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pubblicato il 19.07.07
Processo di Torino. Sentenza al 30 ottobre
·

30 ottobre ‘07 sentenza per i
Appuntamenti
17.07.2007
Dopo oltre 5 ore di udienza (per i fatti di Torino del 18 Giugno 2005) dove son passati oltre 10 testimoni della difesa e le dichiarazioni rilasciate dai Compagni imputati, il processo è stato fissato per il 30 Ottobre 2007 dove la Giuria emetterà la sentenza.

Ecco 2 dichiarazioni scritte e lette davanti ai giudici, le quali I compagni Tobia e Puta hanno chiesto di postarle su internet:

Autodifesa di Tobia al processo per devastazione e saccheggio per il corteo antifascista del 18 giugno 2005 letta nell’udienza del 17 luglio 2007

L’imputato è stato interrotto più volte dal presidente del tribunale nelle parti in cui criticava l’opera di Tatangelo e di Chiamparino.
Della parte relativa a Sole e Baleno non è stata permessa la lettura, perché ritenuta non pertinente ai fatti in esame. L’intero testo è stato consegnato agli atti.

Premetto che quanto dirò è responsabilità solo mia e non dei miei coimputati.

Signori giudici,
Io sono qui davanti a voi per rispondere di un grave delitto: devastazione e saccheggio.
Ma prima di essere giudicato da voi io mi sono sottoposto al giudizio di un altro tribunale: quello della mia coscienza.
Il mio unico reato perpetrato è l’antifascismo e io sono fiero di essere perseguito per questo motivo.
Uomini illustri mi hanno preceduto: l’anarchico Errico Malatesta, il comunista Antonio Gramsci, il socialista Sandro Pertini. Di fronte alle persecuzioni che essi – e numerosi altri – patirono per la difesa dei propri ideali, i miei guai giudiziari sono ben misera cosa.
Il fascismo – come tutti sanno – è quella concezione politica che vede il forte – su scala gerarchica – dominare il debole, attraverso la costituzione di uno Stato totalitario da cui siano bandite ogni forma di opposizione politica o di semplice dissenso e gli avversari, quando non siano eliminati fisicamente, siano ridotti all’impotenza attraverso la repressione poliziesca: il carcere, il confino (definito recentemente anche “villeggiatura”), l’ammonizione, l’arresto preventivo “in determinate contingenze”.
Essere antifascista è mio intimo convincimento e credo fermamente che tale patrimonio etico debba essere presente non solo nel DNA di noi “sovversivi” ma anche in quello di ogni sincero democratico.
L’antifascismo è parte integrante della mia esistenza, non solo attraverso la lotta politica quotidiana, ma anche sul piano della conservazione della sua memoria storica, come attestano le dichiarazioni di stima e di simpatia per la mia persona – presentate agli atti – da parte dell’Istituto Piemontese per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea, del Centro Studi Piero Gobetti e dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, associazioni culturali rette da insigni rappresentanti della cultura antifascista torinese, la cui amicizia mi onora.
Ma io non mi trovo in quest’aula per essere giudicato come antifascista, bensì come devastatore e saccheggiatore.
Queste accuse prive di ogni fondamento logico – a prescindere dalla loro rilevanza penale – offendono la mia persona e quella coerenza profonda ai miei ideali a cui si è sempre uniformata ogni mia azione.
Non sono venuto qui a difendermi. Questo è compito della difesa che svolge egregiamente.
Non intendo quindi parlare di quei 6 secondi di attrito con la PS che ci hanno condotto in carcere, seguito da 6 mesi di arresti domiciliari e 3 di obbligo di firma trisettimanale, in quanto ritenuti individui oltremodo pericolosi per la comunità. Un vero accanimento persecutorio se equiparato all’entità dei fatti accertati, e quand’anche vi fosse dimostrato un nostro coinvolgimento diretto. Accanimento che continua tuttora, come dimostra il recente arresto degli universitari rei di essersi opposti ad una manifestazione neofascista all’interno dell’ateneo cittadino, detenzione richiesta dallo stesso Pm che rappresenta l’accusa in questo processo. In un paese normale simili addebiti potrebbero essere passibili al massimo di denuncia a piede libero. La linea dura adottata attualmente dalla procura torinese dimostra chiaramente che, come nel nostro caso, si vogliono colpire non i reati eventualmente commessi ma l’impegno antifascista che si muove al di fuori degli ambiti istituzionali.
Noi non siamo devastatori né saccheggiatori. Ad altri, mascherati sotto il mantello della legalità e protetti dai codici, compete questo titolo.
L’unico reale pericolo da noi rappresentato è quello delle nostre idee, delle nostre insane utopie, della nostra scomoda presenza nel tessuto cittadino, della nostra non acquiescenza alle politiche istituzionali liberticide, sia di destra che di sinistra.
Noi facciamo parte di un movimento generale che si oppone non solo alla guerra ma anche alle invasioni militari camuffate da missioni di pace, che si oppone allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che si oppone a questa società repressiva del razzismo della galera e dei lager (detti eufemisticamente Centri di Permanenza Temporanea) che si oppone a tutte le devastazioni ambientali (anche a quelle fatte in nome di un falso progresso), un movimento che non accetta compromessi con la politica reale e che non ha abbandonato l’idea di una radicale trasformazione che renda la società a misura d’uomo e non del capitale, affinché ogni uomo o donna sul pianeta vengano considerati come individui e non come merci.
Per questo noi siamo pericolosi e da rinchiudere.
Rammento alla corte che, sebbene tutti individuati dalla Digos, i componenti della squadra degli accoltellatori del Barocchio – ad eccezione dell’unico ritenuto colpevole di tentato omicidio – non sono stati arrestati e non hanno subito misure cautelari, né fastidi di alcun tipo. Al contrario di noi, i loro nomi e le loro fotografie non sono comparse né sui giornali né nelle televisioni. E persino l’accoltellatore omicida ha avuto il riguardo – sull’unico giornale che l’ha pubblicata – di veder stampata la propria immagine con una larga striscia nera che gli copriva gli occhi. Siccome le foto segnaletiche sono fornite alla stampa dalla Digos, è palese – non ce lo siamo inventato – che qualcuno di fatto gode di ampie protezioni in questura mentre qualcun’altro all’inverso deve subire tutto il rigore della legge e della criminalizzazione mediatica. I fascisti – in fondo – non costituiscono alcun pericolo sociale: accoltellano solo gente come noi.
Tra chi – con chiara intenzione omicida – accoltella al ventre persone a lui sconosciute ma di diversa estrazione politica, colte nel sonno, e chi – dopo una brutale quanto inutile carica poliziesca – distrugge un
tavolino per autodifesa, non ci devono essere dubbi di sorta su chi sia il vero criminale.
Evidentemente la vita umana – nel caso di un anarchico o di un comunista antagonista – vale molto meno del tavolino di un bar.
La società può dormire sonni tranquilli. I violenti, coloro che volevano solo manifestare il proprio dissenso e che – prima di essere caricati dalla PS – non avevano commesso alcun reato, hanno subito il giusto castigo: carcere, arresti domiciliari, firma. E tutto ciò sotto la spada di Damocle di un capo d’accusa assurdo che – se sarà da voi confermato – contempla delle pene altissime. Fino a 15 anni.
E questo mentre i bravi ragazzi dal coltello facile possono continuare indisturbati le loro vili aggressioni senza che la legge si accanisca nei loro confronti.

