FUORI I NOMI. Come lavorano i giovani a Firenze e chi ci guadagna

Ogni mese vengono aggiornati i dati dell’Istat sulla situazione dell’occupazione in Italia e le cifre pur tremende che vi appaiono non riescono a rappresentare la profondità della condizione di marginalità, ricattabilità e sfruttamento che una consistente quota di popolazione vive quotidianamente. In Italia ci sono due milioni e mezzo di disoccupati, mezzo milione di cassaintegrati e un numero sterminato di lavoratori con contratti irregolari, precari o con una partita Iva che camuffa un rapporto di lavoro subordinato e in monocommittenza. Le cifre più gravi riguardano i giovani fino a 24 anni: uno su tre è disoccupato e, tra questi, più di un milione né studiano né cercano lavoro. Firenze non fa eccezione.

La questione che si pone è come rovesciare questa situazione che comporta sofferenze materiali, psicologiche e sociali intollerabili. Ma organizzare una risposta necessita un’accurata opera preliminare di indagine della situazione reale e di circolazione estesa dei dati raccolti. Obbliga a catalogare le più svariate condizioni di lavoro e di inattività che vengono imposte sul territorio che ci troviamo ad abitare e a rintracciarne le radici comuni da cui originano. A questo scopo, la redazione di Cortocircuito inaugura un’inchiesta sul lavoro giovanile a Firenze, ripromettendosi di non glissare, quando è possibile farlo senza esporre a rischi il lavoratore, sulle generalità dei responsabili (privati e pubblici) delle situazioni di sfruttamento rinvenute, di modo che le cifre dell’Istat possano essere ricondotte a persone, imprese e rappresentanti istituzionali che incrociamo ogni giorno in città. Stiamo così raccogliendo, tra gli studenti – o tra chi ha terminato gli studi da non più di tre anni – di Lettere, Architettura, Psicologia e del Polo di Novoli, un consistente numero di testimonianze, di cui sotto forniamo un primo campione. L’inchiesta è in continuo aggiornamento ed è dipendente anche dalle segnalazioni che ci arrivano. Invitiamo così i nostri lettori a scriverci in merito a esperienze di lavoro destrutturato sul territorio fiorentino.

C. (studente di Lettere): Ho iniziato a lavorare quando ha chiuso il negozio dove mia madre era commessa. Studiavo da giornalista, quindi precedentemente avevo iniziato a collaborare con varie testate: La Nazione, Calciopiù, Il Tirreno. Ero sempre a disposizione e non ho guadagnato mai una lira. Ma si sa che col giornalismo è così, la gavetta va messa in conto. Quando c’è stato bisogno a casa, ho trovato un posto alla GLS, facevo il corriere espresso. Non ti dico quanto il lavoro fosse snervante e la miseria che mi pagavano, ma in quel periodo non ho trovato altro che mi permettesse di lavorare con continuità senza dover garantire la disponibilità dopo le 19 e 30. Gioco a calcio in una squadra di promozione, cosa che mi permette di ottenere 350 euro in più al mese, ma che mi impegna 3 sere la settimana. Ho dovuto così smettere di farmi vedere in redazione, perdendo ogni possibilità di andare avanti nel giornalismo. Le cose si sono messe davvero male quando ho finito gli esami e per laurearmi era obbligatorio fare un tirocinio. All’Università non hanno voluto riconoscere come tirocinio gli anni passati a fare il giornalista, perché le certificazioni che i giornali mi hanno rilasciato parlavano di “ collaborazioni occasionali”, senza specificare niente. Per svolgere lo stage ho chiesto un part-time alla GLS, ma non me l’hanno concesso. Ho litigato col capo e dopo un mese non mi ha rinnovato il contratto. Ho chiesto ad altri corrieri, ma col part-time non mi ha assunto nessuno, come se la voce del litigio fosse girata. Il problema è che avevo assoluto bisogno di lavorare, ma sarebbe stato stupido non laurearsi. A quel punto, per poter svolgere un tirocinio e lavorare insieme, sono dovuto andare a fare il cameriere la sera, e ho smesso di giocare a calcio, rinunciando a una parte del reddito.

