Né religiosa, né nazionale: la nostra “identità” è l’umanità

Articolo di Camille Boudjak, militante di iniziativa Communiste-Ouvrière, tradotto da Fabienne Michèle Melmi, che ringraziamo.

“Né religiosa, né nazionale, la nostra identità è l’umanità” è uno slogan regolarmente affermato dagli operai-comunisti, sia in Europa che in Medio Oriente.

 In Francia, questo slogan è innanzitutto destinato a rispondere alle campagne reazionarie del governo sull’ “identità nazionale” così come ai deliri sciovinisti, razzisti e xenofobi dell’estrema destra. Ma, al di là del contesto di tale o tale regione del mondo, si tratta in questo modo di rifiutare ogni nazionalismo e le pretese “identità nazionali.”

Notiamo innanzitutto che non si tratta, per noi, per riprendere le parole di un lettore, di un difetto quello di essere “nato da qualche parte e di non averne vergogna”, ma sembra che ci sia una confusione tra ciò che può essere l’attaccamento ad un luogo in cui si è cresciuti, dalle ninnananne che potevano cantarci le nostre nonne nelle lingue che talvolta non parliamo, ai paesaggi o a delle musiche che possono ricordarci la nostra infanzia o la nostra gioventù ed il nazionalismo. Questo sentimento di attaccamento ad un luogo carico di ricordi può esistere per un villaggio, è l’attaccamento a ciò che si chiama “Heimat” in tedesco, parola che non si può tradurre in francese, può essere anche per una città HLM (NdT: case popolare). Quando una municipalità decide di distruggere delle torri HLM, molti guardano questa distruzione con nostalgia perché sono le torri dove sono cresciuti, dove hanno vissuto le loro prime storie d’amore, ecc. Questo stesso sentimento può esistere per le lingue, le musiche, i piatti, le feste … Del resto questo sentimento è spesso più legato al posto in cui uno è cresciuto, dove ci sono ricordi, più che al posto in cui uno è nato. Può trattarsi anche di diversi luoghi, talvolta distanti centinaia o migliaia di chilometri, come il quartiere in cui si è cresciuti ed il paese in cui si sono trascorse le vacanze estive in famiglia. Talvolta, si può anche avere il sentimento di ritrovare una “Heimat” in un luogo in cui non si è mai stati, ma di cui si è sentito molto parlare . Qui siamo nel campo dei sentimenti umani che i comunisti non devono giudicare.

Questo sentimento non ha niente a che vedere col nazionalismo. La “Heimat” non è una nazione, divisa da frontiere da dover essere difesa da un esercito. E spesso sono le canzoni che trattano delle sofferenze dell’esilio e dell’immigrazione che lo esprimono meglio. La canzone “« Où est-il donc ? » non parla di frontiere nazionali, ma chiedendo “Dove è il mio mulino della Galette, il mio tabacco ed il mio caffè dell’angolo…”, non è neanche la nostalgia di Parigi che viene cantata, ma quella di una Parigi popolare, proprio quella che si lasciava sognando di una vita migliore oltre-atlantico. Meglio ancora, “Di grine Kuzine” , che canta in yiddish le speranze deluse dell’immigrazione, potrebbe esprimere i sentimenti malinconici di ogni immigrato, di ogni esiliato, sia che abbia lasciato il suo Stethl in Polonia, il suo paese in Algeria, le sue montagne nel Nord del Kurdistan o il suo villaggio in Mali. E allo stesso modo, non ne dispiaccia ai difensori del comunitarismo francese, non c’è niente di più logico, quando si è sfuggiti alla tortura, la guerra o la miseria, di cercare di raggrupparsi con delle persone che parlano la stesso lingua e/o che condividono la stessa esperienza, e questo ancora di più se questa esperienza è segnata dalla sofferenza.E, naturalmente, non è un difetto non vergognarsi di questo sentimento. Al contrario, diciamo che il rifiuto del nazionalismo si accompagna anche da ciò che sarebbe, non internazionalismo, ma una sorta di “nazionalismo al contrario” o “pre-nazionalismo” che possiamo trovare allo stato più radicale in questa frazione dell’ estrema sinistra tedesca che si vuole “anti-deutsche”. Per descrivere brevemente questa corrente, il loro rifiuto del nazionalismo tedesco si è trasformato in ciò che è diventato un nazionalismo anti tedesco, per finire, tramite elaborazioni storico-teoriche piuttosto confuse, sostenendo le avventure militari di Stati come Israele e gli Stati Uniti. Che questa corrente esista principalmente in Germania, non è sorprendente, si tratta in realtà di una forma politica radicalizzata del “senso di colpa collettiva della Germania”, che era l’ideologia della borghesia tedesca per diluire la sua responsabilità nell’instaurazione del regime nazista (se “tutti sono colpevoli” nessuno lo è realmente), ignorare una resistenza antifascista tedesca essenzialmente comunista (più di un milione di tedeschi furono internati nei campi di concentramento tra il 1933 e il 1939) e anche della borghesia degli altri paesi, allo stesso tempo negare la loro complicità attiva (gli ebrei di Francia sono stati braccati ed arrestati dalla polizia francese, sia in zona occupata che libera) o passiva (politica xenofoba delle quote negli Stati Uniti che nel 1939 ha rimandato 900 rifugiati ebrei verso i campi del regime nazista, le espulsioni di profughi ebrei dalla Svizzera, ecc.) nel genocidio, e di minimizzare a posteriori i loro crimini di guerra (bombardamenti di Dresda, Hiroshima, ecc) .. Al nazionalismo tedesco che, come ogni nazionalismo, glorifica la storia della Germania, gli anti-deutsche rispondono con l’immagine invertita di questa storia, negando in un caso come nell’altro la lotta di classe. In breve, per noi comunisti, non è un “difetto” essere nato da qualche parte, da qualsiasi parte, non c’è da averne nessuna vergogna, e diciamolo chiaramente per rispondere ad alcuni sinistroidi che confondono popoli e Stati, questo vale anche per coloro che sono nati negli Stati Uniti o in Israele.

