Modelli interpretativi del razzismo, e conseguenze politiche attuali
29 octobre 2015, di Yves, traduzione a cura di Franco Senia
In un libro sulla storia della Lega Rivoluzionaria degli Operai Neri (League of Revolutionary Black Workers) di Detroit – (James A. Geschwender, Class, Race and Worker Insurgency, Classe, race et insurrection ouvrière, Cambridge University Press, 1977) – opera sulla quale torneremo in un prossimo articolo, nella sua introduzione, l’autore descrive quattro grandi modelli di interpretazione del razzismo negli Stati Uniti. Sicuramente ne esistono altri, anche dal momento che questo libro è stato scritto più di trent’anni fa, ma ci sembra utile riprendere la sua analisi e verificare in che misura questi modelli possono applicarsi alla Francia.
Per Geschwender, questi quattro modelli americani erano :
il modello assimilazionista ;
il modello esplicativo centrato sui pregiudizi, o il razzismo degli individui “bianchi” ;
il modello “classista” che rende lo sfruttamento capitalista responsabile del razzismo ;
il modello che sottolinea il ruolo della “colonia interna”, o della “nazione oppressa sommersa”, costituita dagli afro-americani.
Se analizziamo la maniera in cui la sinistra, l’estrema sinistra, l’ultrasinistra e i libertari analizzano la questione del razzismo in Francia, si trovano numerosi elementi di questi modelli di interpretazione e d’azione, e nelle diverse correnti si trova spesso una miscela di queste analisi.
1. Il modello assimilazionista
Come spiega Geschwendere, è il modello dominante negli Stati Uniti, ma possiamo aggiungere che lo è anche in Francia. Secondo i sociologhi ed i politici che lo difendono, la questione del razzismo sarebbe secondaria ; i suoi partigiani rifiutano persino di prendere in considerazione l’esistenza di un razzismo strutturale o istituzionale. I neri negli Stati Uniti (in Francia, Antille, gli africani, i magrebini, gli asiatici) sono una delle numerose minoranze che costituiscono la nazione borghese. Ciascuna ha dovuto subire il test più o meno doloroso della “integrazione” e alla fine nessuna minoranza è stata – o è davvero – più discriminata rispetto alle altre.
Traduzione : “I polacchi, gli italiani, i portoghesi, gli spagnoli hanno dovuto sbavare ma ne sono usciti finanziariamente e socialmente (qui, viene inserito qualche nome come esempio a conferma di questo ragionamento) ; i magrebini, gli africani, gli asiatici seguiranno lo stesso cammino, inutile quindi fare tanto casino sulla questione del razzismo.”
Affinché la “integrazione” nella nazione borghese abbia successo, bisogna quindi che gli immigrati ed i loro discendenti “facciano degli sforzi” per assimilare la cultura dominante (in Francia, quindi, i valori repubblicani-universalisti-nazionalisti locali).
In un primo tempo, le minoranze saranno certamente vittime di potenti pregiudizi ma, a lungo termine, finiranno tutte per “integrarsi” e questo produrrà dei piccoli buoni americani (o dei piccoli buoni francesi). Se delle minoranze religiose o etniche non si assimilano, ciò avviene principalmente per colpa loro, anche se incontrano una ostilità più o meno violenta da parte della maggioranza “autoctona”.
Negli Stati Uniti, vengono avanzate tre ragioni principali da parte degli assimilazionisti per spiegare i “problemi” delle minoranze, e soprattutto degli afro-americani :
le minoranze non si sanno organizzare in comunità efficaci (in Francia, sarebbe piuttosto : le minoranze non aderiscono ai sindacati, ai partiti ed alle associazioni esistenti ; gli immigrati non “vogliono frequentare dei francesi” e preferiscono “rimanere fra di loro” – i cinesi – oppure “si sposano fra di loro” – i turchi - ; non fanno “nessuno sforzo per apprendere la lingua”, ecc.) ;
essi non votano alle elezioni (in Francia, ricordiamo le diverse associazioni di giornalisti e politici che, dopo le sommosse del 2005, hanno posto l’accento sull’importanza di iscriversi alle liste elettorali) ;
essi non creano imprese e reti economiche sufficientemente potenti ;
Come sottolinea Geschwender, questo modello assimilazionista rifiuta di ammettere che esistano delle differenze importanti – nei trattamenti da parte dello Stato americano (o francese, nel nostro casa), da parte dei padroni e da parte della società, in maniera più generale – tra gli immigrati europei e quelli non europei. Si potrebbe aggiungere, oggi, fra gli immigrati “cristiani” e quelli “musulmani”.
