Castello – Centro Storico Lebowski 1-1

ATL. CASTELLO: Bianchini, Bruni F., Matucci, Pantiferi, Bruni L. (90′ Biagi), Gerini, Brunelli, Narangoda, Viliani, Sardella (70′ Cortale), Cherici (75′ Giuntini). A disp.: Capogiri, Papola, Cherubini, Dragoni. All.: Alessandro Carmannini.

C.S. LEBOWSKI: Cerboneschi, Capparelli P., Coppini, Pini (63′ Montuschi), Formigli, Gamannossi, Fiorentini (74′ Panerai), Sima, Migliorini (79′ Serrau), Melis, Spolveri. A disp.: Barison, Daddi, Valente, Mascalchi. All.: Andrea Serrau.

ARBITRO: Baschieri di Lucca.

RETI: 6′ Migliorini, 40′ Bruni L.

C’è un dibattito, sempre più diffuso, su cosa sia il “calcio popolare”. In tutta Italia si stanno infatti moltiplicando le squadre fondate dai tifosi, che decidono di abbandonare o mettere tra parentesi il calcio della serie A per ripartire dalle categoria inferiori. La lista delle cose che non vanno è più o meno condivisa: la repressione, l’invadenza delle televisioni, il caro-prezzi, l’atmosfera di plastica dei nuovi stadi, l’arroganza dei presidenti e della Federazione, gli scandali e il gol in fuorigioco per la juventus, Beppe Signori che ce lo ricordavamo nel Foggia dei miracoli e termina la sua vecchiaia agonistica a truccare le partite, la flebo di Cannavaro e i gossip su Balotelli. Le ragioni sono mille, anche se possono essere sintetizzate nella mercificazione del gioco operata da Stato e mercato.

Le soluzioni alternative proposte, che sono l’oggetto del dibattito, presentano qualche differenza. Noi al Lebowski, per esempio, non abbiamo quasi mai parlato di “calcio popolare”, abbiamo parlato piuttosto di “calcio minore”. Perchè l’espressione “calcio popolare” per alludere al calcio dilettantistico non la capiamo bene. Quando il modo di vivere la squadra è quello istintivo nei tifosi, il calcio è “popolare” anche ai massimi livelli. Lo è in serie A come in Terza categoria. Le curve strapiene dalle 11 della mattina, le coreografie immense, le trasferte di massa dove il biglietto del treno lo pagava solo chi poteva, gli odii e le polemiche, le chiacchiere da bar, i ragazzi che scavalcano, la domenica rovinata dalla sconfitta per la squadra, le turbolenze. Sono cose “popolari”, no? Noi siamo ripartiti dal “calcio minore”, con tutte le difficoltà del caso, solo perchè nei campi di periferia c’era meno polizia, meno denaro, meno televisioni. Ma non ci siamo inventati niente di nuovo. Solo, i nostri modi di fare, che vogliamo conservare, sbattono contro meno muri.

C’è una frase del grande portiere dell’Unione Sovietica, Jashin, rivolta a un giornalista italiano, che racconta bene la bellezza del calcio quando riesce a non farsi sovradeterminare dal mercato: ‘’Ho giocato solo con la Dinamo e la Nazionale. So che da voi le cose vanno diversamente…da voi è normale cambiare casacca.[…]Da voi un buon giocatore si compra e si vende a suon di miliardi e da noi no. Da noi non si accumula una fortuna giocando a pallone, ma se si è bravi si può coltivare la propria passione ed essere applauditi negli stadi. Ma c’è un’altra differenza: da noi sono quaranta milioni i giovani e i ragazzi che giocano al calcio, in squadre ben organizzate, beninteso, nei campi sportivi, e non a palletta, per strada.’’

Se mi si chiederà di descrivere cos’è il “calcio minore” ai suoi massimi livelli, da oggi penserò a Castello – Lebowski. Due ottime squadre composte da atleti che giocano per attaccamento, passione e competizione. Un campo di terra incastonato in un rione popoloso e periferico, coi tetti delle case attorno. La tribuna piena di ultras, gli striscioni e le bandiere, da due ore prima della partita. Attorno al campo, aggrappati alla rete, più di 500 persone venute a vedere il big match. I bimbi della scuola calcio con le trombette e le bandiere biancoverdi del Castello, gente di ogni età, esperti di calcio, curiosi, giornalisti, genitori, arbitri, gente del quartiere, le compagnie di truzzi del posto. Petardi, cani e panchine.