Ma se non c’è nulla di cui vergognarsi ad essere nato da qualche parte, non c’è nessun orgoglio da guadagnarne. Possiamo essere orgogliosi di ciò che facciamo, ma in nessun momento interveniamo nella scelta del nostro luogo di nascita.

Immagine quartiere di Kreuzberg a Berlino

Ritorniamo sul nostro rifiuto di identità nazionale e l’affermazione della nostra identità umana. In primo luogo, il nostro rifiuto del nazionalismo non può essere equiparato al “giacobinismo”, ossia una forma di nazionalismo francese. Sulla questione della lingua, per esempio, i nostri compagni iraniani affermano nel loro programma: “Divieto di ogni forma di lingua ufficiale obbligatoria. Lo Stato può designare una delle lingue più comuni nel paese come lingua principale dell’amministrazione e dell’educazione, pur garantendo che i locutori e locutrici di altre lingue possono godere dei mezzi necessari alla vita politica, sociale ed educativa e che tutti possono usare la propria lingua madre in tutte le attività sociali e godere di tutte le possibilità pubbliche. “Questa rivendicazione supera quella dei regionalisti, perché riguarda anche gli immigrati. In un paese come la Francia, sarebbe giusto che delle lingue come l’arabo, il portoghese o il turco possano essere utilizzate in “tutte le attività sociali” per “godere di tutte le opportunità pubbliche”. L’Initiative Communiste-Ouvrière è un piccolo gruppo, ma anche al nostro livello, abbiamo già utilizzato nei nostri interventi del materiale in arabo per esempio. E per quanto riguarda la storia del movimento operaio comunista in Francia, possiamo solo rimpiangere che non vi sia oggi un equivalente della MOI (Manodopera immigrata organizzata nell’ambito della CGT -U), che, negli anni 1920-1930, organizzava i lavoratori immigrati in diversi gruppi di lingue (armena, yiddish, spagnola, italiana, ecc) .. Siamo quindi molto lontani dalle concezioni giacobine dello Stato francese e della difesa di una identità francese.

E come ci sono oggi i difensori di una “identità regionale”, vale a dire una identità nazionale ancora più ristretta di quella degli Stati esistenti, ricordiamo che è diventato di moda, in Alsazia, Bretagna o Occitania, mettere i nomi delle strade, città o villaggi, in modo bilingue, in francese e nella lingua regionale. La metropolitana di Tolosa indica perfino le prossime stazioni in francese e in provenzale. E tuttavia, per rimanere sull’esempio di Tolosa, vi sono in questa città molte più persone che sono di madrelingua araba o spagnola, che gente di lingua occitana. Tuttavia, da nessuna parte in Francia, a nostra conoscenza, troviamo indicazioni ufficiali in una lingua di immigrazione. Notiamo che in Germania per esempio, in un quartiere come quello di Kreuzberg a Berlino, in cui vivono molte persone di lingua turca, dei cartelloni come “tenete i cani al guinzaglio” sono sia in tedesco che in turco o le macchinette automatiche per acquistare i biglietti della metropolitana o del treno cosi come molti sportelli automatici possono essere utilizzati in turco. Ne siamo ancora molto lontani in Francia!

