Il capitalismo messo a nudo: lo sfruttamento dei lavoratori nel mondo del porno

New Statesman, Regno Unito- traduzione a cura di Internazionale

Come in altri settori, anche nella pornografia i lavoratori vengono sfruttati. Il commento di un’attrice

Lavorare nel settore della pornografia vuol dire parlare di cose (e farle, riprenderle, distribuirle e venderle) di cui solitamente non si parla in pubblico. Prima di girare una scena, gli attori parlano tra loro per scambiarsi preferenze e stabilire limiti. E quando parliamo del nostro lavoro, in pubblico o con uno sconosciuto appena incontrato su un treno, spesso le persone reagiscono come se, per una volta, sentissero di potersi confessare, di poter fare le domande sul sesso che non hanno mai fatto e di poter esprimere i loro segreti e le loro vergogne.

Ma c’è una cosa di cui non parliamo quasi mai: il compenso. E in questo siamo uguali a tanti altri lavoratori. Non voglio dire che non discutiamo delle nostre tariffe: chi paga quanto per che tipo di scene, quali sono le condizioni di lavoro su un determinato set e che tipo di compenso non monetario ci è stato offerto o abbiamo considerato accettabile. Ma ne parliamo sottovoce, discretamente, a volte scambiandoci informazioni imprecise.

Una volta un’attrice, molto famosa alla fine degli anni duemila, mi ha detto cha la sua tariffa per una scena di doppia penetrazione era di dodicimila dollari. Avevo appena cominciato a lavorare e avevo firmato un contratto in esclusiva con uno studio, una condizione molto vicina a quella di un impiegato. Non avendo avuto prima altre esperienze né come lavoratrice autonoma né con delle agenzie, non avevo termini di paragone per giudicare quella cifra. La tariffa però sembrava plausibile: essere penetrata da due uomini contemporaneamente, uno nell’ano e l’altro nella vagina, comportava senz’altro un rischio più alto di trauma meccanico. Le scene di doppia penetrazione erano rare, e rari erano anche le attrici disposte a fare il partner ricettivo, e come in qualunque altro mercato la scarsa disponibilità faceva aumentare il valore della prestazione.

Così, quando ho deciso di accettare una scena di doppia penetrazione e lo studio per cui lavoravo mi ha chiesto quanto volevo, ho risposto dodicimila dollari. Alla fine ci siamo accordati per la metà. Anni dopo ho scoperto che la collega che mi aveva convinto a chiedere un compenso più alto, per quel tipo di scene prendeva in realtà 1.200 o al massimo 1.400 dollari. In quel caso la scarsa trasparenza sulle tariffe e la mia prontezza nel credere a una balla colossale avevano giocato a mio favore. È stata una di quelle rare volte in cui l’attore esce vincente da una trattativa.

Di solito, invece, la scarsa trasparenza sui compensi fa sì che gli attori esordienti tendano a sottovalutare se stessi e il proprio lavoro. E questo ha due conseguenze: da un lato, non è detto che l’attore riesca poi ad alzare le sue tariffe fino a quelle standard; dall’altro, l’intera catena dei compensi ne risente. Se Susie Starr è soggettivamente attraente e oggettivamente celebre quanto Whitney Luv e lo fa per quattrocento dollari, allora gli ottocento dollari chiesti da Whitney cominciano a sembrare esagerati. Il capitalismo, per quanto ne so, è fatto da una serie di aziende che cercano di ottenere il massimo da un lavoratore pagandolo il meno possibile. In questi rapporti, il lavoratore dovrebbe puntare al massimo compenso che può ottenere per il minor lavoro possibile. Insisto sul “può ottenere”, perché una tariffa stellare non serve a nulla se nessuno è in grado di pagarla o è disposto a farlo.

In Graphic depictions, il film che ho finanziato e diretto nel 2014, hanno recitato dieci attori, compresa me. Solo uno di loro è stato ingaggiato attraverso un’agenzia, e ’agente mi è costato cento dollari oltre al compenso dell’attore. Non ho preso soldi per le due scene in cui recito con dei partner né per quella in cui, all’inizio, mi masturbo senza scambio di fluidi. Sarebbe stato assurdo. Abbiamo dato 4.500 dollari ai performer con un pene, il che fa in media 750 dollari a scena per attore, e 4.200 ai performer con una vulva, per un compenso a persona e a scena di 1.050 dollari. Come mai gli attori sono pagati così tanto? Chi lavora in questo settore deve spostarsi fino al set (a volte da un’altra città, da un altro stato o perfino da un altro paese), garantire un livello straordinario di cura del proprio corpo e fare dei test per le malattie sessualmente trasmissibili, che costano tra i 155 e i 210 dollari l’uno.

Fare sesso davanti a una cinepresa è ancora un lavoro molto stigmatizzato, che compromette le successive possibilità di impiego. Anche facendo i test e usando precauzioni, esiste un piccolo rischio di contrarre malattie attraverso il sangue, e un rischio più significativo di prendere la clamidia e la gonorrea. Sono malattie facili da curare ma richiedono dei costosi trattamenti antibiotici e a volte costringono a rinunciare ad alcuni ingaggi.

Poi c’è il rischio di traumi meccanici che, per quanto rari, possono portare a un ricovero e alla temporanea inattività. Per non parlare dei disturbi da stress fisici ripetuti che si accumulano durante la carriera, legati alle lunghe scene di sesso in posizioni che non devono bloccare la cinepresa e la luce. Per i giornalisti freelance – l’unica altra professione con cui ho una certa familiarità – i rischi sul piano fisico sono minori, ma bisogna considerare altri fattori, come il numero di revisioni richieste e il compito, ormai accettato, di portare traffico verso l’articolo una volta che è online. Bisogna anche considerare il prestigio di scrivere per una certa testata.

Ogni lavoro ha la sua scala di tariffe standard e il suo complesso sistema di costi, rischi e valori aggiunti che vanno esaminati. Il modo migliore per consentire ai lavoratori di ottenere un giusto compenso è portare tutte queste cifre e questi fattori alla luce del sole e discuterne apertamente.

Stoya è una modella, scrittrice e attrice pornografica statunitense di 29 anni.

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