La questione è evidentemente assai più complessa della semplice separazione europei/non europei, dal momento che ci sono proprio degli immigrati o dei cittadini europei (gli ebrei) che sono state vittime dei più grande genocidio di questo continente.
Espressa tale riserva (e non è affatto un dettaglio nella storia dei razzismi europei !), è evidente che l’importazione di questa o di quella categoria di manodopera, o l’apertura delle frontiere all’immigrazione, è strettamente legata, almeno nella storia del capitalismo, al bisogno di manodopera qualificata (gli artigiani svizzeri, belgi e tedeschi nella Francia del 19° secolo), o soprattutto non qualificata (le piantagioni del sud degli Stati Uniti, poi l’industria europea ed americana dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale). Ciò corrisponde alla necessità di sfruttare dei nuovi salariati. Questo sfruttamento si accompagna ad una propaganda ideologica volta a giustificare le discriminazioni sul mercato del lavoro, i bassi salari, l’impossibilità di salire nelle gerarchie, la segregazione spaziale, ecc..
Nel caso francese, si è sempre giustificata la scelta di certe nazionalità in questo o in quel settore industriale, in questa o in quella posizione, servendosi di criteri “culturali” razzisti, sia nelle costruzioni, che nelle miniere, nel settore automobilistico, nella siderurgia, o più recentemente nella sicurezza, nell’aiuto a domicilio o nella pulizia. Questi criteri razzisti sono stati anche “teorizzati” assai bene sotto la Terza, la Quarta e la Quinta Repubblica, generalmente da degli alti funzionari repubblicani di sinistra, e in ogni caso mai di estrema destra.
Questi criteri razzisti hanno contribuito a creare, o a mantenere, dei pregiudizi che hanno permesso a loro volta di mantenere la divisione fra i lavoratori di origine diversa. Per la maggioranza fi lavoratori franco-francese, perfino quelli i cui genitori sono stati naturalizzati, ad esempio, è stato, ed è ancora “normale” che occupino delle posizioni di operai professionali, di impiegati, di supervisori o di capiofficina, e che i (nuovi) immigrati occupino dei posti di manovale, di custode, di donna delle pulizie, di guardia di sicurezza o di operaio non qualificato.
Il modello assimilazionista rimuove questi pregiudizi e discriminazioni incoraggiate dalla classe capitalista, ma anche l’impatto che hanno queste situazioni sulla capacità degli immigrati di assimilarsi alla nazione borghese.
Ugualmente, presso i lavoratori immigrati appaiono dei riflessi identitari di autodifesa (sia di natura nazionalista, che etnica o religiosa) che rendono evidentemente molto più difficile l’assimilazione voluta (più o meno) dalla borghesia. Di fronte a tali reazioni identitarie delle minoranze, appaiono delle reazioni identitarie presso i membri della maggioranza “autoctona”, ivi compresi i proletari.
Il modello repubblicano francese, anche se per il momento è meno favorevole all’organizzazione in comunità, rispetto al modello inglese o americano, è anch’esso “cieco ai colori” (esso nega l’importanza dei pregiudizi, delle discriminazioni razziste e del razzismo istituzionale). E quest’attitudine che relativizza il razzismo è diffusa sia a sinistra, perfino alla sinistra estrema e all’ultrasinistra, che a destra.
2. Il modello esplicativo centrato sui pregiudizi, o il razzismo degli individui “bianchi”
Anche questo modello è molto diffuso in Francia, nella misura in cui – sia nelle spiegazioni del MRAP, della LICRA o di SOS Racisme, così come negli interventi di giornalisti, artisti ed intellettuali di sinistra – è abbastanza comune denunciare i pregiudizi individuali dei francesi contro questa o quella categoria della popolazione … senza andare più a fondo sulla questione e senza affrontare le cause strutturali del razzismo nella “patria dei diritti dell’uomo”.
