistono situazioni peggiori della nostra. Per chi lavora da Mc’Donald le maggiorazioni domenicali sono al 10%, nel negozio in cui lavoro io la maggiorazione è al 70%, rispetto ad una paga oraria netta di poco meno di 8 euro.
Sappiamo bene che l’azienda ha saputo usare al meglio il ricatto della mancanza di lavoro, riuscendo ad applicare nei negozi di recente apertura maggiorazioni più basse, 30% a Catania, Pisa, Pescara ed ottenendo dai sindacati la possibilità di andare in deroga agli accordi nazionali garantendosi la possibilità di assumere la totalità dei dipendenti di questi nuovi negozi a tempo determinato.
Ma i piani di espansione non vanno fatti pagare ai lavoratori. Non possiamo concedere alla multinazionale svedese di approfittare del clima generale di crisi perrealizzare un meccanismo in cui, per massimizzare i profitti, si riduce brutalmente il reddito di chi lavora.
I sindacati confederali avvertono la rabbia dei dipendenti, sanno che non siamo disposti a cedere un euro in favore del quinto uomo più ricco del pianeta, e quindi speriamo che siano pronti a farsi carico di questa nostra determinazione, non accettando accordi al ribasso.
La posizione dei lavoratori è chiara, netta, evidente: la multinazionale non conosce crisi, i fatturati sono in costante crescita, le maggiorazioni domenicali e festive dei 21 store italiani vanno livellate verso l’alto, non verso il basso, prevedendo una maggiorazione al 70% per tutti, in tutta Italia.
Non saremo noi ad “investire”, nostro malgrado, nell’espansione in Italia.
In queste settimane di agitazione, durante gli scioperi locali e durante lo sciopero nazionale, molti clienti ci hanno manifestato la loro solidarietà, decidendo di non spendere durante gli scioperi (l’azienda riesce a tenere aperti i punti vendita richiamando i capireparto dalle ferie, assumendo lavoratori tramite le agenzie interinali, potendo contare sul lavoro sotto ricatto dei colleghi a tempo determinato) e intasando il profilo facebook del colosso svedese con centinaia di commenti sdegnati per il comportamento deprecabile della multinazionale nei confronti dei suoi stessi dipendenti.
Abbiamo ricevuto la solidarietà dei lavoratori della FIOM dell’Ansaldo di Genova, dei colleghi di Auchan, Trony e di molti altri ancora.
Siamo stati capaci di far chiudere il negozio di Napoli durante lo sciopero, di bloccare l’accesso al negozio di Padova, di ottenere altissime percentuali di adesione agli scioperi in un comparto, quello del commercio, in cui è solitamente complicato mobilitare i lavoratori.
La rabbia è tanta, una azienda ricca ed arrogante vuole massimizzare i profitti ed aumentare la capacità di vendita sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori; la trattativa sarà lunga e complicata, il conflitto sarà ancora più duro. Non sarà facile restare uniti, l’azienda è stata abile nel differenziare le condizioni di lavoro sul territorio nazionale, anche nella stessa città, e sarà abile nel dividere, minacciare, incutere timore. Ma siamo determinati a non cedere.
In fin dei conti il nostro principale ha un patrimonio personale di 45 miliardi di euro, grazie al lavoro nostro e dei fornitori e grazie ai soldi di milioni di clienti solo in Italia, l’espansione se la pagherà da solo. E’ un super ricco, noi no.
16 luglio 2015