Il governo Renzi fa fondere le imprese

Il Governo Renzi si conferma, anche e in particolare dopo l’attestato di “solidarietà” dei 209 padroni nostrani, il governo della grande borghesia, quindi delle grandi imprese, delle grandi banche, insomma: dei maggiori interessi consolidati del Belpaese. Non stupisce che, vista la recente stoccata contro il capitalismo di relazione italiota, il suo governo stia cercando in tutti i modi di incentivare la fusione tra le aziende italiane: da una parte questo è utile così da ridurre il numero delle micro e piccole imprese (il 90% del totale), da un’altra si facilita la gestione del capitale, concentrandolo e centralizzandolo in apparati più adeguati per la competizione internazionale. Ci voleva, come spesso accade, il Financial Times per trovare due righe sul tema (sui media italiani hanno prevalso infatti le solite lagne del “paese che non ce la fa”, degli “stranieri che comprano il nostro made in Italy”). La realtà, come vedete qui sotto, lascia spazio a molte meno chiacchiere: infatti gli investimenti diretti esteri, notizia di ieri, sono aumentati dopo l’approvazione del Jobs Act e ciò conferma il fatto che Renzi rappresenta gli interessi di una classe, la borghesia, la quale prima di investire per massimizzare il profitto chiede le proprie “garanzie”. Fortuna che questi personaggi amano parlare del proprio “rischio di impresa”…

(qui un pezzo interessante sull’acquisizione della Pirelli).

Aggiornamento 31 agosto: sembra che FCA voglia fondersi con General Motors

R. Sanderson e A. Massoudi, Financial Times, Regno Unito (traduzione a cura di Internazionale)

Il valore delle fusioni e delle acquisizioni che coinvolgono le aziende italiane ha raggiunto la cifra più alta dal 2007. Secondo il Financial Times è merito delle riforme volute dal premier

Complimenti a Federico Marchetti e al team di @yoox. Tanto di cappello, bravissimi. E in bocca al lupo” (infatti hanno appena licenziato nel bolognese, Ndr), ha twittato a marzo il primo ministro Matteo Renzi quando il sito di e-commerce italiano ha annunciato la fusione con la britannica Net-A-Porter. Renzi non solo ha dato al paese una relativa stabilità politica e riforme economiche, ma ha anche fatto il tifo per le ambiziose operazioni delle imprese italiane. E il suo sostegno ha funzionato: da gennaio il valore delle acquisizioni e delle fusioni che hanno riguardato aziende italiane è di 59 miliardi di dollari contro i 37 dell’intero 2014. Secondo alcuni consulenti, a facilitare queste attività ha contribuito lo stile di governo di Renzi, oltre alle successioni in alcune dinastie industriali e al prezzo relativamente basso dei titoli di stato. Quest’ottimismo, inoltre, si è fatto sentire anche sul mercato azionario.

Nelle ultime settimane la Exor, la società d’investimento della famiglia Agnelli, è diventata l’azionista di maggioranza nel gruppo Economist e ha acquisito la società di riassicurazione statunitense PartnerRe per 6,9 miliardi di dollari. Anche altre aziende italiane hanno messo le mani sulle loro concorrenti estere. A luglio la Lavazza ha raggiunto un accordo per rilevare il marchio francese Carte Noire al prezzo di 800 milioni di euro, mentre a giugno la Ferrero aveva speso 112 milioni di sterline per acquisire l’industria cioccolatiera britannica Thorntons: la prima mossa del gruppo italiano dopo la morte del suo patriarca Michele Ferrero, che aveva sempre evitato operazioni simili.

Renzi, intanto, ha promesso di promuovere gli investimenti esteri in Italia. E la Cina è già in testa alla corsa. La ChemChina ha acquistato la Pirelli per sette miliardi di euro, segnando l’apice di un periodo frentico in cui le aziende cinesi hanno comprato quote consistenti di diverse imprese italiane, da quelle specializzate in infrastrutture alle case di moda.

Tra le altre acquisizioni estere è da citare l’operazione della tedesca HeidelbergCement, che ha rilevato il 45 per cento della Italcementi nell’ambito di una transazione da 1,7 miliardi di euro che si concluderà l’anno prossimo. Carlo Pesenti, consigliere delegato dell’azienda, ha detto che all’interno di un gruppo più grande la Italcementi si rafforzerà.

Inversione di tendenza

“Se si esaminano le acquisizioni effettuate in Italia, si nota che riguardano aziende che hanno una forte presenza internazionale”, osserva Camillo Greco della società finanziaria JPMorgan Chase. Andrea Bonomi, fondatore e presidente della società d’investimento Investindustrial, afferma che molte imprese italiane hanno perso competitività durante la crisi dell’euro. “Così, mentre si stavano trasformando in aziende leader nei loro settori, improvvisamente gli è mancato il terreno sotto i piedi”. Quell’esperienza, spiega Guido Corbetta, dell’università Bocconi, ha spinto le aziende più forti a fare acquisizioni, mentre le altre hanno capito che avrebbero ottenuto profitti maggiori all’interno di gruppi più grandi.

Per le piccole e medie imprese a gestione familiare in cerca di una terza via tra le acquisizioni o le fusioni e la quotazione in borsa, le operazioni di collocamento privato sono sempre più interessanti. Di recente la Illycaffè ha emesso bond per 70 milioni di euro nell’ambito di un’operazione di questo tipo sottoscritta dal Pricoa Capital Group, con l’opzione di incrementare la cifra fino a 140 milioni. Come altri imprenditori, Andrea Illy, presidente e amministratore delegato dell’impresa di famiglia, deplora il fatto che le società italiane acquisite siano più numerose di quelle che effettuano acquisizioni: “Ci auguriamo che ci sia un’inversione di tendenza. Oggi due terzi delle operazioni di compravendita che avvengono in Italia consistono nell’acquisizione di imprese italiane. Sarebbe meglio se il rapporto fosse paritario”.

Le riforme del settore bancario attuate dal governo hanno stimolato la ricerca di accordi nel settore del credito cooperativo, con una parte crescente dei trecento miliardi di euro di obbligazioni ad alto rischio assorbita da investitori stranieri. Alcuni investitori sperano che lo stato riesca a raggiungere il pareggio di bilancio ricorrendo alla Cassa depositi e prestiti (Cdp), che possiede asset per 400 miliardi di euro e un fondo di private equity. A giugno Renzi ha nominato presidente della Cdp Claudio Costamagna, ex dirigente della banca d’affari Goldman Sachs. La decisione è stata interpretata co- me un segnale della volontà di rendere lo stato più attivo nelle operazioni di fusione e acquisizione in settori strategici. Ma con l’Italia che mostra segni di ripresa ancora deboli, ha un debito pubblico pari al 132 per cento del pil e un disavanzo vicino al 3 per cento, lo stato ha un potere limitato.

All’orizzonte ci sono comunque nuovi settori e attività. Ad agosto lo stato italiano ha venduto sei immobili a Milano nell’ambito di un accordo con il fondo statunitense Varde e con l’impresa locale Borio Mangiarotti. Pur ammontando a solo 150 milioni di euro, l’operazione è il primo passo importante delle transazioni che interesseranno il patrimonio immobiliare dello stato per un valore di due miliardi di euro. “Il mercato immobiliare italiano è piccolo. Dobbiamo ampliarlo”, dice Giovanni Paviera, direttore del settore immobili della Cdp. “Per farlo, dobbiamo attirare gli investitori stranieri”.

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