Questo modello è da trent’anni al centro dello “humour” diffuso da Canal Plus, dal Djamel Comedy Club, e da ogni sorta di soap opera o film che cercano di ridicolizzare il razzismo (senza mai attaccare le fondamenta del nazionalismo repubblicano francese).
Come nota Geschwender, questo modello d’interpretazione è popolare perché si basa su una visione molto ottimista. Nella misura in cui questo modello separa completamente razzismo e sfruttamento capitalista, esso attribuisce la causa principale del razzismo ad una reazione di rigetto, ad una semplice ignoranza o incomprensione de “l’Altro”.
Per cui, basterebbe “educare” la maggioranza dominante affinché i membri delle minoranze siano visti in maniera simpatetica, perfino empatica, da questa stessa maggioranza. In una tale prospettiva, sarà l’umorismo dei comici di origine magrebina o africana, le serie o i film grondanti di buone intenzioni antirazziste, i grandi discorsi sul multiculturalismo o sulla “interculturalità”, accompagnati da feste o da banchetti “etnici”, i concerti antirazzisti, i discorsi sulla “Repubblica meticcia”, la “diversità” o la “Francia multietnica o multiculturale” ; tutte queste cose occupano un posto centrale al fine di migliorare il famoso “vivere insieme”.
Come sottolinea Geschwender, questo modello è centrato soprattutto sulle tare o sui difetti individuali dei razzisti, o delle persone che hanno dei pregiudizi più o meno radicati nel loro cervello ; esso cerca di convincerli a fare ammenda, a comprendere che si sbagliano. Questo modello, che ha una dimensione morale, perfino moralizzatrice, ignora l’utilità e la funzione politica, sociale ed economica del razzismo.
Questo modello è perfettamente accettabile anche da una parte della destra cosiddetta “repubblicana” in quanto non rimette affatto in discussione il sistema capitalista. Nel migliore dei casi, si accompagna alla creazione di un arsenale giuridico che permetta alle associazioni antirazziste di portare davanti ai giudici questo o quell’individuo razzista e di farlo condannare. In sé, quest’approccio puramente legale non è negativo, anche se ha una portata politica assai limitata. Di contro, esso tende a fare del razzismo unicamente una questione individuale, ad occultare la sua dimensione sociale, e a scoraggiare ogni lotta collettiva al fuori dei tribunali. Cosa che pone ancora dei grossi problemi…
3. Il modello “classista” che rende lo sfruttamento capitalista responsabile del razzismo
Questo modello è più utile dei due modelli precedenti, nella misura in cui permette di comprendere perché i padroni vanno a cercare della manodopera negli altri paesi (sia che si tratti di schiavi africani o di lavoratori salariati del Terzo Mondo, di “sans papiers” o di quelli che hanno un permesso di soggiorno). Permette di comprendere perché i capitalisti e lo Stato giochino sulla concorrenza fra le diverse categorie di salariati, diffondendo dei pregiudizi razzisti, anche nel settore del turismo.
Rispetto agli Stati Uniti, il modello “classista” permette di comprendere perché i lavoratori provenienti dalle differenti immigrazioni europee si sono opposti ai lavoratori di origine africana (spesso arrivati in America ben prima di loro, quanto meno se si parla dell’immigrazione europea, latinoamericana o asiatica del 20° secolo), e perché questi ultimi hanno ritenuto che gli operai bianchi fossero loro nemici. Esso spiega perché alcuni lavoratori neri siano arrivati perfino ad accettare di fare i crumiri nel corso degli scioperi, perfino di fare le guardie nelle milizie padronali, per spezzare le lotte degli operai bianchi precedenti alla seconda guerra mondiale.
Il modello “classista” permette anche di comprendere perché le multinazionali e gli Stati occidentali saccheggiano le risorse dei paesi del Sud del mondo, sostenendo delle dittature sanguinarie, fomentando dei colpi di Stato, e tutto ciò in nome della difesa della “civiltà” (cristiana), ieri, della “democrazia”, oggi, o della contro il terrorismo islamico.