F. (studentessa di Psicologia): L’ultimo anno di Università ho iniziato a lavorare in Cooperativa, anzi in due. Lavoravo per Agorà, ma anche per la Di Vittorio. Cioè, la mattina alle 7 e 30 tenevo per un’ora dei bambini che i genitori hanno necessità di portare a scuola prima che arrivino le insegnanti. Alle 8 e 30 tornavo a casa e, se riuscivo a non riaddormentarmi, studiavo. Poi alle 16, per l’altra Cooperativa, facevo l’educatrice di bambini disabili, recandomi nelle case per 3 ore. Mi pagavano da schifo, 6 euro l’ora, considerando la qualificazione e la dedizione che il lavoro richiederebbe e considerando anche che ben presto mi sono laureata e ho fatto l’esame di Stato, quindi avrei dovuto essere considerata una lavoratrice specializzata. Soprattutto era molto faticoso, perché alzarsi al mattino presto per lavorare un’ora e basta è assurdo. Ma le regole erano chiare: se non lavoravo la mattina non avrei lavorato nemmeno le ore del pomeriggio. La cosa strana è che erano due cooperative differenti, con chissà che accordo tra loro.

C. (ex studente di Lettere): Ho lavorato per Sky Italia tra Ottobre e Novembre 2011. Sono stato assunto dopo un colloquio informale grazie a un amico che già lavorava per loro e che ha “sponsorizzato” la mia assunzione. In teoria si trattava di un contratto a progetto, in realtà avevamo degli orari di lavoro ben definiti part-time, anche se molti venivano “convinti” a fare degli extra, perché si sa “fa piacere”. Venivamo pagati 15 € al giorno di fisso, il resto “te lo dovevi guadagnare”, come divevano loro, convincendo la gente a firmare contratti per la pay-tv. Così lavori con un reddito infimo, ma col costante miraggio di guadagnare di più, basta essere “dinamici”, “disinvolti” e “performanti” qualunque cosa voglia dire… Oltre alla faccia tosta conta anche molto il punto di vendita che ti viene assegnato. È naturale che un negozio di elettronica in Centro o in altri quartieri benestanti è un “territorio di caccia” molto più favorevole di un’Esselunga nei quartieri popolari, ovvero dove finii io. L’epilogo era scontato: licenziato per scarsi risultati (il contratto prevedeva che entrambi le parti potevano rescindere da un giorno all’altro…) dopo un mese e una settimana di lavoro. Nelle mie tasche entrarono poco più di 400 €. Ovviamente, fallito l’esperimento, il punto vendita non fu mai più coperto. Sì dirà che, benché siano pochi, 15 € sicuri al giorno per 4 ore di lavoro siano pure accettabili. Il problema è che quelle 4 ore non esaurivano il “tempo di lavoro”. Dalla mattina alla sera venivo subissato di chiamate, mail ed sms contenenti “comunicazioni importantissime”, esortazioni minacciose sugli scarsi risultati e messaggi motivazionali idioti del tipo “in Africa non importa se sei leone o gazzella, l’importante è correre. In Sky non importa se sei un semplice venditore o un Sales agent, l’importante è correre”. All’occorenza bisognava partecipare alle cene aziendali, o meglio, come dicevano i miei responsabili, “fare squadra col proprio team”, cioè conoscere i colleghi e farsi spiegare come riescono ad intortare la gente convincendoli a montare un parabola in casa per guardarsi X-Factor senza pubblicità tutto il giorno. Un giorno mi beccai una doppia strigliata: una per aver declinato “l’invito” (ovvero il velato ordine) a partecipare alla gita aziendale a Roma negli studi televisivi, l’altra perché alla cena della sera prima non avevo socializzato coi colleghi, visto che mi ero seduto vicino all’unica persona che conoscevo, ovvero l’amico che mi aveva trovato quel lavoro. Sembrava di stare un po’ nella mega-ditta di Fantozzi, un po’ in un programma di Mtv. Da allora ho capito che è meglio evitare tutti i lavori pagati a provvigione, almeno fino a quando potrò permettermi di essere un po’ “choosy”…