Dalle sue origini, l’umanità non ha mai smesso di muoversi. Alla fine siamo tutti e tutte dei discendenti di questi primi ominidi, che adottando per la prima volta la posizione eretta sulle pianure dell’attuale Etiopia, hanno creato il genere umano, in breve, siamo tutti e tutte, ed anche Guéant e Le Pen, di origine etiope. A parte questa lontana origine comune, torniamo rapidamente su questa divisione arbitraria con la quale ci scocciano i tenenti dello scontro delle civiltà, gli oppositori dell’ integrazione della Turchia all’Europa ed altri reazionari. Il Mediterraneo, secondo loro, sarebbe una sorta di confine naturale invalicabile tra ” Occidente civilizzato” e “Oriente barbaro”. Notiamo che, a sud di questo mare, gli islamisti dicono la stessa cosa rifiutando “l’occidentalizzazione” per “difendere le tradizioni islamiche.” Eppure, lungi dall’essere un confine tra due mondi, il Mediterraneo è sempre stata al contrario una fonte di scambio e di mescolanza.

Questa divisione del mondo, secondo dei confini artificiali creati, come il Bosforo e gli Urali in Europa, non hanno alcun significato per quanto riguarda la storia dell’umanità. Per coloro che sostengono che ci sarebbe una “civiltà europea” a difendere dall ‘”islamizzazione”, possiamo già semplicemente ricordare che in Europa, diversi Stati sono di “tradizioni” in gran parte musulmane, come l’Albania, il Kosovo o una gran parte della Bosnia-Erzegovina, così come certe repubbliche della Federazione russa, come la Cecenia, l’Inguscezia, il Daghestan, l’Adygea o il Tatarstan.

Rovine romane a Efes (Turchia)

E se vogliamo parlare dei “millenni” di storia europea, allora la Grecia antica non si è fermata al Bosforo, l’impero di Alessandro il Grande si è esteso fino a Babilonia (attuale Iraq) e Persepolis ( attuale Iran), l’Impero Romano faceva il giro del bacino del Mediterraneo, mentre il nord e l’est dell’Europa erano considerati come una “zona barbara”. La Spagna arabo-musulmana ha lasciato dei capolavori di architettura come la moschea di Cordoba e la Jota spagnola conserva una pronuncia simile alla Hamza araba, mentre Budapest deve i suoi bagni alla conquista ottomana. Anche in francese, troviamo, secondo i linguisti, centinaia di parole di origine araba, e nemmeno cinquanta parole provenienti dal gallico. Non possiamo dimenticare l’isola di Malta, la cui lingua si scrive certamente in caratteri latini, ma è molto vicina all’arabo dialettale tunisino . E come in una santa alleanza xenofoba “contro l’Islamizzazione” troviamo fianco a fianco persone che sostengono dei valori di laicità ed altre che valorizzano “le radici cristiane dell’Europa”, forse dobbiamo ricordare da dove viene questa religione? Nata da una scissione del giudaismo, religione che ha già preso molti aspetti del Zoroastrismo persiano e delle mitologie mesopotamiche ,il cristianesimo è un’esportazione dalla Palestina, che è così tanto europeo che convertirà l’Etiopia prima dei Franchi, per non parlare degli slavi. A questi esempi andrebbero aggiunti i contributi scientifici (ad esempio l’ algebra), la filosofia greca conservata dal mondo arabo prima di tornare in Europa o il commercio tra le due sponde del Mediterraneo.

Moschea di Cordoba (Spagna)

Dai tempi più antichi fino ai giorni nostri, tutta la storia del Sud Europa, del Medio Oriente e del Nord Africa è collegata. Se gli xenofobi europei tra i meno ignoranti riconoscono una parte di questi legami, subito dopo aggiungono che non valgono niente perché provengono da guerre di conquista. Hanno semplicemente percorso in diagonale la storia della loro cara Europa? L’arrivo del latino in Gallia è una conseguenza della conquista romana, il nome della Francia deriva da un’invasione barbarica oltre Reno, la storia comune della Francia e dell’Inghilterra condivide cento anni di guerra, guerre di religione tra cattolici e protestanti hanno causato molti più morti in Europa che le Crociate, in quanto al 20 ° secolo, è stato in Europa segnato da due guerre mondiali prima che il continente fosse diviso da una cortina di ferro tra Oriente e Occidente.