Signori,
A noi sono stati rubati 9 mesi della nostra esistenza perché alcuni manifestanti – nulla prova un nostro coinvolgimento in tali episodi – hanno bruciato qualche tavolino e qualche sedia, mentre chi ha accoltellato i nostri compagni o e già fuori di prigione o non c’è mai entrato.
E questo mentre le aggressioni con coltelli nei confronti dei ragazzi di aree politiche antifasciste continuano con un’escalation preoccupante: a Roma, Milano, Verona e in tantissime altre località.
E questo mentre i vari consigli comunali anche di città medaglie d’oro della resistenza (come è il caso di Torino) si preoccupano, discutono, invocano sgomberi solo per i “disagi” creati dai centri sociali e non
sprecano una parola (come è il caso del sindaco della nostra città) per condannare le aggressioni fasciste a mano armata.
Paradossalmente accoltellare un avversario politico (ovviamente se l’autore del gesto è di destra) per la procura torinese è penalmente meno grave che la resistenza alla forza pubblica.
Non c’è da stupirsi quindi se il fenomeno cresce. Chi accoltella gode della semi-impunità mentre chi rovescia una sedia la paga duramente.
La recentissima aggressione di Villa Ada a Roma, dove una squadraccia di una cinquantina di fascisti armati di coltelli e bastoni hanno aggredito dei pacifici spettatori di un concerto – ferendone due in modo grave – solo perché colpevoli di essere andati ad ascoltare un complesso notoriamente di sinistra, dimostra l’ampiezza del fenomeno. E questo perché ci troviamo di fronte ad un caso eclatante che è balzato sulla cronaca nazionale, ma sono tantissime le aggressioni in tutta la penisola anche se, fortunatamente perché di minor gravità e con minori danni, non arrivano sulle prime pagine.

