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pubblicato il 30.09.07
Per ricordare Walter ricerchiamone gli assassini
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Per ricordare Walter ricerchiamone gli assassini
mercoledì 26 settembre 2007 di Enrico Campofreda

Immaginate come potrebbe essere oggi Walter Rossi, uno splendido cinquantenne come molti dei ragazzi dei Settanta sanno ancora essere. Con qualche naturale biancore, qualche sciatalgia ma uno spirito mai domo. Nonostante repressione, droghe prime, droghe seconde, rampantismo, italiadabereedarubare, politica come carriera, seconda repubblica e fascisti postfascisti a governare lo Stato nato dalla Resistenza.
Nel settembre del 1977 l’ultimo partigiano che abbiamo recentemente pianto, Giovanni Pesce, aveva cinquantanove anni. Un uomo appena più maturo di quello che sarebbe oggi Walter. Un uomo accantonato come i valori antifascisti da quell’Italia che aveva fatto libera, nonostante l’anno successivo allo strazio di Rossi un altro uomo simbolo della Resistenza qual era Pertini diventasse Presidente.
Eccola l’Italia passata e presente. L’Italia di facciata e di sostanza. A parole democratica e cosciente dei passi oscuri compiuti, di fatto serva d’un realismo politico da far paura. Non scomodiamo la Storia per ripetere cose notissime, di come il fascismo nel Belpaese non sia mai morto. Addirittura con la creazione d’un partito nostalgico coacervo di criminali di guerra e giovani fanatici, ma soprattutto mai morto negli apparati statali e nello spirito di quanti sedevano sotto altre sigle sugli scranni del Potere.

Naturalmente c’è stata un’altra Italia. Quella ideologica e passionale che non si svendeva, non comprendeva l’amnistia Togliatti e più tardi il compromesso storico, scendeva in strada e lasciava morti a Reggio Emilia, insorgeva a piazza De Ferraris.
Dall’epoca delle stragi di stato – che sottoponevano i cittadini a un clima sudamericano con bombe seminatrici di morte e una destra militare che fremeva per il golpe – l’altra Italia riprese a cacciare i fascisti dalle sedi da dove partivano raid assassini.
All’inizio dei Settanta l’antifascismo militante fu un modo per resistere alla politica dell’assassinio che vedeva il fascismo di Stato armare la mano degli squadristi di Almirante, Fini e Rauti mentre costoro sedevano in Parlamento. Una petizione popolare per la messa fuorilegge del Msi raccolse centinaia di migliaia di firme e venne pesantemente boicottata a sinistra dal Pci. Accanto a essa c’era la difesa di cortei, comizi, propaganda, iniziative di lotta al carovita come occupazioni di case e autoriduzioni delle utenze. Un amplissimo movimento di popolo che del piombo era solo bersaglio. Piombo fascista e poliziesco.

I discussi “anni di piombo” hanno avuto questo prodromo, decine e con le stragi centinaia di vittime, e quel che sono stati l’impegno e la lotta per la democrazia e la partecipazione sociale in quegli anni non possono essere catalogati come adesione al partito armato.
Una sorta di revisionismo storico passa anche su questa fase più recente della politica italiana. L’esperienza, pur conclusa e sconfitta della sinistra extraparlamentare che diresse lotte storiche nel decennio successivo al Sessantotto, viene rimossa per parlare solo di bierre e lottarmatismo. Gli anni Settanta non furono questo. Non lo furono i movimenti operaio, studentesco, dei disoccupati, delle donne da Torino a Palermo. I cortei di Mirafiori, i Cub della Pirelli, i caschi gialli dell’Italsider, le occupazioni a Fulvio Testi, San Basilio, Casalbruciato. Le ribellioni antifasciste all’omicidio Varalli, il corteo romano del 2 febbraio da cui nacque il movimento ’77.
Formidabili quegli anni scriveva un ex leader sessantottino quando cominciò a vivere di rendita di posizione. Furono formidabili per una generazione che non voleva chinare la testa nonostante il fuoco nemico. E rispondeva con la baldanza dell’utopia e la voglia di sovversione. Rispondeva con la lotta collettiva, non certo pacifica perché non credeva nei “We shall Overcome” dei campus statunitensi.

La ribellione italiana, pur vivace e creativa, non riparava nelle comuni lisergiche, cercava di entrare nei problemi sociali, si ricollegava alle contraddizioni classiste del capitalismo, al mondo di sfruttatori e sfruttati riproposto in Italia dopo le sciagure del fascismo e l’illusione del boom economico. La bella bandiera d’un mondo nuovo che il Pci aveva abbandonato per incamminarsi su una via che non è mai stata neppure socialdemocratica veniva ripresa dai ragazzi dalle magliette a strisce, dalle tute blu dell’autunno caldo, dai sessantottini e settantasettini.
Walter era uno di loro. Questo abbiamo il dovere di raccontare ai ragazzi di Genova e di dopo Genova. A chi ha ancora voglia di non chinare testa e schiena. E per non ricordare la morte ma gli ideali che animavano Walter e i suoi compagni, per andare oltre la testimonianza un primo obiettivo praticabile può essere quello di richiedere alla magistratura di cercare i suoi assassini. Che sono magari presenti nei ricordi dei tanti Cuori neri adagiati sugli scaffali delle librerie italiane. Ricordi della pubblicistica postfascista e neanche tanto post che discetta dalle poltrone parlamentari e istituzionali ricevute in regalo nell’ultimo quindicennio. E’ uno dei servizi che possiamo rendere alla memoria di Walter e di chi crede a una società che possa liberarsi dal cancro fascista.

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