Perchè liberarsi della legalità

Fin da bambini, grazie ai sorrisi amorevoli della mamma, impariamo cosa è giusto, mentre a impedirci di ripetere azioni sbagliate arrivano i rimproveri paterni. Usciti di casa, è la maestra che ci insegna a convivere con gli altri bambini: è necessario conoscere e rispettare nuove regole per fare il nostro ingresso nella società. Una volta interiorizzate le norme della società civile, siamo pronti per diventare perfetti cittadini: sappiamo quali sono i nostri diritti, i doveri e i divieti, cosa è giusto e cosa è sbagliato, cosa è legale e cosa è illegale.

Con la stessa fede con cui il credente si attiene alle leggi divine, il cittadino della democrazia occidentale si conforma alle leggi del suo paese, proposte da un governo o un parlamento democraticamente eletti e approvate dalla maggioranza parlamentare: in una parola, “giuste”.

E se per caso qualche sincero sostenitore della giustizia e della democrazia si imbatte in qualche contraddizione, trova una legge ingiusta, tende a puntare il dito contro un determinato governo, o partito, che fanno il proprio interesse e non rispondono ai suoi bisogni.

Si genera, quindi, un cortocircuito tra la soddisfazione dei nostri bisogni e le norme che dobbiamo rispettare, causato in primis dalla caratteristica fondamentale del sistema democratico-rappresentativo: la delega. Delegare,infatti, porta a chiedere, a fare affidamento su un tempo che non ci viene concesso, su delle capacità che crediamo di non avere, a lasciare ad altri, gli eletti, il potere di decidere sulle nostre vite.

Un’ altra limitazione della democrazia veniva notata persino da uno dei maggiori sostenitori della democrazia liberale, Tocqueville, nel 1835 :“Non vi è un monarca tanto assoluto che possa riunire nelle sue mani tutte le forze della società e vincere le resistenze, come può farlo una maggioranza investita del diritto di fare le leggi e di metterle in esecuzione. [...] Inoltre, un re ha soltanto un potere materiale, che agisce sulle azioni ma che non può toccare le volontà, mentre la maggioranza è dotata di una forza, insieme materiale e morale, che agisce sulle volontà come sulle azioni e che annienta nel tempo stesso l’azione e il desiderio di azione.” Si tratta di una maggioranza fallace, creata culturalmente e politicamente per garantire il consenso e assopire la conflittualità sociale, e che nulla ha a che vedere con la maggioranza delle persone e dei loro bisogni. E’ sempre più grande, infatti, il numero di lavoratori licenziati o che rischiano il posto di lavoro, di giovani precari, di famiglie senza casa e sfrattate. E questa maggioranza può fare paura.

Al di là delle contraddizioni insite nell’impalcatura democratico-rappresentativa, nella sua veste più formale, ce ne sono altre che si palesano in modo sostanziale. In un periodo come questo, in cui la crisi e i tentativi di ristrutturazione del sistema economico capitalista richiedono la revisione delle istituzioni e delle norme che garantiscono la riproduzione del sistema stesso, molte garanzie e diritti conquistati o concessi negli anni passati, vengono messi in discussione e smantellati. In Italia ne abbiamo fatto esperienza attraverso le politiche dell’appena terminato governo Monti, che hanno favorito l’istituzionalizzazione del precariato, le privatizzazioni,un sempre maggiore sfruttamento e minori garanzie sul lavoro. Per non parlare del palesarsi della messa in discussione dell’essenza stessa della democrazia rappresentativa, con il susseguirsi di ben due governi più o meno esplicitamente tecnici (l’ultimo democraticamente eletto è stato il governo Berlusconi!) e che hanno ormai perso ogni parvenza di voler rappresentare gli interessi e i bisogni degli elettori, come hanno dimostrato le ultime elezioni.

Malgrado le contraddizioni palesi di un sistema che viene definito “potere del popolo”, il sistema democratico-rappresentativo continua ad essere considerato l’unico possibile. Questo perché è innanzitutto un’ideologia, l’ideologia che è risultata vincente poiché funzionale alla classe dominante. E in quanto tale essa ha bisogno di riprodursi e di auto-approvarsi continuamente. A svolgere questo compito ci sono i cosiddetti Apparati Ideologici di Stato: la famiglia, la scuola, la chiesa e i media. Gli apparati ideologici svolgono la doppia funzione di propagazione e conservazione delle norme sociali e delle leggi di uno Stato e di creazione del retroterra culturale affinché certe norme e leggi possano essere approvate, con la certezza che trovino consenso tra la popolazione. Così, in Italia, si diffonde la paura dell’immigrato, si sbattono i volti di stupratori, di “mostri” stranieri, in televisione e sui giornali, per poi realizzare leggi persecutorie anti-clandestino e costruire C.I.E., si mettono su campagne anti-degrado per garantire più controlli, ovvero più polizia e telecamere nelle strade sempre più vuote, si imbastisce la cantilena dello sviluppo e dei sacrifici necessari per facilitare licenziamenti e sfruttamento. La funzione di questi apparati è fondamentale, in quanto hanno il potere di rendere condivisibile e far proprio un sistema di leggi, che altrimenti rimarrebbe sconosciuto e autoreferenziale.