Esso ha, infine, come sua utilità principale, perfino essenziale, di mettere in evidenza una comunità di interessi oggettiva fra i proletari, gli sfruttati, di ogni origine e di tutte le nazionalità, in quanto il loro nemico, il capitale, è il medesimo.
L’inconveniente principale di questo modello è che non permette di spiegare l’ascesa sociale di una parte significativa di persone appartenenti a delle minoranze nazionali e/o etniche : sia che si tratti della creazione di una classe media nera negli Stati Uniti, o di una borghesia in Francia, il modello classista che ha la tendenza ad assimilare al proletariato (o nella versione trendy, ai “dominati”) tutti i lavoratori originari dell’Africa, dell’America Latina o dell’Asia, si trova ad essere demolita quando delle frazioni significative di immigrati, o di discendenti di immigrati, non europei si costituiscono in comunità, in gruppi di pressione su delle basi etniche, religiose o etnico-religiose, e divengono a loro volta degli “eccellenti” sfruttatori, in particolare dei loro correligionari o dei loro compatrioti.
Ultimo limite del modello puramente classista : esso si basa sull’idea che il razzismo sarebbe un fenomeno unicamente europeo, unicamente legato all’espansione del capitalismo. Purtroppo, non è affatto così : per fare un esempio, il biancore della pelle, in Asia, è stato considerato sempre, sia un criterio di bellezza che un criterio di classe dacché solo quelli e quelle che lavoravano all’esterno, nei campi o per la strada, avevano la pelle “abbronzata” dal sole. Essi venivano considerati come razzialmente inferiori ai nobili, ai principi ed ai membri delle corti reali, i quali non lavoravano, questo a prescindere dal fatto che le “teorie” razziali più sofisticate sono state inventate in Europa.
4. Il modello che sottolinea il ruolo della “colonia interna”, o della “nazione oppressa sommersa”, costituita dagli afro-americani
Questo modello oggi è di gran moda, dal momento che è alla base delle letture cosiddette “decoloniali” delle realtà europee, ma la maggior parte dei militanti ignorano le sue origini poiché i suoi “inventori” le nascondono scientemente. Tali origini sono tuttavia facili da scovare, in quanto provengono dalle tesi dell’Internazionale comunista, ed in particolare sono quelle del Partito Comunista Americano (PCA), tra il 1928 ed il 1957, sistematizzate da un teorico trotzkista (CLR James) nel corso degli anni 1930, e poi da intellettuali nazionalisti afro-americani durante il periodo fra le due guerre e dopo la seconda guerra mondiale.
Queste tesi, inizialmente, hanno esercitato un grande fascino sui militanti più determinati : esse permettevano di offrire ai Neri americano delle prospettive, sia incitandoli a lottare per la creazione di uno o più Stati in seno agli Stati Uniti, dove sarebbero stati maggioritari ed avrebbero esercitato il potere ; sia giustificando il ritorno in Africa (la “patria originale” totalmente idealizzata) ; sia legittimando delle rivendicazioni ed una lotta radicale per una più equa ripartizione del potere nazionale negli Stati Uniti. Tutte queste teorie rendevano i Neri americani fieri della loro storia e delle loro lotte, cosa che non era per niente trascurabile. Permettevano di spiegare in tal maniera come, allo stesso modo in cui l’impero britannico o quello francese erano riusciti a formare e/o a ottenere la collaborazione delle élite locali, per mantenere il loro dominio sulle colonie, la classe dominante americana poteva (e può sempre, del resto) reclutare nella minoranza nera dei sostenitori che accettassero di collaborare a giustificare il loro dominio, a condizione di beneficiare di sufficienti prebende.
Questo ragionamento, ovviamente, si può applicare anche alle minoranze non europee presenti oggi nel Regno Unito, o nei Paesi Bassi o in Francia, o anche in altri paesi che non hanno avuto un passato coloniale, ma che attraggono una manodopera proveniente dal Sud che cerca di stabilirsi in maniera permanente sul continente europeo.
Lungi dall’aver inventato una teoria radicalmente nuova, i sostenitori attuali della “decolonialità” non fanno altro che riprendere delle posizioni elaborate da intellettuali “bianchi” europei (i dirigenti della Terza Internazionale) e da intellettuali afroamericani, insieme, settant’anni fa. Ma riconoscere simili origini intellettuali, in parte “bianche”, significherebbe demolire tutto il loro bel edificio “teorico”.