Nella ristorazione, soprattutto, il ricorso al lavoro nero appare sistematico:

C. (ex studentessa di Lettere): Lavoravo la sera da Vinandro, un ristorante in piazza a Fiesole. Due sere la settimana. I giorni li stabilivamo a inizio settimana, ma a volte me li cambiavano all’improvviso. Lavoravo a nero, a 6 euro e 50 l’ora. Con me c’era un ragazzo fisso che lavorava con una specie di contratto, prendeva 700 euro per 5 sere la settimana. Era un contratto di merda, ma lui aveva la necessità di avere un lavoro stabile, non poteva permettersi nessuna brutta sorpresa. Mi dà fastidio lavorare a nero, però in fondo me lo devo far andar bene, perché almeno ho una certa flessibilità anch’io che mi permette di studiare durante le sessioni d’esame.

O. (studentessa di Economia): Ci sono due soci che possiedono vari locali e ristoranti: Joyce, J.J. Cathedral, J.J. Hill, Le Lance, Il Povero Pesce e Il Pallaio. Prima si era tutti integralmente al nero, ora fanno a tutti i contratti a chiamata, per paura dei controlli. Funziona così: tu lavori circa 35 ore a settimana e prendi 700 euro, ma solo 5 ore sono in busta, il resto è al nero. Se arriva un controllo, formalmente è tutto in regola, il capo dice di avermi appena chiamata. Devo lavorare per forza, la mia famiglia non è più in condizione di aiutarmi. Lavoro qui perché non è che da altre parti è meglio. Anzi, almeno lavoro con altri amici e le ore passano non troppo lentamente. Finita l’università spero di fare altro, naturalmente.

A. (liceale): Pochi anni fa, quando avevo 16 anni, ho lavorato per un po’ al ristorante Risorgimento in San Frediano. Sono stata assunta tramite un’amica che aveva più o meno la mia età: di fatto prendevano a lavorare solo ed esclusivamente persone giovani e di sesso femminile. Eravamo in due a lavorare lì, ma ci facevano lavorare separate per spendere meno e far sì che ci dessimo più da fare. Lavoravo dalle sei di pomeriggio alle una di mattina, e poi il giorno dopo andavo a scuola. Mi pagavano 7€ l’ora, ovviamente tutto a nero. I soldi me li davano alla cassa, quindi per me era impossibile avere delle mance. Ricordo che la cucina era sporca, e la cura prestata al piatto cucinato pari a zero. In più ricevevo un trattamento pessimo, venivo spesso sgridata e mi urlavano contro in maniera pesante, anche insultandomi.

I. (studentessa di Scienze politiche): Sono del ’91, ho lavorato al ristorante Le Colonnine in via de’ Benci 6 tra il Maggio e l’Agosto del 2009, mentre facevo il liceo. Non ho mai avuto un contratto e venivo pagata 5,50 euro all’ora. Facevo la cameriera. Non ho mai visto un posto dove igiene e qualità del cibo vengono così poco curate, ma dove soprattutto quasi tutto il personale è costretto a emigrare nella vicina piazza Santa Croce in caso di controlli, cosa che è successa più volte. Oltre a questo non sono mai stata trattata peggio, dovendo sopportare gli urli in faccia di fronte a tutta la clientela e le avances irrispettose del padrone, Marco, cinquantenne. Voglio dire, mi sembra mostruoso: lui è comunque in una posizione di potere e non si dovrebbe permettere di usarla in questo modo.

L. (studentessa di Scienze della formazione): Io sono del ’90, ho lavorato alle Colonnine tra Maggio e Ottobre del 2007 e tra Dicembre e Gennaio 2009/2010. Ero senza contratto a 5 euro l’ora. il cibo era tutto precotto, classico posto per turisti ingenui, l’ambiente veramente spiacevole, soprattutto a causa della mancanza di rispetto da parte di Marco, il capo. C’erano, oltre a studenti, anche dei ragazzi immigrati, alcuni di loro senza contratto, o con turni terribili, o entrambe le cose. E’ davvero strano che non sia mai stato scoperto niente a proposito di queste irregolarità. Io comunque, alla fine della mia esperienza lavorativa li ho querelati, anche se con scarso risultato.

