Danno la casa “prima agli stranieri”?
Da https://spazio20092.wordpress.com/ che ringraziamo:
Alcuni giorni fa nel quartiere di San Basilio a Roma, alcuni abitanti hanno impedito l’assegnazione di una casa popolare ad una famiglia marocchina al grido «Non vogliamo negri qui. Prima gli italiani». Se dietro il gesto ci fossero davvero degli “abitanti” oppure una qualche forma di racket delle occupazioni non è ancora dato a sapersi. Ciononostante è necessario tentare di dare una risposta alla domanda «danno le case prima agli stranieri?».
Negli ultimi anni si sta diffondendo sempre di più la narrazione secondo cui la via per l’accesso agli alloggi pubblici sarebbe più breve e facile per gli stranieri, favoriti in qualche modo rispetto agli italiani. «Danno le case prima agli stranieri» è una frase che sentiamo sempre più spesso, una convinzione di molti. Ne abbiamo visto le conseguenze anche a Cinisello Balsamo lo scorso anno quando, in seguito allo sgombero dell’occupazione di un alloggio Erp (edilizia residenziale pubblica), un gruppo di abitanti del quartiere ha minacciato ritorsioni nel caso in cui l’alloggio fosse stato assegnato a famiglie straniere.
Ma è vero quanto si dice?
Per quanto riguarda l’assegnazione delle case popolari, la normativa di riferimento è quella regionale, essa detta i criteri per le assegnazioni. Prendiamo l’esempio della Regione Lombardia: la legge n. 7/2005 prevede che i richiedenti debbano avere «la residenza o avere svolto attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno 5 anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda». I primi ad essere colpiti da questa norma sono proprio i cittadini stranieri, ossia la maggioranza di coloro che non risiedono nella Regione da più di cinque anni, ma non solo.
Nel 2006 il Tar della Lombardia si è espresso su questa norma affermando che, con dei requisiti come la residenza o il lavoro protratti per 5 anni, si corre il rischio di escludere proprio coloro che si trovano in maggiore difficoltà, perché non radicati da lungo tempo o senza una famiglia alle spalle, o perché alla ricerca di un lavoro. E che ciò «appare in palese contrasto con il principio di ragionevolezza e con quello di uguaglianza sostanziale, sanciti dalla Costituzione». Ciononostante, dopo il parere della Corte Costituzionale, la norma è tuttora in vigore.
In più Regioni, scrivono le associazioni Cirdi e Cospe, «si sono progressivamente affermate […] normative regionali e delibere di enti locali miranti a posporre nelle graduatorie le persone di nazionalità straniera, facendo leva sul requisito del radicamento sul territorio locale anziché sul possesso della cittadinanza, con l’effetto di aggirare il principio di parità di trattamento». Insomma se guardiamo alla normativa sembra vero il contrario di quanto si dice: esistono dei paletti per fare in modo che i cittadini stranieri non accedano allo stesso modo dei cittadini italiani. Se prendiamo il dato di Milano, dal 2006 al 2010 le domande di stranieri ammontavano al 62%, mentre le assegnazioni erano di molto inferiori, intorno al 30%.
Se ci spostiamo in Emilia Romagna, invece, uno studio della ex Provincia di Bologna fa emergere come come gli stranieri rappresentino, alla fine del 2009, solo il 9,4% degli abitanti delle case popolari: 1608 nuclei familiari contro le 15.525 famiglie italiane, un numero addirittura inferiore alla percentuale di stranieri sul totale di residenti. Inoltre, a vedersi assegnare un alloggio, sono più spesso gli italiani rispetto agli stranieri, con il rapporto di 1 a 5 per le famiglie italiane e 1 a 10 fra gli stranieri che ne fanno richiesta.