Come ho già detto non sono venuto qui a difendermi e nemmeno a discolparmi.
Non confuterò quindi le affermazioni di parte portate in quest’aula dagli agenti Digos perché è a tutti noto che si tratta di pratica corrente in ogni processo per reati di piazza, dovuta al “senso di appartenenza” e
per espresso ordine del capo della polizia.
Sebbene le azioni di cui mi si accusa – così come sono state formulate dal pubblico ministero – ripugnino alla mia coscienza, io rivendico tutto quello che ho fatto il pomeriggio del 18 giugno 2005, manifestando pubblicamente e a viso aperto il mio antifascismo.
Io quel giorno ero pervaso da un’indignazione enorme per quanto era accaduto: un mio caro amico era finito all’ospedale gravemente ferito, rischiando la vita senza alcun motivo, solo perché la pensava diversamente da una banda di assassini nazisti, che non aveva mai visto né incontrato.
Volevo manifestare pubblicamente tutto il mio sdegno, informare la città intera di quanto era successo, comunicare alla società civile che il fascismo era sempre in agguato e pronto ad uccidere.
Nonostante tutti i divieti di PS lo consideravo, e lo considero tuttora, un mio diritto. E volevo esprimerlo in centro, non sul lungo Po o sulla tangenziale.
Questo è il mio unico reato.
Se abbia rilevanza penale o meno, sta a voi deciderlo. Il tribunale della mia coscienza mi ha già assolto.

Signori della corte,
L’antifascismo è per me solo il primo gradino, quello in cui – come dissi poc’anzi – sono accomunati sovversivi e sinceri democratici. Ma io sono un anarchico, un esponente di quella dottrina politica che vuole la massima espressione di libertà ed uguaglianza fra gli uomini, che propugna l’abolizione dello Stato, che preconizza una società autogestita, federata dal basso in cui scompaiano definitivamente il gendarme e la prigione, in cui non vi sia più legge decretata dall’alto.
Quindi non è alla legge dei codici a cui mi appello, ma ad un’altra legge, nata nel secolo dei lumi, cui – pena il ritorno alla barbarie del dispotismo medievale – tutti si sottomettono, anarchici e magistrati: la legge della ragione.
Ed è in nome di questa legge che desidero sottoporre a questa corte alcuni quesiti.
Il 5 marzo del 1998 – su richiesta dei PM che presiedono l’accusa odierna, il signor Marcello Tatangelo e il procuratore Maurizio Laudi che lo ha sostituito in altra udienza – furono arrestati tre miei compagni, Edoardo Massari, Maria Soledad Rosas e Silvano Pelissero.
Allora come oggi i pubblici ministeri presentarono accuse esageratamente sproporzionate all’entità dei fatti accertati. Anche allora venne rifiutato ogni beneficio relativo alla scarcerazione. Il risultato di questa inchiesta fu la morte per impiccagione – in stato di detenzione cautelare – di due degli imputati, Edoardo Massari e Maria Soledad Rosas.
Il movimento anarchico e antagonista torinese individuò nell’operato dei due PM la responsabilità di queste morti. E il giorno della lettura della sentenza al processo Pelissero il pubblico presente in aula espresse ad alta voce il proprio dissenso gridando loro “boia assassini”. Vi furono denunce nei confronti di 14 persone, che il tribunale di Milano ha successivamente condannato in primo grado a 6 mesi per vilipendio.
Io mi onoro di far parte di questo gruppo perché la mia coscienza mi impone di gridare sempre forte e dovunque quella che io penso essere la verità.
Oggi gli stessi magistrati da me “vilipesi” siedono sul banco dell’accusa. Non conosco le leggi dello Stato ma – appellandomi unicamente alla legge della ragione – vi domando: in quale paese civile un querelante
sostiene, in altra e diversa causa, le accuse contro un ex querelato? E – quand’anche fosse esclusa ogni volontà di malanimo nei miei confronti – come potrebbe il giudizio di una persona “offesa” essere equo e
obiettivo?
Ma non Basta. Dopo che la corte di cassazione, ridimensionando i capi d’imputazione, mise la parola fine a quella dolorosa vicenda, io scrissi un libro, dal titolo “Le scarpe dei suicidi”, in cui le accuse urlate a
voce erano espresse nero su bianco e da me sottoscritte, dove il lavoro dei due PM era da me messo in discussione e ridicolizzato proprio sulla base degli atti dell’inchiesta.
Questo libro è stato edito come autoproduzione dal Fenix, proprio quella Casa occupata di corso San Maurizio dove si è concluso il corteo per cui siamo imputati, il cui immobile l’attuale PM, dopo averlo fatto sgombrare, ha posto (caso unico in Italia) per più di un anno sotto sequestro giudiziario.
Penso che non vi sia altro da aggiungere e che chiunque ragioni con la propria testa sappia facilmente trarre le debite conclusioni da quanto ho esposto.
Ora io vi domando, signori della corte, come posso io oggi veder salvaguardati i miei diritti alla difesa? Come potrei mai accettare di rispondere alle domande di questi PM quando tra me e loro si ergeranno sempre i cadaveri dei miei due compagni Sole e Baleno? E quando io fossi condannato per devastazione e saccheggio – perché quanto verrà deciso in quest’aula inevitabilmente sarà commentato fuori – chi impedirà alle persone ragionevoli di pensare che io non sia stato punito per i reati contestati ma a causa delle mie opinioni?
Opinioni espresse non solo riguardo all’operato dei PM ma anche nei confronti del funzionario DIGOS che ha presieduto l’attuale inchiesta, Giuseppe Petronzi. Costui nel mio libro è ripetutamente schernito proprio sulla base dei documenti prodotti dal suo ufficio.
Essendovi in gioco evidenti motivazioni personali da parte dei miei accusatori, vi chiedo: quale equanimità di giudizio può essere garantita in simile situazione?
“Ne ferisce più la penna che la spada” recita un vecchio adagio ed è proprio di questi delitti che sono chiamato a rispondere.