Simpaticamente, i regionalisti occitani affermano che “l’Occitania non è il sud dell’Europa , ma il nord del Mediterraneo.” Anche se questa affermazione può risultare simpatica, perché significa un rifiuto dei nazionalismi francesi ed europei, e in particolare il rifiuto del razzismo anti-arabo, non è meno assurda. Certo, l’Occitania (vale a dire circa la metà del sud della Francia) è il nord del Mediterraneo, ma anche l’Europa meridionale, così come il Maghreb è sia nel Nord Africa e nel sud del Mediterraneo, o New York è sia l’est dell’America e l’ovest dell’Atlantico. Nel respingere il confine arbitrario rappresentato dal Mediterraneo, questi regionalisti creano un altro confine altrettanto arbitrario. Come ogni regione del mondo, l’Occitania si è arricchita con gli apporti non solo dal Sud, ma anche di altrove. Dal 1173, il rabbino spagnolo Benjamin de Tudèle descriveva l’Occitania come un luogo di commercio in cui vengono “cristiani e saraceni, arabi , mercanti lombardi, visitatori della Grande Roma, da tutte le parti d’Egitto, la terra di Israele, Grecia, Gallia, Spagna, Inghilterra, Genova e Pisa, e dove si parlano tutte le lingue. ‘

E se, già nell’antichità, fare dal Mediterraneo al Bosforo una barriera insormontabile per l’uomo era assurdo, che pensare di una tale visione del mondo oggi, quando i mezzi di trasporto e di comunicazione moderni hanno già in gran parte unificato il mondo? E’ lontano e superato da tempo il tempo in cui ogni villaggio, se non ogni famiglia, viveva in una quasi-autarchia, in cui l’unica apertura verso il mondo esterno era il mercato settimanale in città. Già nel 1848, Marx ed Engels sottolineavano nel “Manifesto del Partito Comunista”"Sfruttando il mercato mondiale, la borghesia da un carattere cosmopolita alla produzione ed alla consumazione in tutti i paesi. Per la grande disperazione dei reazionari, ha tolto all’industria la sua base nazionale. Le vecchie industrie nazionali sono state distrutte e lo sono ancora ogni giorno. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civilizzate, industrie che non adoperano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti da regioni più remote, e di cui i prodotti vengono consumati, non solo nel paese ma in ogni parte del mondo. Al posto del vecchio isolamento delle province e delle nazioni autosufficienti, si sviluppano delle relazioni universali, un’interdipendenza universale delle nazioni. E ciò che è vero per la produzione materiale lo è anche per le produzioni dello spirito. Le opere intellettuali di una nazione diventano la proprietà comune di tutti. La ristrettezza e l’esclusivismo nazionali diventano sempre più impossibili e dalla molteplicità delle letterature nazionali e locali nasce una letteratura universale. »

Ciò che è notevole rileggendo “Il Manifesto”, è che, scritto nel 1848, molti passaggi sembrano descrivere la realtà di questo inizio di ventunesimo secolo. Del resto i libri di Karl Marx sono un buono esempio : tradotti in tutte le lingue, sarebbe difficile fare del pensiero marxista un pensiero tedesco, Marx appartiene al movimento operaio internazionale, tanto agli operai di Colonia che a quelli di Karachi, di Londra, di Chicago, di Bombay o di Algeri. E’ la stessa cosa vale per tutti i grandi nomi del movimento operaio, Rosa Lussemburgo, Lenin, Trotsky, gli autori anarchici come Bakounine o Malatesta, ecc.

Manifestazione del 1 maggio in pakistan

Al di là della letteratura politica, si potrà sempre trovare degli aspetti nazionali alla poesia di Pouchkine o di Maïakovski, di Brecht o di Nazim Hikmet, le loro poesie ci toccano al di là delle frontiere per il loro aspetto universale. Taslima Nasreen lo esprime molto bene dicendo che c’è una Anna Karénine in ogni donna. Si noterà che tra le opere che attraversano il tempo, da Tristano e Isotta ad Anna Karénine, passando per Roméo e Giulietta, è proprio il lato universale del sentimento dell’innamoramento e dei suoi tormenti che ci permette, ovunque viviamo ed ovunque siamo cresciuti, di identificarci in questi personaggi. Non c’è bisogno di conoscere i paesaggi del Kirghizstan, per condividere con Tchinguiz Aïtmatov l’amore di Djamilia. E come classificare “nazionalmente” Panaït Istrati, uno dei migliori autori francofoni del XXesimo secolo nato in Romania da un padre contrabbandiere greco, che, per avere amato la terra, non poteva rivendicarsi di nessuna nazione?

