Arabia Saudita: il petrolio come arma di pressione

 

Come avevamo scritto anche noi in un precedente articolo (qui) la ferma volontà dei Saud – nella ormai “famosa” riunione OPEC del Novembre 2014 – di lasciare invariata la quantità di petrolio estratto pur in presenza di un basso prezzo al barile doveva essere letta come un attacco del maggior produttore mondiale ai nuovi concorrenti, Stati Uniti in primis, che ne sfidavano l’egemonia. Questo prezioso articolo di Francesca La Bella contribuisce a rafforzare un’ipotesi che avanzavamo quando ancora non erano molti a farlo. Buona lettura.

di Francesca La Bella

Roma, 23 settembre 2015, Nena News- Da novembre dello scorso anno i mercati mondiali hanno assistito ad un calo continuo del prezzo del petrolio. Questo processo ha come causa principale una strategia di aumento della produzione, fuori dai normali schemi di mercato in questo settore. Di fronte ad un calo della domanda, per mantenere il prezzo ad una soglia sostenibile per produttori, l’offerta dovrebbe ricalibrarsi, bloccando momentaneamente l’estrazione. In questo caso, però, i Paesi appartenenti all’OPEC e, in particolare, l’Arabia Saudita, hanno scelto di attuare una diversa strategia che, sfruttando le grandi riserve e i minori costi di estrazione, tende a mantenere bassi i prezzi di vendita indebolendo i produttori, per lo più non OPEC, che, con minori margini di guadagno, rischiano di uscire dal mercato.

Secondo molti analisti economici, l’obiettivo di questa politica sarebbe lo Shale Oil statunitense. Il petrolio estratto attraverso il metodo del fracking, processo di frammentazione delle rocce che permetterebbe di estrarre petrolio anche in mancanza di pressione dei pozzi e di esaurimento apparente degli stessi, sarebbe molto competitivo sul mercato. Si stima, infatti, che questo nuovo metodo avrebbe permesso agli Stati Uniti, in condizioni di normale bilanciamento di domanda e offerta, di aumentare esponenzialmente la propria produzione diventando il primo concorrente dei Paesi OPEC e, nel breve periodo, il principale produttore mondiale di petrolio.

Le notizie di questi ultimi giorni, secondo le quali il prezzo del petrolio sarebbe in leggera ripresa dopo la frenata della produzione statunitense, sembrano sostenere questa teoria. Le stime di vari organi di monitoraggio mondiali affermano che il prezzo del petrolio a 40 dollari al barile avrebbe un impatto significativo sulle capacità di vendita dello Shale Oil la cui produzione, a causa degli alti costi, risulterebbe insostenibile. A tal proposito analisti di Goldman Sachs avrebbero evidenziato un calo della produzione statunitense tra il secondo e il quarto trimestre 2015 di oltre 250.000 barili al giorno a causa del blocco delle trivellazioni aggiungendo che 1.500 miliardi di dollari di investimenti pianificati per la produzione, non risultando convenienti agli attuali prezzi, sarebbero stati momentaneamente congelati.

Le politiche di saturazione del mercato attraverso un eccesso di offerta da parte dell’Arabia Saudita non sembrano, però, aver avuto effetto solo sull’economia statunitense. Si stima, infatti, che tutti i maggiori produttori mondiali siano stati penalizzati da queste scelte. Se il vice Ministro dell’Energia russo Alexei Teksler ha affermato che, sotto la soglia di 40 dollari al barile, la produzione nazionale potrebbe assistere ad un declino difficile da arrestare e la Cina aumenta le riserve strategiche di greggio per cercare di frenare il calo dei prezzi, nei Paesi OPEC la situazione non è migliore. Secondo un’analisi del Wall Street Journal, per pareggiare il bilancio del 2015, Algeria ed Iran avrebbero bisogno di un rialzo del prezzo al barile fino a 130 dollari, Qatar e Kuwait, rispettivamente a 65 e 54 dollari mentre la stessa Arabia Saudita avrebbe bisogno di vendere petrolio a 90 dollari al barile.

Ancor più evidenti sono, infine, gli effetti sull’economia irachena. Il Financial Times riferisce di una lettera inviata a diverse compagnie internazionali tra cui Exxon Mobil, Royal Dutch Shell, BP e l’italiana Eni, con la quale il Governo iracheno annuncia la riduzione degli investimenti nazionali negli impianti nel sud per il prossimo anno a causa della situazione interna del Paese e del declino dei prezzi del petrolio. Parallelamente, in un contesto politico e sociale caratterizzato da forte frammentazione, sia il Governo Regionale Kurdo Iracheno (KRG) nel nord sia le autorità locali della provincia meridionale di Bassora starebbero cercando di rendersi indipendenti dal Governo Centrale nella vendita del greggio. Se per quanto riguarda il KRG questo processo è già in atto da molto tempo e, nonostante la diffida di Baghdad, il petrolio curdo lascia il Paese in direzione Turchia attraverso l’oleodotto Kirkuk-Cehyan, l’amministrazione locale in carica a Bassora, avrebbe formalmente richiesto maggiore autonomia di vendita per sostenere l’economia della provincia, fortemente debilitata dalla guerra in atto.

Analizzando questo panorama in maniera complessiva, risulta chiaro come le ricadute delle scelte saudite siano politiche oltre che economiche. In Paesi dove l’estrazione e la vendita di minerali fossili contribuisce in maniera sostanziale, ed a volte esclusiva, al mantenimento dell’economia interna, il declino dei prezzi del greggio può avere effetti che trascendono dall’ambito economico. Se valutiamo, in questo senso, la situazione della stessa Arabia Saudita, questo processo diventa evidente nelle sue diverse sfaccettature. Gli effetti del calo dei prezzi sui mercati esteri non è stato immediato e la monarchia saudita ha dovuto far fronte, anch’essa, agli effetti negativi di questo processo. Se dal punto di vista dell’economia interna questo ha significato l’avvio di un programma di diversificazione delle forme produttive con l’apertura alle fonti rinnovabili, la necessità di nuovi introiti ha indotto ad agevolare l’ingresso di capitali esteri nel mercato interno. Parallelamente si è assistito all’impiego delle riserve estere per limitare l’aumento della tassazione e la cancellazione dei sussidi a sostegno al consumo. Tagli indiscriminati allo stato sociale avrebbero, infatti, potuto portare la popolazione a chiedere, per migliorare i conti del Regno, ad un ritiro dal conflitto contro lo Yemen che molto sta costando alle casse di Ryad.

Infine merita sottolineare come, dopo la firma dell’accordo sul nucleare, grande timore di un rilancio dell’economia iraniana si è diffuso nei mercati mondiali e l’Arabia Saudita, principale concorrente dell’Iran nell’area, potrebbe aver utilizzato il suo ruolo nell’OPEC anche per limitare l’ascesa del vicino. Una crescita delle capacità economiche di Teheran, rischierebbe di renderne più incisiva l’azione nelle dinamiche mediorientali con la conseguente perdita di influenza saudita nei tanti contesti bellici e non in cui il Regno è, formalmente e informalmente, impegnato.

 da http://nena-news.it/

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