Vorrei concludere con alcune considerazioni generali.
All’origine degli eventi che vedono oggi imputati me ed i miei compagni vi è un’aggressione di neonazisti al Barocchio, ma costoro rappresentano solo l’aspetto carnevalesco (anche se armato e omicida) di un fascismo di cartapesta.
Il vero fascismo è come un cancro che si insinua lentamente nei gangli vitali dello Stato di diritto. Una malattia, come la storia dimostra, da cui non è immune nessuna democrazia.
Fascismo è quanto è successo a Genova nel 2001 quando venne giustiziato a sangue freddo dai carabinieri il giovane Carlo Giuliani, quando – con l’avvallo del governo – venne sospeso ogni diritto costituzionale e i
manifestanti arrestati furono sottoposti a tortura, come testimonia ampiamente il rapporto di Amnesty International.
Fascismo è quando – e scuse ce ne sono e ce ne saranno sempre tante (il terrorismo, la violenza allo stadio, la microcriminalità diffusa, l’immigrazione clandestina, ecc.) – vengono varate leggi sempre più restrittive della garanzia delle persone.
Fascismo è quando un ministro dell’interno considera alla stregua di terrorismo le scritte nei gabinetti e ogni critica all’operato di un pubblico amministratore, di un vescovo, di un magistrato o di un poliziotto.
Fascismo è quando il 25 aprile e il primo maggio la Digos torinese strappa con la forza gli striscioni degli anarchici perché non recitano ciò che piace ai padroni di destra e di sinistra.
Se vincerà questo fascismo a patire non saremo solo noi sovversivi (anche se siamo e, come sempre, saremo i primi ad esserne colpiti) ma tutti i cittadini che vedranno irrimediabilmente compromessi i propri spazi di libertà.
L’ingiuria maggiore la riceveranno quelle migliaia di italiani che offrirono la loro vita nella lotta contro il nazifascismo per salvaguardare la libertà di tutti di esprimere il proprio pensiero e di manifestare liberamente.
Essi non sono morti invano, vivono nei cuori di tutti coloro che preservano la memoria del loro sacrificio.
Solo quando i valori che hanno affermato a prezzo del loro sangue saranno completamente dimenticati, essi morranno per sempre.
E questo – per quanto mi riguarda – non dovrà mai accadere.