In generale, nonostante una massiccia presenza nelle graduatorie, la quota di alloggi effettivamente assegnati a immigrati «è quasi sempre inferiore all’incidenza percentuale degli immigrati sull’insieme della popolazione: a Torino il 10% degli alloggi relativi all’ultimo bando è stato assegnato a immigrati, che rappresentano invece il 14% della popolazione; a Genova meno del 5% degli alloggi a disposizione per l’ultimo bando è stato assegnato a immigrati, che rappresentano l’8,3% della popolazione». A dirlo è un rapporto pubblicato dall’Assessorato al Welfare ed alla Casa della Regione Toscana, in cui si legge ancora:
Tanto le norme sull’immigrazione (in primo luogo l’articolo 40 del Testo Unico sull’Immigrazione che prevede la possibilità di accesso per gli stranieri all’Edilizia residenziale pubblica, purché iscritti all’anagrafe e in possesso di regolare permesso di soggiorno della durata di almeno due anni), che le varie normative locali che danno diritto al punteggio nella graduatoria (che sono più vicine ai profili delle famiglie italiane che di quelle straniere) rappresentano semmai elementi di svantaggio rispetto agli italiani.
Anche il caso di Firenze è significativo in questo senso. Come scrive Cortocircuito:
La verità è che le case popolari sono poche, pochissime. Coprono solo alcune situazioni di disagio estremo, tra cui troviamo spesso le famiglie immigrate. Queste ultime, nella misura in cui hanno superato ogni tipo di ostacolo (la lingua, la regolarizzazione, il lavoro, conoscere il bando) sono contribuenti che accedono allo stato sociale. Pretendere che non possano farlo solo perché sono stranieri, rivendicare che a parità di condizioni sociali ed economiche ci sia “il primato degli italiani”, significa invocare le leggi razziali. Le graduatorie per le case popolari, così come quelle per gli asili nido, danno un punteggio che aumenta con la difficoltà economica, abitativa e sociale. Ma il meccanismo razzista si riflette anche nei bandi per l’assegnazione degli alloggi popolari, dove riscontriamo criteri sempre più restrittivi per gli immigrati. Nell’ultimo bando, ad esempio, il comune di Padova attribuiva un punteggio più alto per i residenti sul territorio comunale da più di 15 anni. Il comune di Firenze, invece, stabiliva l’accesso agli immigrati in graduatoria solo se titolari di un permesso di soggiorno di durata almeno biennale, e che dimostrassero di lavorare a livello subordinato oppure autonomo.
A giudicare dai dati dunque sembra proprio che la convinzione secondo cui «le case popolari vengono assegnate prima agli stranieri» sia falsa, un’enorme fraintendimento.
E a Cinisello Balsamo?
Prendiamo come esempio la nostra città: Cinisello Balsamo.
Qui le assegnazioni si basano sulla normativa regionale citata in precedenza. Per quanto riguarda i criteri di assegnazione si prendono in esame il disagio economico (redditi percepiti e patrimonio), il disagio familiare (la situazione della famiglia, con figli o meno, con invalidità o meno), la situazione abitativa (le condizioni dell’abitazione familiare, se c’è e se è in buono stato o meno) e infine il periodo di residenza nella Regione.
Ciò significa che più lunga è la permanenza nella Regione e più alto sarà il punteggio per l’assegnazione, come si può vedere nell’immagine sottostante. Questo è evidentemente un criterio che penalizza le persone con cittadinanza straniera.
Dal bando 2016 per l’assegnazione degli alloggi Erp del Comune di Cinisello Balsamo.
Non solo. A parità di posizione in graduatoria ad avere la precedenza sono le famiglie con una permanenza più lunga in Lombardia. Questo criterio supera quello economico, familiare o abitativo. Si legge:
Dal bando 2016 per l’assegnazione degli alloggi Erp del Comune di Cinisello Balsamo.