Ma come ogni sistema di norme, anche quello democratico ha le sue anomalie, le sue devianze, che vanno soppresse, emarginate e usate come esempio da non seguire. E qui entra in gioco un altro strumento della legalità: gli Apparati Repressivi di Stato. Anche questi hanno un duplice ruolo: quello di dissuadere dal deviare e di punire la devianza. Essi, infatti, con la loro stessa esistenza fungono da deterrente per eventuali atti definiti illegali, mentre, quando puniscono, contribuiscono a creare l’identikit del deviante, a fornire l’esempio da non seguire. Entrambi questi apparati adottano un sistema educativo antico, quello basato sul premio e sulla punizione. Così ci educano, premiandoci prima con sorrisi o lecca-lecca in famiglia, poi con l’accettazione, il merito, il reddito, i diritti, il successo nella società, mentre chi devia deve scontare punizioni, morali e fisiche, come il voto di condotta, la bocciatura, l’esclusione, l’umiliazione, la gogna sociale, il manganello o le sbarre.

In questo senso la scuola ha un ruolo dominante, rispetto agli altri apparati, nell’educare all’ideologia e nel correggere o reprimere la devianza. In quanto tale è anche uno degli spazi in cui è possibile prendere coscienza della sua funzione e agire direttamente per cambiarla.

E nel 2008 è stata proprio la scuola il luogo che ha ridato vita a un movimento che, partendo dall’opporsi alla riforma dell’istruzione varata dall’allora ministro Gelmini, in un momento in cui la crisi economica e le soluzioni offerte dai governi facevano intravedere i sacrifici che di lì a poco avremmo iniziato a pagare, aveva le potenzialità di attuare una critica sistemica, e nei successivi due anni avrebbe dato vita a una lettura collettiva e a pratiche di lotta che avrebbero dato sostanza allo slogan “noi la crisi non la paghiamo”.

Nell’illegalità delle occupazioni e dei cortei non autorizzati, abbiamo messo in discussione i limiti posti ai nostri spazi e al nostro tempo, abbiamo ridefinito i rapporti, scalfendo l’alienazione e l’individualismo in cui tentavano di costringerci, abbiamo ritrovato la capacità di stare insieme e di agire collettivamente.

Malgrado un iniziale “appoggio” da parte di alcuni organi di stampa (Repubblica e affini), che hanno tentato di sfruttare in senso propagandistico antiberlusconiano la critica posta in essere dal movimento studentesco, sono ben presto entrati in gioco gli apparati repressivi. A Firenze hanno colpito quasi cento persone, con un’operazione poliziesca che ha previsto denunce, obblighi di firma, arresti preventivi e l’accusa, per 6 ragazzi e ragazze, di associazione a delinquere. Tali apparati hanno agito per ridefinire i confini della legalità, messi in discussione da migliaia di studenti che invadevano le piazze con cortei non autorizzati, bloccavano le strade e occupavano scuole e università.

Come abbiamo detto, però, gli apparati repressivi hanno anche una funzione educativa e di definizione della devianza. E in tal senso hanno agito anche a Firenze, colpendo un centinaio di studenti per reprimere un intero movimento, dipingendo quei pochi come coloro che hanno oltrepassato il confine del consentito e in quanto tali da punire, tentando di spingere l’intero movimento a tornare nei limiti della legalità.

E’ interessante come questa stessa legalità, entro la quale ci costringono oggi, veda tra i suoi diritti molte conquiste sociali frutto dell’illegalità di ieri, pensate nella clandestinità e ottenute con pratiche illegali (si pensi ai primi scioperi e manifestazioni, inizialmente considerati dei reati, puniti con licenziamenti in blocco o repressi nel sangue) e come queste pratiche abbiano perso tutto il loro potenziale rivoluzionario nel momento stesso in cui sono state riassorbite dal sistema, legalizzate, istituzionalizzate, diventando opposizione controllata e gestita, concertazione, cogestione dello sfruttamento.

Chiediamoci quindi se esista via legale per uscire da un sistema che necessita di questo concetto per riprodursi e che ne definisce il significato, se la loro legalità possa coincidere con i nostri bisogni e la dignità delle nostre vite.

È evidente che la legalità non è un valore, ma una forma, un principio vuoto che fa riferimento al sistema di leggi in cui viene adottato. Esso cambia, nel corso della storia e nei diversi luoghi geografici, ma soprattutto esprime le esigenze politiche e culturali di coloro che stabiliscono il sistema di leggi, in due parole, la classe dominante.

Chiediamoci se un tale principio possa definire o guidare le nostre lotte e se abbiamo ancora voglia di chiedere, alle istituzioni, ai governi, ai partiti, la garanzia dei nostri diritti, il soddisfacimento dei nostri bisogni materiali e non, la possibilità di vivere bene, o se è arrivato il momento di prendersi tutto questo.

Con ciò non rivendichiamo l’illegalità come rivoluzionaria di per sé, poiché è evidente, in Italia soprattutto, l’esistenza di pratiche illegali, dal lavoro nero alla mafia, protette da governi e amministrazioni, che non minano in alcun modo il sistema nel suo complesso, in quanto hanno come unico e solito obiettivo il profitto. Per raggiungere tale obiettivo vengono percorse entrambe le strade della legalità e dell’illegalità, a seconda di quale sia tatticamente più utile.

Così anche chi critica, protesta, lotta, deve costruirsi i propri spazi di azione senza far propri i limiti che gli apparati di stato tenteranno di porre.

Sosteniamo tutte le lotte che si prefiggono come obiettivo quello di cambiare lo stato di cose attuale, utilizzando tutti gli strumenti necessari, siano essi legali o meno.

Se chi lotta è delinquente, siamo tutti criminali.

Per approfondire, leggi gli altri articoli sul processo al Movimento fiorentino, cliccando qui:

http://www.inventati.org/cortocircuito/tag/processoalmovimento/

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