Cosa si dicono i padroni quando parlano dell’economia italiana?

Comprendere i cambiamenti della forma del sistema capitalistico non è un esercizio puramente intellettuale, ma il punto di partenza per impostare un intervento politico. La questione infatti è comprendere dove e in che condizioni vive e lavora la classe e, allo stesso tempo, come organizzare un’entità frammentata e impalpabile in una forza politica capace di innalzare i propri interessi. Da questo punto di vista è essenziale capire in che direzione sta marciando l’Italia (dentro l’Unione Europea), a quale modello di sviluppo il governo Renzi sta presiedendo, che progetti le classi dominanti hanno per il proletariato?

Una indicazione di metodo che ci siamo dati è di non scordarci mai di fare i conti con l’elaborazione e le indicazioni della borghesia. Per i padroni è necessario studiare con attenzione cosa accade agli investimenti che effettuano in ogni parte del mondo, dovendo anticipare le tendenze e crearsi le condizioni per sempre maggiori profitti. Di conseguenza, leggere i loro programmi e le loro aspettative permette di cogliere alcune direzioni verso cui è opportuno rivolgersi, per non restare impreparati.

A questo proposito, Il Sole 24 Ore del 9 maggio contiene in rapida sequenza tre articoli davvero chiari. Il tema è «Le vie della ripresa» e l’oggetto sono le relazioni tra governo, Europa e imprese. Il titolo è lapidario: «L’Italia sia leader industriale». La frase è un virgolettato del premier Renzi, che a Genova durante la sottoscrizione dell’accordo strategico tra Ansaldo Energia e Shanghai Electric ha annunciato le linee della politica industriale italiana. L’Italia «non sarà un grande parco a tema» ma deve tornare «leader in Europa per la produzione industriale», «la locomotiva d’Europa, grazie a quel genio italiano che nei momenti di massima difficoltà ha sempre trovato la forza per fare le cose più incredibili». Renzi ha continuato stigmatizzando chi annuncia per l’Italia un futuro tutto centrato sui servizi, sul turismo e sulla cultura, «settori su cui certamente dobbiamo investire e fare di più». Queste visioni non terrebbero conto delle «opportunità» che il mercato globale offre alla «nostra produzione industriale».

Il grande tema sfiorato dalle parole del premier è quello della collocazione italiana in Europa. Da questo punto di vista, il contemporaneo messaggio di Napolitano all’assemblea di Rete Imprese Italia è esplicito: «Invito tutte le energie del Paese» a sostenere «i primi segnali di ripresa» attraverso politiche di respiro europeo dirette a creare le condizioni per un rilancio della competitività». Dello stesso auspicio è il direttore delle politiche industriali di Confindustria, Andrea Bianchi. Quello che serve è «un cambio di passo», ha detto nel corso di un convegno sulle politiche industriali organizzato dalla Fondazione Economia Tor Vergata presso la sede del Parlamento europeo. E’ necessario uno «scatto» per trasformare il piano UE per l’Industrial Compact in un vero e proprio obbligo per tutti gli Stati: «Gli orientamenti contenuti nei documenti della Commissione sul rinascimento industriale devono diventare un accordo vincolante», per raggiungere davvero l’obiettivo di portare la quota manifatturiera di Pil continentale al 20% nei prossimi dieci anni. Il governo dovrà così implementare e attuare le misure contenute nel decreto Destinazione Italia di Letta, in direzione di un’uscita dalla crisi che non può avvenire senza una ripresa industriale.