Se andiamo a scorrere i nomi di coloro che hanno effettuato domanda di alloggio popolare nel 2015, notiamo che sui 656 nomi pubblicati nel bando gli italiani sono 252, ossia circa il 38%. Tra i primi 100, 40 sono gli italiani e 60 gli stranieri, confermando la media. Dunque, nonostante una legislazione che di certo non favorisce i “nuovi arrivati”, la percentuale di stranieri nelle graduatorie per gli alloggi resta significativa. Ciò è dovuto ad una serie di fattori tra cui la posizione subalterna di questi ultimi nel mondo del lavoro, le peggiori condizioni abitative, l’assenza di appoggi familiari…
Ma guardando nel complesso possiamo ben dire che anche a Cinisello Balsamo il problema non siano tanto «le case prima agli stranieri». Le domande di alloggio sono circa 1.000, mentre le assegnazioni si aggirano intorno a 20 all’anno. Ciò vuol dire che soltanto il 2% dei nuclei che fanno domanda viene accontentato. Qui la percentuale di edilizia residenziale pubblica si attesta intorno al 4%, di poco inferiore a quella nazionale. Una percentuale così bassa di assegnazioni rispetto alle domande (il 2%) dimostra che le poche assegnazioni non basterebbero neanche per i soli italiani richiedenti. È evidente invece come le poche case popolari non siano sufficienti ed esista una grande contraddizione tra le troppe strutture vuote e le tante famiglie senza un alloggio. La narrazione vittimista verso gli immigrati che «ci rubano le case» serve a mascherare questa enorme disuguaglianza sociale; focalizza lo sguardo su un aspetto marginale distogliendolo dal grande nodo centrale: le disparità economiche.
Troppa gente senza casa, troppe case senza gente
In Italia ci sono 650mila domande di edilizia sociale pubblica in attesa, senza risposta. Gli alloggi di edilizia pubblica accontentano poco più di 700.000 nuclei familiari, vale a dire un terzo di quelli che versano in una situazione problematica. Possiamo dire che il problema non sia tanto che «le case vengono date prima agli stranieri» bensì che gli alloggi pubblici non vengono assegnati a nessuno, o meglio a pochissimi “fortunati” (o “più sfortunati”).
«Rispetto al totale degli alloggi gestiti in locazione (circa 758 mila), nel 2013 risulta regolarmente assegnato l’86% degli alloggi su tutto il territorio nazionale (circa 652mila alloggi), mentre la restante quota del 14% risulta non assegnata.» (Nomisma 2016) Vale a dire che l’edilizia pubblica è insufficiente e, per di più, spesso, invece che essere assegnata, viene abbandonata all’inutilizzo perché si preferisce utilizzare i fondi pubblici per altro. Milano è un esempio eclatante con ben 10.000 case popolari vuote.
Le unità immobiliari residenziali censite dal catasto nel 2013 sono 34.608.918, in massima parte di tipo civile, economico e popolare. Tra queste, secondo i dati Istat, si contano circa 7 milioni di alloggi vuoti, ossia più del 20% del totale. Negli ultimi anni gli edifici inutilizzati sono aumentati del 350%, per via di una politica che ha consentito di costruire migliaia di nuovi edifici senza tenere conto del reale fabbisogno degli abitanti.
Ciò cosa comporta? Per i tanti che non riescono a superare i procedimenti di assegnazione non resta che affrontare una situazione che vede affitti troppo elevati e dunque il pericolo degli sfratti per morosità. Dei circa 64.600 sfratti emessi nell’ultimo anno, più di 57.500 sono stati emessi per morosità, spesso incolpevole (dopo la perdita o la riduzione del lavoro). Nel 2015 il ritmo è stato di uno sfratto ogni 399 famiglie, a fronte di 153.000 richieste, leggermente inferiore all’anno precedente.
