Crisi sistemica globale. Perché non c’è happy end
Di Claudio Conti
Dai e dai, anche la Cina non regge più il peso della crisi globale. E tutte le aree si ritrovano nuovamente alle prese con una crisi che inutilmente si era cercato di mettere sotto un tappeto fatto di liquidità a tasso zero e generosissima.
Ma ben pochi si interrogano seriamente – ovvero scientificamente, senza concedere nulla agli interessi del committente – sulle dinamiche macro del capitalismo contemporaneo. La maggior parte degli economisti più noti si limita a ripetere la giaculatoria preferita della scuola di appartenenza per “stimolare la crescita”; e quindi i neoliberisti predicano tagli alla spesa pubblica e abbassamento dei salari (meglio ancora: lavoro non retribuito, all’Expo milanese come nello staff di Hillary Clinton), in modo da aumentare la redditività del capitale investito, dunque i profitti; mentre i keynesiani – una bistratta minoranza, ormai – cantano come le virtù della spesa pubblica in deficit capace, fino a 40 anni fa, di agire come “moltiplicatore” dei consumi e degli investimenti.
Ridotta all’osso, è l’antica contrapposizione ideologica – di vera teoria, in campo borghese, è difficile parlare; al massimo un po’ di econometria applicata, quasi sempre ad hoc – tra chi crede nella politica dell’offerta (abbassare i prezzi per unità di prodotto) e chi, all’opposto, confida nella politica della domanda (se c’è più reddito disponibile a livello di massa, cresce la domanda di merci di consumo, dunque le imprese hanno un mercato solvibile più ampio).
Sono entrambe risposte che non tengono conto della nuova gerarchia di poteri creata dalla finanziarizzazione dell’economia negli ultimi trenta annni. Quindi sono risposte sbagliate, al di là delle buone intenzioni keynesiane o della protervia rapinatrice dei liberisti. Le risposte scientifiche sbagliate, oltre alla pressione irresistibile dei gruppi di interesse più potenti, generano risposte politiche altrettanto sbagliate.
Schematizzando molto, oggi al vertice della gerarchia siedono gli intermediatori di capitale, ovvero le grandi banche d’affari e le altre forme assunte dal capitale finanziario. Persino chi ha capitali propri – investitori “istituzionali” e rispamiatori, grandi o piccoli che siano – sono ormai in seconda posizione, ridotti a fornitori della “materia prima” da intermediare. In ultima fascia, subito prima dei lavoratori dipendenti o fintamente “autonomi”, si collocano i debitori, ovvero singoli privati, imprese e Stati nazionali.
Cosa significa? Che una vera politica keynesiana, in deficit spending, è diventata impossibile. Gli Stati, infatti, sono costretti a rivolgersi al mercato per ottenere i capitali necessari a sopravvivere e/o investire; e hanno da tempo raggiunto il limite entro cui la spremitura della tassazione su cittadini e imprese diventa un fattore di crisi. Né possono sottrarsi al potere degli intermediatori, che possono in ogni momento decidere di erogare o ritirare il capitale da quei territori, agendo fra l’altro sul fattore intimidatorio dei rating.
Ma è impossibile anche una vera politica liberista, che si traduce in queste condizioni in una strategia da tossicodipendenti. La situazione di crisi, infatti, è il risultato del prevalere delle loro “ricette” nel corso degli ultimi 35 anni. E non sanno proporre altro che una maggiore dose della stessa droga: liquidità a go go per gli intermediatori finanziari e austerità depressiva per l’economia reale.
La crisi sistemica del capitalismo contemporaneo richiederebbe un salto di paradigma teorico. Ma proprio il prevalere del neoliberismo, e la contemporanea riduzione al silenzio operativo del keynesimo, hanno bruciato la possibilità di fare questo salto.
Centra obliquamente il punto Lucrezia Reichlin, in un editoriale sul Corriere della Sera, che chiude significativamente in questo modo:
In una situazione di questo tipo dovrebbe essere prioritario affrontare i grandi temi della crescita, capire gli effetti dell’innovazione sulla distribuzione del reddito, pensare a politiche innovative, appropriate alle grandi trasformazioni dell’economia globale. È successo negli anni Trenta. Dopo la crisi del 2008, invece, l’iniziativa è stata lasciata quasi esclusivamente alle Banche centrali. La loro azione ha certamente evitato il peggio, ma ora non basta più. In assenza di politiche economiche di altro tipo non è difficile prevedere che i Paesi ricorreranno ad una guerra del cambio e a politiche protezionistiche. D’altro canto queste ultime sono sempre più presenti nei programmi elettorali di partiti politici di ogni colore e, per ragioni comprensibili, raccolgono crescenti consensi da parte dei cittadini sia in Europa che negli Usa.
Mai come oggi ci sarebbe bisogno di una rinascita politica e intellettuale che sappia affrontare i grandi temi, nazionali e globali, con una risposta adeguata, combattendo la frammentazione delle nostre società.
Mai come oggi quella rinascita politica e intellettuale è sentita come un pericolo da tutta la nuova gerarchia dei poteri. Non c’è una sola università del pianeta – tranne forse quelle cinesi e alcune sudamericane – che non abbia eliminato gli insegnamenti critici del capitalismo contemporaneo. Per capirci: il sapere critico è quello che stimola studenti e ricercatori a dubitare delle convinzioni stabilizzate, tradizionalmente insegnate nei corsi universitari stessi. Non solo Marx, insomma; ma il sano esercizio del dubbio sistematico, scettico, nei confronti di un modello affermato ma, come tutto, destinato a mutare forma fino a morire.
Detto altrimenti: scienza e politica sono state espulse dai luoghi centrali della decisione, a favore della tecnica amministrativa, in obbedienza al dogma della centralità dei mercati. Ora che i mercati non trovano la quadra sulla base di interessi incompatibili, si scopre che non c’è più un livello di idee e competenze in grado, come minimo, di cogliere la complessità dei problemi e quindi suggerire soluzioni efficaci.
L’intreccio indissolubile tra interessi strutturati che non accettano di scomparire, movimenti sociali ancora troppo deboli sul piano dimensionale e soprattutto privi di una forte conoscenza delle dinamiche oggettive del capitale, rende l’attuale procedere della crisi assolutamente incontrollabile. Ogni singola proposta, anche se proveniente da premi Nobel o da Stati ultrapotenti, cade dunque in un marasma che la vanifica un attimo dopo esser stata pronunciata. Ogni mossa all’interno di una grande area monetaria continentale – Usa, Cina, Unione Europea – provoca feedback negativi e simmetrici che riportano la situazione al punto di partenza.
Dal 2008 ad oggi sono stati sperimentate decine di “misure non convenzionali”, soprattutto sul piano monetario – come giustamente ricorda la Reichlin -, che hanno offerto fiato di breve durata, non soluzioni durature. Soluzioni, comunque, che hanno reso più imperative e aggressive le politiche imperialiste. Mettendo così in moto processi sociali incontrollabili che ora si presentano sotto forma di gigantesche ondate migratorie ai confini dei “mondo civilizzato”. Metafora in carne e ossa e intelligenza dei problemi irrisolti che hai provocato e ora ti tornano addosso.
È un’impressione che diventa più forte col passare dei mesi. Siamo entrati da una settimana nel nono anno di crisi globale – a far data dall’esplosione della bolla dei mutui subprime – e quindi siamo già oltre qualsiasi record precedente. L’impressione, sia detto sottovoce, è che crisi sistemica stavolta significhi quel che le parole dicono. Che, dunque, stavolta non ci sia happy end a chiudere in gloria l’ennesimo filmone hollywoodiano.