Quando Brecht mette meravigliosamente in scena il romanzo La Madre di Gorki, siamo nella cultura tedesca o nella cultura russa? Dove classificare un romanzo come Le rondini di Kaboul di Yasmina Kadra? Letteratura araba o francese, quando un autore algerino scrive in francese le sofferenze delle donne afgane? Le opere di Orwell, descrivendo meglio di chiunque La dèche a Parigi e la Catalogna Libera, possono limitarsi alla cultura britannica?Se Marx ed Engels, ovviamente, parlano solo della letteratura, oggi, si dovrebbe aggiungere, il cinema, la musica e finalmente tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana. Prendiamo per esempio l’aspetto culinario, secondo un sondaggio SOFRES del 2011, il 19% dei francesi citano il cuscus come il loro piatto preferito. È solo un esempio, ma ciascuno può constatare a che punto, anche solo a livello di alimentazione, la sua cultura è diventata mondiale. Del resto, anche le cozze-patatine fritte, tipicamente cht’i, (NdT del Nord della Francia) non potrebbero esistere senza la patata, prodotto di esportazione sudamericana che è arrivata in Europa solo nel sedicesimo secolo. Per non parlare della pasta ed altre pizze italiane, del caffè che consumiamo ogni mattina, o della frutta, come le arance e le banane…Prendiamo la musica, e citiamo il filosofo Jean-Philippe Smet, più conosciuto sotto il nome di Johnny Hallyday, che diceva “tutta la musica che amo, viene da lì, viene dal blues”. Ed infatti, da più di 60 anni, un immensa parte dalla musica proviene da questi ritmi dei discendenti degli schiavi neri dell’America. Tutti i rami e sotto-rami del rock provengono da questa base. I ragazzini e le ragazzine del Cantal si eccitano ascoltando del Raï mentre a Tehran si danza su del rap, musica nata nei quartieri neri americani… Anche la “musette”, musica considerata come tipicamente francese, non sarebbe niente senza il valzer austriaco o il tango argentino. E la “varietà francese” che ha cullato la nostra infanzia ci faceva condividere le sofferenze della ” straniera” che “ha conservato una cartolina / Dal suo villaggio del Portogallo” con Linda de Suza, viaggiare “Sulla strada di Memphis” con Edith Mitchell, immaginarsi una sorella che si chiamava “Sara” e che ” si sposerebbe forse un giorno a Varsavia” con Jean-Jacques Goldmann, ed amare “L’Aziza” con Daniel Balavoine, “Aïcha” con Khaled e “Yasmina” con La Souris Déglinguée. E ciò, senza parlare di tutte le star ed i gruppi degli Stati Uniti, di Gran Bretagna o della Germania che hanno fatto danzare, sognare, cantare o piangere delle generazioni di francesi , trascinandoli nella Londra in fiamme, volando via con “99 Luftballons” o tremando di paura con “Thriller”. Dal jazz manouche ai ritmi jamaïcani dell’Oï!, non ci sono molte musiche che oggi non mischiano le influenze di tre o quattro continenti. Quando Fairouz canta “Ya ana, Ya ana” sull’aria della 40esima sinfonia di Mozart, si tratta di cultura araba o europea? Austriaca o libanese? Quando la stessa cantante lancia “Kanou habibi” sull’aria di Plaine, ma plaine, la musica viene dai monti del Libano o dalle steppe russe? Quando Bernard Lavilliers canta Les mains d’or, la chitarra ricorda dei ritmi sudamericani, e se canta la disoccupazione ed i licenziamenti della siderurgia lorena, le stesse parole potrebbero descrivere la città di Detroit oggi o la chiusura del cantiere navale a Gdansk.