Tobia Imperato

La mattina del 12 giugno 2005, poco prima dell’alba, dentro il mio carrozzone – che si trova al centro del cortile del Barocchio – fui chiamato da un amico in preda al panico che urlava: “Mauro, sei vivo?”.
Mi svegliai di soprassalto urlando “Sì, sono vivo!” e, uscendo dal carrozzone, vidi due miei amici coperti di sangue e pieni di tagli.
Incredulo e soddisfatto l’amico che mi aveva svegliato, era contento di vedermi vivo.
Avevamo subito un altro attacco da neo-fascisti e/o neo-nazisti, la squadraccia per fortuna non si era resa conto della mia presenza nel carrozzone, avendo come obiettivo quello di entrare nella casa per sorprendere nel sonno le persone che vi abitavano.
Fortunatamente le persone si resero subito conto del frastuono causato dall’aggressione delle belve sanguinarie – che erano ormai entrate nel cortile – riuscendo a respingerle con grande sforzo asserragliandosi in casa dietro ad una porta di ferro, ormai unica difesa, che a fatica erano riuscite a chiudere senza spezzare qualche braccio armato di coltello che cercava ancora di fendere colpi assassini. Mentre nel cortile rimanevano i due amici feriti, che nel frattempo si erano nascosti, ed io, rimasto a dormire nel carrozzone e che non mi ero accorto di niente.
Non era il primo attacco che subivamo poiché da anni siamo bersaglio di attacchi: all’inizio sembravano ragazzate, dato che si trattava di lanci di uova e pietre, automobili con i vetri in frantumi; ma quando si è
arrivati alle molotov buttate contro la porta del Barocchio, alle auto incendiate o a tentativi sventati di bruciarle ci siamo resi conto che non si trattava di ragazzate ma qualcosa di molto più serio.
Tali azioni a volte erano rivendicate da svastiche, scritte e adesivi di gruppuscoli di estrema destra sui nostri furgoni.
Erano sette mesi che eravamo costretti a passare la notte in piedi a difendere la casa, dato l’intensificarsi degli attacchi.
Sembrava si fosse tornati al tempo dei rastrellamenti più sanguinari del nazi-fascismo – come nei racconti dei nostri vecchi che quell’epoca hanno vissuto – quando per sfuggire alle persecuzioni dovettero
nascondersi sui boschi e sulle montagne. Mentre i nazi-fascisti, continuando le scorribande nei piccoli centri, trovavano solo più donne e bambini, perpetrando violenze carnali sulle donne e violenze di ogni genere, bruciando e depredando, in qualche caso, villaggi interi annientando ogni possibilità di dimora.
Cose che, a leggere i giornali oggi, si pensavano relegate solo nei libri di storia. In realtà aggressioni del genere avvengono sempre più spesso in diverse città italiane, ricordiamo ad esempio Davide Cesare (Dax)
sgozzato in una notte milanese davanti a un bar da un padre fascista che voleva insegnare ai figli come difendere il territorio. Per altro non perseguito più di tanto dalla legge né criminalizzato dai media.
Mentre i giornali nel 1993 diedero molta rilevanza ai fatti di Rostock, dove i gruppi neonazisti tedeschi avevano attaccato e bruciato gli immigrati stranieri nelle loro case, di quanto accade in Italia se ne
parla il meno possibile.
Dopo l’aggressione scrivemmo un manifesto informativo e dei volantini. Il sabato successivo, 18 giugno, ci ritrovammo in un presidio antifascista in piazza Madama Cristina.
Tale presidio aveva lo scopo di rendere pubblico che i neo-fascisti armati di coltello ti entrano in casa anche nella Torino 2005. E poiché il presidio fu molto partecipato, decidemmo di muoverci tutti insieme in corteo per far sapere alla cittadinanza torinese e al mondo intero, attraverso volantinaggi e attacchinaggi, cosa potrebbe succedere a chiunque, ovviamente se antifascista, anarchico, squatter, comunista, omosessuale, immigrato, zingaro, barbone…
Trattammo con le forze dell’ordine per riuscire a muoverci.
Alcuni manifestanti decisero di coprirsi il volto per non farsi identificare e fotografare, finendo così negli schedari dei gruppi neo-nazisti (che sappiamo esistere), non certo allo scopo di non farsi riconoscere dalla polizia che nelle due ore precedenti, durante il presidio, sapevamo averci abbondantemente fotografato e filmato.
Partito il corteo da piazza Madama Cristina come sempre le forze dell’ordine si schierarono in gran numero davanti e dietro. Imboccata via Madama Cristina, fu bloccato in corso Marconi. Dopo lunghe trattative e grande tensione per il rischio di essere caricati, si riuscì a percorrere corso Marconi fino in via Nizza dove ci fu un altro blocco e altre tensioni, perché la nostra intenzione continuava a essere quella di informare i torinesi che di solito il sabato pomeriggio si riversano nelle vie del centro per le loro spese.
