Diminuiscono i residenti in Italia: un commento sui dati Istat

foto di Domenico Moro.

Di Domenico Moro

Secondo L’Istat per la prima volta da 90 anni i residenti in Italia sono in calo. La contrazione della popolazione autoctona non è una novità, solo che prima gli immigrati compensavano il calo degli italiani. La crisi demografica che colpisce non solo l’Italia ma anche altri Paesi avanzati ha forti implicazioni sulla crisi dell’economia capitalistica, sull’immigrazione, sul fondamentalismo islamico e sulla tendenza alla guerra. A questi aspetti ho dedicato ampio spazio sul mio libro la Terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico: “Ma ciò che più ci interessa, ai fini del nostro discorso, è lo scenario ipotizzato in assenza di immigrazione. In questo caso, la Ue scenderebbe da 507 a 442 milioni di abitanti, perdendo ben 64 milioni di abitanti, come se un Paese delle dimensioni della Francia ne venisse escluso.

La popolazione tedesca si ridurrebbe a 59,5 milioni di abitanti, perdendo ben 29 milioni di abitanti. L’Italia e la Spagna passerebbero a una popolazione di 47 e 37 milioni, perdendo rispettivamente 13,5 e 9,1 milioni di abitanti. Aumenterebbero la loro popolazione, rispetto al 2015, anche se di appena un paio di milioni di unità, solamente il Regno Unito e la Francia, che diventerebbe il Paese più popolato della Ue. È facile osservare che la differenza tra Germania, Italia e Spagna, da una parte e Regno Unito e Francia dall’altra parte stia proprio nel fatto che gli ultimi due Paesi hanno implementato da parecchi decenni una politica di integrazione massiccia e stabile di flussi di immigrazione provenienti soprattutto da aree extra europee, che si traduce in un più alto tasso di nascite e in una maggiore quota di popolazione giovane. (…) Il capitale europeo è ben conscio di questa situazione e della necessità per l’economia europea dei migranti. Di conseguenza, i partiti maggiori, che ne sono espressione politica, non hanno alcun interesse a sollecitare spinte xenofobe. Tutt’altro.

La necessità degli immigrati era stata espressa già nel 2011 in modo chiaro da Cecilia Malmström, Commissario europeo agli affari interni: “Quando incontro i ministri del Lavoro quasi tutti parlano del bisogno di immigrati; ed è vero: ne abbiamo bisogno a centinaia di migliaia, a milioni nel lungo termine…ma quando i ministri vanno a parlare davanti alle loro opinioni pubbliche nazionali questo messaggio sparisce del tutto. Il bisogno di immigrati è difficile da spiegare in un clima di disoccupazione elevata, di rivolte per le strade, di crisi finanziaria e di persone in estrema difficoltà.” Sono stati i politici tedeschi a cercare di forzare la politica europea sull’immigrazione, sfruttando l’onda emotiva generata dalle sofferenze dei profughi siriani in fuga dalla guerra. Del resto, è la Germania a vedere sospesa sul suo sviluppo quella che è una vera spada di Damocle demografica. Secondo Lars Feld, consigliere economico del governo tedesco: “…la Germania non potrà mai crescere come gli Usa per colpa del nostro trend demografico, che avrà un peso tremendo sulla crescita. Servirebbe un aumento della immigrazione netta troppo elevato.” Oskar De Maziere, ministro dell’interno tedesco, ha dichiarato che la Germania è disposta a cambiare tutto – sanità, scuola, persino la regola che impone la conoscenza del tedesco agli immigrati, persino la stessa Costituzione: “Credo che il miglior modo di imparare il tedesco sia sul posto di lavoro, bisogna portare più persone sul mercato del lavoro anche se non parlano un tedesco perfetto”. Più che la solidarietà per le tragedie e le sofferenze dei migranti, sono le ragioni economiche che hanno portato Angela Merkel prima ad accogliere il flusso di profughi e poi, di fronte alle difficoltà, a cercare di trovare una soluzione mediante la distribuzione tra i Paesi europei, in base a quote stabilite, di profughi e migranti, in modo da permettere l’accoglienza di circa un milione di persone in fuga dalla sponda Sud del Mediterraneo. Anche dopo la sconfitta delle elezioni regionali e l’affermazione dell’AfD, Angela Merkel ha rifiutato di cambiare la linea ufficiale del suo governo sugli immigrati. (…)

È, quindi, particolarmente ipocrita da parte dei governi e delle principali autorità religiose parlare genericamente di accoglienza e solidarietà, ignorando le contraddizioni dell’economia capitalistica e mantenendo i vincoli del Fiscal compact. Al contrario, una vera politica di accoglienza degli immigrati e dei profughi si dovrebbe basare sulla modifica delle politiche restrittive dei bilanci pubblici europei e sull’allargamento e non sul taglio al welfare. Di conseguenza, l’accoglienza non può essere separata da una critica radicale all’integrazione economica europea e all’architettura dell’euro che delle politiche neoliberiste è la base materiale. In assenza di questo, la prospettiva è quella di ripetere su scala più vasta l’esperienza della Francia, in cui la popolazione straniera – e ora anche i discendenti di immigrati che hanno raggiunto la cittadinanza francese – rappresentano un esercito lavorativo di riserva o, meglio ancora, cittadini di seconda categoria, caratterizzati dal basso reddito, dalla necessità di ricorrere all’assistenza pubblica e infine dalla marginalità sociale che si traduce nella ghettizzazione fisica negli spazi degradati delle grandi aree metropolitane europee. Peggio ancora, la prospettiva ancora più probabile è quella di alimentare una guerra civile europea fra poveri, in un quadro di peggioramento generalizzato delle condizioni di una fetta importante della popolazione e del mondo del lavoro salariato europei, definitivamente caratterizzato da un rapporto intermittente, cioè precario, con l’attività lavorativa.

La Francia sin dagli anni ’30 del XX secolo ha scontato seri problemi di crollo demografico, cui rispose accogliendo e riuscendo ad integrare, anche grazie all’opera dei partiti di sinistra, circa mezzo milione di profughi spagnoli in fuga dal fascismo. Successivamente, dopo la Seconda guerra mondiale, la Francia ha accolto milioni di immigrati dalle sue ex colonie. Oggi, presenta i tassi di fertilità e di nascita più alti a livello europea, grazie sia al contributo degli immigrati sia a politiche pubbliche basate su un generoso welfare a sostegno delle famiglie. Però, la crisi del capitale e le “riforme di struttura”, combinate con le politiche di austerity dell’Europa, stanno livellando i salari, contraendo il welfare state e soprattutto la possibilità di avere un lavoro decente. Insomma, quello che si produce è un eccesso di popolazione, una sovrappopolazione non in termini assoluti ma relativamente alla capacità di integrarla nell’unico modo possibile nella società attuale, cioè impiegandola stabilmente come merce forza-lavoro nel processo di accumulazione del capitale. Questa sovrappopolazione relativa colpisce molti europei, non solo immigrati o figli di immigrati di seconda e terza generazione, ma anche molti “indigeni”, che passano alla “riserva” dell’esercito del lavoro in forma permanente. Questa situazione determina una tensione sociale che deve trovare in qualche modo uno sbocco.

Non trovandolo in una lotta unitaria “sovra-etnica” contro la vera causa del problema (il modo di produzione capitalistico), si manifesta in una lotta fra poveri (o fra chi è povero e chi ha paura di diventarlo) per la spartizione delle sempre più ridotte risorse, che assume un rivestimento religioso o di scontro culturale – di solito caratterizzato dalla religione – tra civiltà.

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