E in questa cultura popolare, non possiamo dimenticare di menzionare il cinema. Una rediffusione di un film di Louis di Funès fa morire dal ridere gli abitanti di Mosca, una ragazzina americana sogna di essere un’imperatrice d’ Austria che piange la sua Baviera natale lungo il Danubio, mentre a Rabat la gente si precipita per vedere l’ultimo successo di Boolywood , e che i bambini della Creuse immaginano di esplorare il Far West. Neanche il più sciovinista dei nazionalisti francesi potrebbe negare che la sua cultura comporta necessariamente dei film americani e dei cartoni animati giapponesi. Se tra i successi recenti in Francia, si conta “Bienvenue chez les Cht’is “, si trovano anche dei film americani (Titanic), inglesi, (Harry Potter), o della nuova-zelanda, (Il signore degli anelli). Per non parlare delle serie televisive che hanno fatto entrare delle città come Dallas, ed il suo universo spietato, o Springfield nel nostro quotidiano. Aggiungiamo anche che molte opere cinematografiche, al di là del paese in cui sono girate, sono già delle miscele di diversi apporti culturali. Wall Disney ha divulgato e ha mondializzato Biancaneve ed i sette nani e altri racconti provenienti dai fratelli Grimm. Il film di animazione Persépolis, anche se realizzato in Francia, è anche una produzione iraniana. E, nel patrimonio culturale di molti comunisti, ovunque vivano nel mondo, rischiamo di trovare dei film di Ken Loach, senza dimenticare ovviamente i capolavori di Einsenstein.Così, mentre i reazionari lanciano delle campagne sull’identità nazionale o che ci rompono con delle fesserie sullo “shock delle civilizzazioni”, le identità nazionali sono già di fatto abolite, siamo già in una cultura che è mondiale e non conosce più frontiere.

Corteo degli operai di PSA Aulnay

E questo è anche più vero per ciò che riguarda la nostra classe sociale, la classe operaia. Se nelle fabbriche, sui cantieri, nelle imprese ed i quartieri popolari dell’Occitania possiamo ancora sentire delle parole in occitano, e nel Nord in cht’i, a Lilles come a Tolosa, possiamo sentire anche il portoghese, l’arabo, il turco, delle lingue creole delle Antille e della Guadalupa, il serbo-croato, l’albanese o il cinese. Poco tempo fa ancora, in Francia, si parlava italiano sui cantieri, spagnolo nelle fabbriche del Sud-ovest, polacco nelle miniere del Nord e della Lorena e yiddish nei quartieri operai di Parigi. È una caratteristica della nostra classe attraversare i mari e le frontiere per vendere la nostra forza lavoro. Se la nozione di “popolo francese” cara ai nostri nazionalisti è in effetti una mescolanza di latini coi galli, incrociati con dei popoli germanici, normanni, mauri e inglesi, questa nozione è ancora più assurda per la classe operaia. Malgrado il martellamento sciovinista e xenofobo, notiamo del resto che tale lavoratore che, forse, vota FN alle elezioni politiche, non esiterà a designare un compagno algerino come delegato. E, durante le lotte, non verrebbe in mente a nessuno di chiedere la nazionalità o il titolo di soggiorno dei compagni eletti al comitato di sciopero. Qualunque siano le nostre origini del resto, condividiamo nelle nostre fabbriche, i nostri quartieri, i nostri sindacati ed altri gruppi militanti le sofferenze, le angosce e le speranze di colleghi, di amici, di compagni, riguardo ai loro amici e le loro famiglie in Algeria, in ex-Iugoslavia, in Iran o in Tunisia.

Al di là dell’ibridazione della nostra classe, si nota che avendo generalizzato lo sfruttamento capitalista in scala planetaria, la borghesia ha generalizzato anche il proletariato. Nei paesi dove, cinquant’ anni fa, la maggioranza della popolazione era contadina, come in Cina, in India o in Brasile, sono spuntate delle immense concentrazioni industriali, con dei milioni di proletari. Con, certo, dei contesti diversi dovuti alle storie locali della lotta di classe, questa classe operaia mondiale condivide al tempo stesso l’esperienza dello stesso tipo di sfruttamento, ma anche di forme di lotta similari. Lo sciopero è, per esempio, l’arma classica dei lavoratori contro i padroni, sia in Pakistan, nel Mali, in Cile, nel Canada, in Francia, in Cina o nello Yemen. Nati fuori da ogni elaborazione teorica, i soviets, consigli operai apparsi all’epoca della rivoluzione russa del 1905, si vedono riapparire sotto il nome di Shorras nelle fabbriche dell’Iran nel 1978-1979 poi nel 1991 all’epoca dell’insurrezione del Kurdistan dell’Iraq. Dalla bandiera rossa che sventola durante gli scioperi e le rivolte operaie su tutti i continenti a L’internazionale cantata in tutte le lingue, passando per la giornata del 1 Maggio, questa lotta, comune, della classe operaia di tutti i paesi ha creato anche una cultura operaia di lotta comune. Senza neanche parlare la lingua, un operaio comunista francese rischia di sentirsi più a casa in mezzo alle bandiere rosse ed ai lavoratori in sciopero che cantano l’internazionale in una città industriale dell’India o del Cile che in una cena di grandi borghesi a Neuilly-sur-Seine.