I. (studente di Antropologia): Sono dell’88, ho lavorato alle Colonnine tra Marzo e Settembre del 2010, mentre studiavo Studi antropologici all’università di Firenze. Senza contratto e sotto il minimo sindacale, 4,50 euro all’ora. A proposito di questo è possibile che il proprietario, Marco, abbia 7-8 ristoranti a Firenze e un totale di circa 10 persone sotto contratto? Oltre a subire questo danno noi lavoratori dovevamo subire la beffa dei suoi millantati agganci e poteri nelle istituzioni, perché, citando lui, -non costerà tanto la testa di un consigliere comunale, qui a Firenze si comanda noi-. Una volta mi ha scoperto che mangiavo fuori dall’orario stabilito ed è andato in cucina a proferire insulti razzisti del tipo -razza di merda- contro il cuoco arabo che mi aveva preparato da mangiare.

I brani riportati sono esempi delle condizioni di lavoro che un numero consistente di giovani svolge a Firenze per pagarsi un affitto, gli studi, le vacanze e i consumi, appena smette di dipendere completamente dalla famiglia. Che scenario evocano le interviste raccolte?

La legge Treu del centrosinistra (1997), la legge Biagi del centrodestra (2003) e la riforma che il governo Monti sta operando in queste settimane, sono accomunate dalla volontà di ristrutturare il mercato del lavoro, favorendo la flessibilità in entrata (precarietà) e in uscita (licenziamenti) dei lavoratori. Si liquidano così il maggior numero di lavoratori in possesso di qualche diritto alla “rigidità” per investire su forza-lavoro destrutturata, a tempo determinato o a progetto, dove gran parte degli oneri fiscali sono affidati alla collettività. Il contratto di apprendistato, la proliferazione di agenzie interinali, l’appalto di commesse a cooperative che rimpiazzano le pratiche svolte un tempo da dipendenti pubblici, i contratti a progetto sono gli strumenti di questa trasformazione. In questo quadro, nonostante le statistiche dell’Istat segnalino la moltiplicazione della condizione di neet (giovani che non studiano e non lavorano), assistiamo a un numero crescente di lavoro destinato a studenti universitari o a giovani appena laureati. Dal momento che l’Istat fatica a tener conto delle situazioni sommerse e destrutturate, la contraddizione tra le due tendenze si scioglie parzialmente.

M. (ex studente di Lettere): Per pagarmi un affitto e le altre cose, durante l’Università ho fatto ogni genere di lavoro. Ne ho cambiati almeno 7. Spesso in nero, ma anche col contratto a progetto e a tempo determinato. Era frustrante, nel lungo periodo, dividere in due la mia attenzione: le ore di studio e le ore di lavoro. Ne ho cambiati così tanti perché studiando non mettevo mai tutto me stesso nel lavoro, nel migliorare le mie condizioni e nel trovare un certo appagamento, perché dove mi impegnavo davvero era lo studio. Quando mi sono laureato ho iniziato a lavorare nel campo che mi interessa, l’editoria. La cosa sorprendente è che, nonostante avessi una certa qualifica e investissi molto in quella carriera, dal punto di vista delle condizioni di lavoro non cambiava niente rispetto ai lavoretti precedenti: tutto un alternarsi di stages, contratti a progetto, mancato rinnovo, trasferimento in una nuova azienda e via tutto da capo, tirocinio, contratto a chiamata…

Che siano cooperative sociali, ristoranti, esercizi commerciali, call-center, supermercati, giornali, case editrici, impieghi comunali, studi di architettura; che si parli di tirocinii, di contratti di formazione, di part-time, di lavori saltuari, a nero o con partita iva, di lavori fatti per necessità, per arrotondare e accompagnare gli studi o, al contrario, per avviare una carriera professionale, poco cambia: ovunque si destina una quota di lavoro ai giovani in formazione. M. ci spiega bene il perché:

M.: Oggi ci richiedono un percorso di formazione pressoché infinito, dove non c’è una vera soluzione di continuità tra Università, stages, corsi di aggiornamento, master, dottorato di ricerca, impieghi precari, praticantato e impieghi un minimo più stabili. Non c’è nemmeno bisogno di pensare a una strategia particolare organizzata intorno alle riforme dell’Università. E’ sicuramente vero che l’Università è stata dequalificata, per dequalificare il lavoro. Ma il meccanismo è molto più semplice: gli anni di formazione sono sempre più lunghi, e mentre si studia è naturale cercare dei lavori flessibili. E i datori di lavoro non cercano altro che questo. Possono sfruttarti il doppio perché sei tu che sei costretto a chiedergli un trattamento del tutto destrutturato. Il tempo passa e sei nei fatti sempre un tirocinante.

Il sistema si regge sull’incontro di due domande di flessibilità: la flessibilità che richiede lo studente-lavoratore, impegnato in un frustrante percorso di formazione tanto ossessiva quanto dequalificata, e la flessibilità che l’impresa richiede per abbattere il costo del lavoro. Quando il percorso di studi finisce, al lavoratore viene imposta, anche per mezzo di una continua richiesta di aggiornamento, la stessa identica flessibilità, che adesso difficilmente gradisce. Pescare tra i giovani vuol dire per il datore di lavoro risparmiare denaro. Poco cambia se l’impresa in questione è il Comune di Firenze stesso:

R. (studentessa di Psicologia): Avevo saputo che ai Nidiaci, un centro giovani del Comune, c’era bisogno di una sostituzione come educatrice. Un amico che già ci lavorava ha fatto il mio nome e mi hanno preso. Mi chiamavano quando avevano bisogno e dovevo presentarmi immediatamente. Pagavano bene, 20 euro lorde l’ora. Ma ero un tappabuchi, di fatto non facevo niente, perché non mi hanno fatto formazione e andando sporadicamente non era possibile programmare nessun lavoro coi ragazzi. Era tempo perso per tutti e il mio lavoro era dequalificato. Tutto questo per non aggiungere un altro lavoratore con un regolare contratto, che invece sarebbe servito. Mi pagavano e tappavano il buco, poi ciao ciao.

G. (studente di Lettere): Da 9 anni faccio l’operatore servizi educativi per il Comune di Firenze. Cioè, fo il bidello all’asilo nido. Ho fatto il concorso per fare le supplenze. Ci chiamano per periodi di 2 settimane, ogni due-tre mesi circa. Con questo reddito da solo non ce la faccio, quindi devo prendere altri lavori. E’ successo spesso che i lavori si accavallassero, perché dal Comune ti chiamano all’ultimo e magari hai già preso impegni per i giorni seguenti. Una volta potevi rifiutare senza problemi, oggi non più. Devi avere un giustificato motivo, che non può essere né lo studio per un esame universitario né un altro lavoro. In pratica, quando ti chiamano, deve essere la priorità. Dopo due rifiuti “ingiustificati” sei fuori dalle graduatorie. Questo è assurdo, perché è chiaro che si tratta di un lavoro che può essere svolto solo da chi lo usa per allungare. Che pensano, che si possa campare con 15 giorni di lavoro ogni tanto?

Un primo spunto a cui è giunta la nostra inchiesta è la connivenza tra università e mondo del lavoro nel disegnare questo orizzonte di precarietà per i giovani. Le riforme dell’istruzione hanno, da una parte, sempre più gerarchizzato, parcellizzato, dequalificato e tecnicizzato il sapere, per sottrarre al lavoratore ogni visione organica sui processi produttivi; dall’altra, hanno creato le condizioni affinché la domanda di forza-lavoro potesse contare su una schiera sempre più numerosa di lavoratori costretti dal percorso formativo stesso a ricercare lavori flessibili. Le riforme del sistema scolastico e le riforme del mondo del lavoro marciano dunque di pari passo, con effetti capillari e drammatici anche sul nostro territorio.

Più in generale, dai materiali raccolti si comprende come il ricorso al lavoro nero e la proliferazione incontrollata di contratti a termine o a progetto non sia un’eccezione da stigmatizzare moralmente ma un dato strutturale del mercato del lavoro fiorentino per quanto riguarda l’occupazione giovanile. Una condizione da aggredire politicamente.

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