Le trattative al primo blocco in via Nizza ci permisero solo di avanzare fino all’angolo di via Berthollet, dove un altro blocco – costituito questa volta dalla Celere nervosissima con blindati alle spalle – ci costrinse a svoltare in via Berthollet.
In tutta San Salvario le forze dell’ordine avevano preventivamente terrorizzato, paventando il rischio di vetrine infrante e facendo abbassare le serrande, gli esercizi commerciali che nella zona sono in gran parte di stranieri, cosa che non fecero in via Po.
Al passaggio del corteo alcuni manifestanti rialzarono delicatamente le serrande e spiegarono le ragioni anche antirazziste della manifestazione. Molti riaprirono e solidarizzarono con i manifestanti donandoci acqua, bibite e brioche. Tutto questo durante un ulteriore blocco della Celere che minacciava di caricare all’angolo di via Berthollet con via Sant’Anselmo. Anche qui, come nei precedenti blocchi, lo spazio tra la prima fila dei manifestanti e la polizia era molto esiguo, si era praticamente a contatto; quindi i manifestanti sentivano chiaramente le minacce e gli insulti che provenivano dai celerini.
Qui, esclusa ogni possibilità di trattativa, il corteo fu costretto a svoltare in via Sant’Anselmo e poi in via Galliari giungendo nuovamente in piazza Madama Cristina. Da lì, dopo una rapida trattativa, fu dato il
permesso di percorrere via Madama Cristina in direzione Corso Vittorio Emanuele, dove fummo nuovamente bloccati. L’ennesima trattativa ci permise di passare in via Accademia Albertina per raggiungere i giardini
reali dove la manifestazione si sarebbe conclusa. Trattasi di una via destinata in gran parte ai parcheggi, in cui non ci sono negozi e, soprattutto, non c’è possibilità di comunicare con la gente.
Giunto all’angolo di via Accademia Albertina con via Po (nella quale tutte le attività commerciali erano in piena funzione, negozi e bancarelle di librai e artigiani sotto i portici), il corteo – cercando di informare le persone che si trovavano in centro – tentò di piegare verso piazza Castello, trovandosi di fronte a un blocco composto anche di mezzi blindati che strozzavano la via. Quindi ci trovammo ancora una volta a stretto contatto con la Celere, che continuava ad aumentare di numero. Le seconde file erano ancora più aggressive e insultavano e minacciavano i manifestanti.
Qui io ricordo personalmente di aver chiesto a chi avevo di fronte: “Ma allora è una questione personale?” La risposta è stata: “Sì”, immediatamente seguita dalla carica e dal lancio di lacrimogeni, da cui io con non poca difficoltà riuscii a svincolarmi, illeso, da manganellate che arrivavano da tutte le parti. Fortuna, questa, che non è toccata a tutti.
Il corteo fu disperso. Una decina di metri più in là, quando mi girai tra i fumi dei lacrimogeni, non vidi più nessuno in via Po, tranne la polizia. Io mi buttai in una via laterale in direzione dei giardini reali, i manifestanti infatti si trovavano quasi tutti nelle vie laterali. Mi riaffacciai un attimo su via Po dove vidi che c’era una
“barricatina”, quella che sui giornali i giorni successivi – con foto prese dal basso – verrà descritta come una barricata enorme che bloccava via Po. Poi mi sono rigirato nella via laterale e ho proseguito il cammino verso corso San Maurizio dove una parte del corteo si era ricompattata terminando – come concordato – la manifestazione ai giardini reali. Ed è qui che si sparse la voce che quattro manifestanti erano stati arrestati.

Il giorno dopo i giornali descrivevano soprattutto gli incidenti della manifestazione, accennando solo marginalmente all’attacco fascista ad una casa occupata che era il motivo del corteo. Un mese dopo, al momento del nostro arresto per i fatti avvenuti in via Po, le nostra fotografie risultavano ben chiare, e ripetutamente per diversi giorni, su giornali e telegiornali nazionali e regionali, servizio che è stato risparmiato ai presunti fascisti omicidi.

Ma cosa vuol dire oggi essere antifascisti? La memoria antifascista di Torino e dell’Italia dove è finita? L’Italia non una repubblica basata sulla costituzione antifascista? Siamo solo noi gli antifascisti rimasti?

Mauro Lussi

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