 La giornata è meravigliosa e la partita inizia subito col botto. Il tempo di due verticalizzazioni, punizione dal limite un po’ defilato per il Lebowski, Pini calcia forte rasoterra, irrompe Migliorini in mischia e i grigioneri sono in vantaggio. Il Castello, a cui mancavano almeno tre giocatori importanti, potrebbe accusare il colpo. Invece col passare dei minuti si riorganizza e inizia a imporre il ritmo della partita. Il campo di gioco è molto piccolo, gli spazi si saturano immediatamente, e la qualità del terreno impedisce il fraseggio a terra tipico della squadra di Serrau.

 La partita si sviluppa dunque per trame verticali che non impensieriscono più di tanto le rocciose difese delle due squadre. Il risultato cambia di nuovo su effetti di un calcio da fermo. A pochi minuti dalla fine del primo tempo, Bruni, sicuramente il migliore in campo, su una punizione dai 16 metri disegna una parabola perfetta che scavalca la barriera e si posa sotto l’incrocio dei pali.

Il secondo tempo si muove sulla falsariga della prima frazione. Ad avere le migliori occasioni sono i biancoverdi su azione di contropiede. Ma Cerboneschi al 5′ sventa prima di piede e al 20′ blocca un colpo di testa di Sardella che sarebbe stato ancor più pericoloso se la palla fosse stata colpita in modo meno pulito dall’attaccante del Castello. Il forcing finale del Lebowski non produce nessun effetto e tranne un’emozione relativa a un gol annullato a mister Serrau, entrato negli ultimi minuti, per una carica sul portiere un po’ dubbia, c’è poco da registrare.

Anche nel calcio maggiore, nel grande calcio, ci sono dei momenti in cui tutte le impalcature dello spettacolo costruite sopra al gioco cadono, perchè prevalgono i sentimenti o la voglia di giocare, di non tirare indietro la gamba, di non abbassare il gomito. Mi viene in mente Zidane alla finale dei mondiali. E’ la sua ultima partita, sta portando la sua nazionale a vincere il mondiale per la seconda volta, è il migliore in campo, però sente una parola che non gli piace e si scorda di tutto. Secondo me è il bello del calcio.

C’è una lettera di Bruno Conti, ala della Roma e della nazionale campione del mondo in Spagna 82, al figlio Daniele, capitano del Cagliari di oggi. Daniele Conti ha segnato un gol importante contro il Torino, vede il figlio che guarda la partita ai bordi del campo, tra i raccattapalle, e istintivamente corre ad abbracciarlo. Suo padre il giorno dopo gli ha scritto questo: “Ricordo i primi momenti al Cagliari, l’esordio, i sogni, le difficoltà. Per anni ti sei portato sulle spalle quel cognome pesantissimo, ingombrante. Soffrivo quando la gente ti paragonava a me, non era giusto. Col tempo però, hai zittito tutti, poi li hai conquistati sul campo. Col talento, con la forza, col carattere. E in questo si, siamo uguali perché entrambi siamo testardi e corretti allo stesso tempo, non cerchiamo sotterfugi, guardiamo tutti in faccia a testa alta con la cultura del lavoro e della famiglia. I due gol al Torino mi hanno ricordato quello al Napoli nel 2008. Proprio in questi momenti vengono fuori gli uomini duri. E da capitano vero a fine partita, ti ho ascoltato commosso, hai dedicato la vittoria ai compagni e ai tifosi. Forse dal vivo io e tua madre non ti abbiamo ma realmente detto quanto siamo orgogliosi di te. Oltre ad aver onorato il nostro sangue in campo, hai portato avanti, grazie anche a tua moglie Valeria, i valori della nostra famiglia in una società complicata, problematica e superficiale, come faceva tuo nonno Andrea, muratore e padre di sette figli. E per questo, figlio mio, non smetteremo mai di ringraziarti”.

Non è un capolavoro letterario, forse in certi passi è pure un po’ retorica, ma questa lettera ci dice una cosa importante. Il calcio può essere un momento di condivisione di valori, di aggregazione trasversale e di solidarietà in un società problematica e superficiale come questa. Secondo noi, in una città come Firenze dove la solitudine aumenta con effetti a volte purtroppo tragici, c’è bisogno di Lebowski proprio per questi motivi. Ieri c’era tutto questo. Oggi mancano 4 partite. Può ancora succedere di tutto.

Tratto da: cslebowski.it

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