Costituzione di Shorras (soviets) nel Kurdistan, 1991 

Fenomeno storico, le nazioni e le ideologie nazionaliste sono apparse con lo sviluppo del capitalismo. Affinché ci fosse un mercato unificato, la borghesia ha dovuto rompere le vecchie divisioni feudali, unificare i pesi e le misure. Ma nel momento stesso in cui la borghesia formava delle nazioni, partiva per colonizzare dei continenti interi per controllare le materie prime e lanciava delle guerre contro le borghesie concorrenti per controllare i mercati in Europa. Fin dal 1914, il capitalismo era già un sistema mondiale, il nazionalismo restava necessario alla borghesia per fare aderire, in nome della patria, i proletari ai piani guerrieri dei capitalisti. Nei periodi di crisi, questo nazionalismo viene inasprito, cercando di fare credere che l’operaio ed il padrone nazionali avrebbero un interesse comune, e trovando nello ” straniero” un capro espiatorio. Si arriva a questo paradosso, con un mercato ed una produzione mondiali, il capitalismo ha già creato una cultura mondiale, ma le differenti borghesie mantengono i loro egoismi nazionali ed i pregiudizi sciovinisti. L’Europa, micro-continente, ne è la prova vivente, esiste come mercato, ma nessuna delle principali borghesie non è pronta a lasciare i suoi interessi nazionali per andare più velocemente verso la creazione dei veri Stati Uniti dell’Europa. In questo inizio di ventunesimo secolo, le nazioni sono già condannate , non hanno esistenza che per le frontiere e gli apparati di stato, ed il nazionalismo non è altro che l’appello all’odio contro degli esseri umani considerati come “stranieri.” La nazione, oggi, è solo una barriera contro gli esseri umani. La campagna sciovinista su “l’identità nazionale” del governo francese non ha in niente avvantaggiato il panino alle “rillettes” contro il kebab, ma rinforzato la caccia ai lavoratori illegali e gli appelli all’odio razzisti e xenofobi. Le frontiere, non rappresentando già più niente per la produzione tanto materiale quanto intellettuale, sono ancora una realtà terribile, sinonimo di sbirraglia, di repressione, di vite spezzate e spesso di morte, per milioni e milioni di proletari che cercano una vita migliore. Le nazioni e le frontiere, all’ora in cui i ragazzini del più piccolo villaggio di Corrèze si eccitano ascoltando del Raï o del rap, mentre gli ultimi successi di Bollywood appassionano le folle a Tangeri, che si può in alcune ore andare da Oslo ad Algeri, che con un clic del mouse si può chiacchierare tra australiani ed argentini, è solo questo il viso orrendo oggi dei politici che danno la caccia alle lavoratrici ed ai lavoratori che hanno osato commettere il “crimine” di non avere il documento giusto, e domani, perché non, contro quelle e quelli che saranno considerati “stranieri.”

confine tra il Messico e gli Stati uniti, assurdità del mondo borghese

Per quanto ci riguarda, non condanniamo la mondializzazione, ma il capitalismo. Del resto non si fa mai girare indietro la ruota della storia. Se le differenti culture sono una ricchezza, lo sono ancora di più quando vivono e si mischiano. Dobbiamo insistere del resto che i peggiori nemici, il più grande pericolo, per la cultura di un paese o di una regione , non sono la mondializzazione o l’ibridazione, ma le politiche nazionaliste che cercano di chiudere le culture nel quadro stretto dello sciovinismo. In Germania, sono i nazisti che hanno bruciato le più belle opere della letteratura tedesca, che si trattasse di Erich Maria Remarque, di Stefan Zweig, di Brecht o di Carl von Ossietzky. Contro l’esplosione artistica creatrice che è spuntata nella Russia rivoluzionaria del 1917, la reazione nazionalista della controrivoluzione stalinista ha imposto i cannoni senza sapore del “realismo socialista”. Nel Magreb e nel Medio Oriente, in nome delle “tradizioni islamiche”, numerosi partiti e milizie islamiche tentano di vietare la danza orientale o le poesie di Abou Nouwâs. Siccome l’affermava Trotsky in “Per un’arte rivoluzionario indipendente, “per la creazione intellettuale lei [la rivoluzione] deve fin dall’inizio stabilire ed assicurare un regime anarchico di libertà individuale. Nessuna autorità, nessuna costrizione, nemmeno la minima traccia di comandamento! “. Ogni reclusione della cultura e delle arti in nome di un “arte ufficiale”, della “difesa identitaria della cultura nazionale”, può solo significare la morte della creazione culturale. Le creazioni culturali hanno molto più da temere della ristrettezza del nazionalismo che della ricchezza del cosmopolitismo.