Negli ultimi anni il prezzo degli affitti si è mantenuto stabile e oggi sembra verificarsi un aumento del 2-3%. In più, secondo le stime di Caritas e Cisl il 17,1% della popolazione vive in abitazioni sovraffollate. Queste sono le conseguenze di una precisa scelta politica: quella di ridurre e contenere il welfare per le abitazioni (e non solo); i tagli allo stato sociale cui stiamo assistendo da anni sono una chiara dimostrazione. In Italia la spesa sociale rapportata al Pil è del 0,1%, parecchio inferiore alla media dei paesi europei (0,1% contro la media dello 0,5%). E per quanto riguarda proprio le abitazioni, l’Italia si colloca in una posizione nettamente inferiore alla media europea, destinando solo lo 0.02% del PIL a questa voce di spesa1. E ciò nonostante l’Italia, con il 5,3% sul totale degli alloggi, sia «agli ultimi posti per stock di abitazioni sociali in rapporto al totale delle abitazioni: i Paesi Bassi registrano il livello più alto (32%), seguiti da Austria (23%), Danimarca (19%), Regno Unito (18%), Svezia (18%), Francia (17%) e Finlandia (16%)».
È in questo contesto che dobbiamo inserire la narrazione sulle «case prima agli stranieri». Cavalcato dalle bufale, dalle chiacchiere da bar e dalle falsità dei politici come Salvini, questo luogo comune finisce per nascondere una serie di fattori, tra cui quelli appena citati, che sono fondamentali per comprendere il disagio abitativo odierno.
Se le richieste di alloggio tra i non italiani sono così alte è perché vivono il disagio abitativo in misura maggiore. Ad esempio, tra essi vi è una percentuale nettamente maggiore (41,7% contro il 14,9%) di working poor (lavoratori con peggiori condizioni salariali e a rischio povertà).
Più di un senzatetto su due (il 58,2%) è straniero e tra i non italiani vi è una percentuale maggiore di famiglie che vivono forme di gravi deprivazioni materiali (19%). Anche il rischio di povertà relativa è maggiore rispetto a quello delle famiglie italiane (49,1% contro il 17,4%). Le abitazioni di vita «sono spesso in condizioni al di sotto degli standard qualitativi richiesti dalle normative, […] alloggi che non troverebbero altrimenti alcuna collocazione nel mercato»1. Ciononostante la quota del reddito assorbita dal canone d’affitto è più elevata rispetto alla media, in parte per via della presenza di canoni maggiorati e in parte per la minore disponibilità economica2. Si presenta dunque una situazione per cui alle peggiori condizioni di impiego si accompagnano altre forme di disagio, come ad esempio gli affitti esosi verso proprietari casa senza alcuno scrupolo. Posti in fondo alla gerarchia del lavoro italiano, anche per via delle leggi sul lavoro, inevitabilmente i cittadini stranieri soffrono il disagio abitativo in misura maggiore.
Ma ciò che conta ancora di più è che in questo tipo di narrazione («le case prima agli stranieri») viene tralasciato qualcosa di fondamentale, che riguarda tutti: italiani e stranieri. Nel mondo l’1 per cento della popolazione mondiale possiede più del restante 99 per cento messo insieme. In 20 anni, la disuguaglianza in Italia è aumentata più che in ogni altra nazione Ocse. Sempre in Italia, si stima che il 20% più ricco delle famiglie percepisca il 67,7% della ricchezza totale ed il 60% più povero solo il 14%. Dal 2009 al 2014, la distanza tra famiglie più ricche e famiglie più povere è ulteriormente aumentata da 4,6 a 4,9 volte. In termini di ricchezza, uno tra i dieci italiani più ricchi ha da solo un patrimonio pari a quello di 300 mila italiani meno fortunati3.
E mentre chi è ricco continua ad arricchirsi sempre più, c’è chi utilizza il razzismo per contendersi le briciole di quanto resta del patrimonio residenziale pubblico, come a San Basilio. «Odiatevi tra voi che state in basso» sembrano dirci quelli che stanno in alto. E in molti hanno deciso di adeguarsi.
1 Claudio Marra. La casa degli immigrati. Famiglie, reti, trasformazioni sociali. Milano, Franco Angeli, 2012, p. 85
2 http://www.integrazionemigranti.gov.it/archiviodocumenti/integrazione/Documents/Dimensioni%20Integrazione_Abitazione_ISMU_2012_IT.pdf
3 Mario Pianta – Maurizio Franzini, Disuguaglianze. Quante sono e come combatterle, Laterza, 2016
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