Evidentemente, affinché questo vecchiume ideologico assuma un look che fa tendenza, oggi si sommano i discorsi “decoloniali” alle considerazioni postmoderne (provenienti anch’esse in gran parte dalla intellighenzia “bianca” occidentale : Foucault, Derrida, Deleuze & Co. non provenivano propriamente da delle “minoranze postcoloniali” !), a termini quali “decostruzione” e “decostruire”, i quali sono nettamente più sexy del richiamarsi all’Internazionale comunista diretta da dei “Bianchi” o al trotzkista, poi panafricano antillese, CLR James, un convinto fervente sostenitore della dialettica hegeliana praticamente sconosciuto ! Se si aggiungono anche dei riferimenti ai movimenti di liberazione nazionale del vecchio Terzo Mondo (movimenti che, come la Terza Internazionale, si situano anch’essi, malgrado i loro discorsi nazionalisti, nella tradizione di un certo universalismo occidentale… “bianco”) che hanno ancora impatto sulla gioventù, grazie alle immagini di Epinal trasmesse dalla propaganda di sinistra e di estrema sinistra…
Ma siamo onesti : al di fuori di questo bricolage ideologico e della grossolana falsificazione, questa posizione che tende a drammatizzare la situazione delle minoranze non europee in Occidente e le confronta con quelle dei colonizzati ha quanto meno un piccolo aspetto positivo, malgrado le sue connotazioni identitarie reazionarie ; in effetti, chiama ad una lotta radicale (soprattutto sul piano verbale ed al servizio di demagoghi carrieristi, ma non solo) in seno alle metropoli capitaliste europee. Non si tratta affatto di un discorso vittimista (almeno non sempre), ma di una discorso che si fonda sulla rivendicazione dell’uguaglianza, della giustizia e della dignità, Siamo molto lontani dalla lotta di classe e dalla solidarietà fra tutti i proletari, siamo a chilometri dall’azione diretta e dall’auto-organizzazione vera e propria, ma questo potrebbe essere un inizio : diciamo, un inizio democratico-radicale su delle questioni importanti che da decenni vengono ignorate dalla sinistra, dall’estrema sinistra e dagli anarchici.
Purtroppo, come i due primi modelli d’interpretazione, il modello “decoloniale” rimane fondamentalmente cittadinista, cioè a dire favorevole all’unione fra tutte le classi in seno alle comunità cosiddette “non bianche”. Il suo obiettivo è quello di ottenere il riconoscimento da parte dello Stato, da parte delle sue istituzioni e dei suoi politici, e che nondimeno abbiamo bisogno di più giudici, poliziotti, capi, giornalisti, deputati e padroni “provenienti dall’immigrazione” affinché tutto vada meglio (apparentemente, i partigiani della decolonialità ed i loro sostenitori di sinistra europei non hanno imparato niente dall’esempio americano, ivi compresa la presenza di Barack Obama, Condoleeza Rice e Colin Powell ai vertici della più grande potenza del pianeta…).
A tal riguardo, è sufficiente ascoltare il dibattito organizzato dal mediapart con gli organizzatori della marcia contro il razzismo e per la dignità, del 31 ottobre 2015. Nessuno degli intervenuti e delle intervenute ha mai pronunciato la parola lavoratore, operaio o proletario. Tutti e tutte avevano sulle labbra soltanto parole come “non Bianchi” e “Bianchi”, “musulmani”, ecc.. Non hanno apparentemente alcuna coscienza del fatto che la società capitalista è strutturata in classi sociale con interessi opposti, e non semplicemente in pseudo “razze” (ideate dagli sfruttatori) o in religioni strutturate che fanno il gioco dell’ordine stabilito. Se la rivolta contro le discriminazioni razziste, contro i crimini del colonialismo e del neocolonialismo, è sempre positiva in partenza, diventa catastrofica qualora venga deviata e fissi come suo unico obiettivo una semplice divisione della torta capitalista…
Y.C., Ni patrie ni frontières, 27/10/2015 -
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