Proprio di fianco alle dichiarazioni di Renzi, il giornale riporta la cronaca del secondo Forum economico italo-tedesco, svoltosi l’8 maggio a Roma. Alla presenza dei rispettivi ministri degli esteri, il forum ha rimarcato la profonda interconnessione delle due economie, legate da un interscambio commerciale che l’anno scorso ha superato i 100 miliardi. Le imprese tedesche hanno aumentato gli investimenti in Italia dai 30,2 miliardi del 2009 ai 33,1 del 2012 (il numero delle imprese italiane partecipate da quelle tedesche è aumentato nello stesso periodo di quasi 100 unità, da 1250 a 1345), mentre l’Italia ha esportato in Germania beni per 43,6 miliardi lungo il corso del 2013. «Un’Europa forte ha bisogno di un’Italia forte» ha affermato Frank-Walter Steinmeier, il ministro degli esteri tedesco. «Sono molto fiducioso sull’Italia: non sarebbe la prima volta che l’Italia esce rafforzata da una crisi. Conosciamo bene il potenziale industriale, la creatività e la capacità delle Pmi italiane, i brand che si impongono per qualità e bellezza, essenza del made-in-Italy. E diamo atto a Matteo Renzi per la risolutezza con la quale sta affrontando decisioni difficili. Noi in Germania ci siamo passati 15 anni fa, quando eravamo considerati “il malato d’Europa” e non è facile recuperare la competitività».

Di che natura è stato e che conseguenze sociali ha avuto questo «recupero» tedesco che ora viene proposto e auspicato per l’Italia?

Dai compagni de La cuoca di Lenin ci arriva un sintetico e chiaro contributo sul funzionamento del «modello tedesco» (leggi qui).

In sostanza, la Germania ha innalzato la propria competitività economica soprattutto grazie a tre fattori principali: la compressione dei salari, la spinta nel campo delle esportazioni, i tagli alla spesa pubblica. Esattamente le stesse linee programmatiche contenute nelle dichiarazioni di Renzi e dei suoi, e già all’opera nella prima parte del Jobs Act. Inoltre, fa da modello anche la gestione tedesca delle relazioni sindacali. L’accordo sulla rappresentanza sindacale, firmato lo scorso 31 maggio da Confindustria e CGIL-CISL-UIL, è stato definito un accordo «storico», una «svolta», un «avvenimento di prima grandezza per il Paese». Sul perché di tanta enfasi, Confindustria non le manda certo a dire; per bocca del suo vicepresidente per le relazioni industriali, Stefano Dolcetta, si esprime con chiarezza cristallina: «l’obiettivo a cui tendere è la prevenzione del conflitto». L’accordo prevede l’esclusione dalla rappresentanza e dai diritti sindacali connessi delle organizzazioni che non sottoscrivono il patto stesso e un un meccanismo di calcolo della rappresentatività che penalizza chi, come i sindacati conflittuali, non è firmatario di contratto nazionale. Inoltre intacca gran parte dell’autonomia delle singole RSU, soggiogandole completamente alle direttive nazionali dei sindacati confederali e prevedendo multe salate per i rappresentanti sindacali e per i lavoratori che proclamassero uno sciopero o altre iniziative di lotta non autorizzate dalle direzioni centrali. Noi ne abbiamo scritto qui.

La bozza iniziale del Jobs Act prevedeva l’entrata dei sindacati nei Consigli di Amministrazione delle aziende sul modello di partecipazione tedesco. Oggi invece l’orientamento del governo sembra andare verso la «cogestione», la Mitbestimmung tedesca, dove i rappresentanti dei lavoratori siedono insieme ai manager in alcuni organi direttivi delle aziende e contrattano, azienda per azienda, le condizioni e le retribuzioni dei lavoratori, funzionando così da veri e propri «uffici del personale».

Ricapitolando la semplice lettura de Il Sole che rendiconta i tre incontri istituzionali dell’8 maggio: il padronato è consapevole che senza una ripresa industriale non c’è crescita, riconosce la collocazione strategica dell’Italia in Europa e si propone di recuperare competitività attraverso l’attacco al costo del lavoro, sul modello del riuscito intervento tedesco di 15 anni fa. Per fare una simile operazione deve necessariamente prevenire il conflitto sui luoghi di lavoro, e per questo, al di là delle schermaglie tra Renzi e la Camusso, prevede per i sindacati confederali un ruolo strategico: i garanti della serenità della «giornata lavorativa». La direzione verso un ordine neocorporativo è incarnato proprio dalla pressante ricerca di istituti di incontro fra associazioni padronali e rappresentanze dei lavoratori, sul modello appunto della «cogestione» tedesca tanto promossa dal ministro degli esteri Steinmeier.

Questo almeno è quanto si dicono i padroni quando parlano di noi.

da http://clashcityworkers.org/index.php

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