Il nazionalismo contro la cultura: autodafé nazista a Berlino (1933) 

Il nazionalismo contro la cultura: autodafé nazista a Berlino (1933) Ben lontano dallo spingere all’uniformazione, questa mondializzazione, questo cosmopolitismo della cultura, apre a ciascuno di noi degli spazi infiniti di scelta e di diversità. Nel passato, all’epoca delle piccole nazioni striminzite e ripiegate su se stesse, l’individuo aveva solo poche scelte culturali. La mondializzazione, malgrado tutte le barriere imposte dal capitalismo, permette di vedere fin da ora che molte delle tradizioni ed oppressioni millenarie non sono naturali. Le rivolte delle donne, in Medio Oriente ed in Africa per esempio, contro le atroci tradizioni misogine come i matrimoni forzati, i crimini “d’onore” o le mutilazioni genitali, sono rinforzate dal fatto che queste donne sanno che al di là dei mari altre donne sono riuscite ad ottenere un’uguaglianza almeno formale.

Già oggi, nonostante tutti i limiti imposti dall’ordine capitalista, siamo in una cultura mondiale, e l’identità stessa del più sciovinista dei nazionalisti francesi non è già più nazionale, se non altro per la musica, la cucina ed il cinema, anche il più sciovinista dei nazionalisti francesi ha già una cultura un po’ americana, un po’ araba, un po’ italiana, un po’ africana, (e se per di più è cattolico tradizionalista noi gli ricorderemo, per il piacere, che la sua religione è una scissione del giudaismo importata dalla Palestina.)

Già adesso, lontano dal campanilismo delle piccole nazioni striminzite, possiamo scegliere in un’immensa tavolozza di musiche, di piatti, di letterature, di film, di poesie che ci arrivano dai quattro angoli del mondo,. Possiamo già festeggiare al tempo stesso Natale, Novrouz, il Nuovo Anno cinese, l’Aïd e/o Roch Hachana, e numerose famiglie in Francia celebrano già parecchie di queste feste. Natale perché è la tradizione in Francia, Roch Hachana perché la mamma è di cultura ebraica e l’Aïd perché il papà è di cultura musulmana per esempio… In un mondo liberato dalle frontiere e dalle nazioni, liberato anche dal capitalismo e dalla sottomissione al mercato, lontano da una uniformazione, potremmo allora accedere ancora di più a tutte le ricchezze della diversità culturale umana. Nel Manifesto del Partito Comunista, Marx ed Engels scrivevano: “Le demarcazioni nazionali e gli antagonismi tra i popoli spariscono già sempre di più con lo sviluppo della borghesia, la libertà del commercio, il mercato mondiale, l’uniformità della produzione industriale e le condizioni di esistenza che provocano. Il proletariato al potere li farà sparire ancora di più .”

Aspettando la presa del potere da parte del proletariato, non dobbiamo fare nessuna concessione ai nazionalismi. In quanto lavoratori salariati, non abbiamo nulla a che fare con delle “identità nazionali”, e se non abbiamo nessuna identità comune coi Sarkozy ed i Parisot, il nostro cuore invece batte allo stesso ritmo di quello di tutte quelle e di tutti quelli che si alzano contro l’ingiustizia, l’oppressione e lo sfruttamento ovunque nel mondo . Se dicevamo “mein Schatz” o “Habibi” ai nostri cari, se cantavamo delle ninnananne in cinese o in peul ai nostri bambini, se i nostri antenati sono seppelliti nelle montagne dell’Anatolia o sulle pianure della Polonia, subiamo le stesse condizioni di lavoro, gli stessi bassi stipendi e le stesse politiche anti-sociali. Lo sciovinismo, il nazionalismo ed il razzismo sono sempre stati dei veleni mortali per il mondo del lavoro, dividendo i suoi ranghi mentre è sempre più indispensabile essere uniti per fare fronte agli attacchi del padronato e del governo, cerca di farci credere che avremmo qualche cosa in comune con quelli che ci sfruttano.

Contro tutti i reazionari che vogliono chiuderci in false identità nazionali, etniche o religiose, ricordiamo che la nostra unica identità è umana, di questa umanità che rifiuta l’oppressione e che si alza per costruire un mondo degno del ventunesimo secolo, un mondo in cui le frontiere nazionali, che non hanno più luogo di essere, raggiungeranno nelle pattumiere della storia le vecchie divisioni feudali del Medioevo.

Fonte: http://communismeouvrier.wordpress.com/2012/01/12/notre-identite-cest-lhumanite/

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