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pubblicato il 24.07.05
I morti di Reggio Emilia del luglio 1960
·

Reggio Emilia 7 luglio 1960
2 scritti

“governo Tambroni ha dato libertà di aprire il fuoco in “situazioni di emergenza”: alla fine si conteranno undici morti e centinaia di feriti”.

Antifascismo: i morti di Reggio Emilia del luglio 1960

Quarantacinque anni fa una delle pagine più nere della storia della Repubblica italiana. Il 7 luglio 1960, nel corso di una manifestazione sindacale, cinque operai di Reggio Emilia, tutti iscritti al PCI, sono uccisi dalle forze dell’ordine.

I loro nomi, immortalati dalla celebre canzone di Fausto Amodei “Per i morti di Reggio Emilia”: Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli.

I morti di Reggio Emilia sono l’apice – non la conclusione -di due settimane di scontri con la polizia, alla quale il capo del governo Tambroni ha dato libertà di aprire il fuoco in “situazioni di emergenza”: alla fine si conteranno undici morti e centinaia di feriti. Questi morti costringeranno alle dimissioni il governo Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno dei fascisti del M.S.I. e dei monarchici, e apriranno la strada ai futuri governi di centro-sinistra. Ma soprattutto, contrassegneranno in modo repentino un radicale mutamento di clima politico nel paese: l’avvento della generazione dei “ragazzi con le magliette a righe”.

Sino a quel momento i giovani erano considerati come spoliticizzati, distanti dalla generazione dei partigiani e orientati al mito delle “tre M” (macchina, moglie, mestiere): la giovane età di tre delle cinque vittime testimonia invece la presa di coscienza, in forme ancor più radicali della generazione che aveva resistito negli anni Cinquanta, di un nuovo proletariato giovanile. Di questo mutamento di clima – dalla disperata tristezza per il revanchismo fascista alla rinascita della speranza dopo i fatti di luglio – sono testimonianza la poesia di Pasolini “La croce uncinata” (aprile 1960) e l’articolo “Le radici del luglio” (Vie nuove, 29 ottobre 1960).

Il contesto storico-politico

Il 25 marzo 1960 il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi conferisce l’incarico di formare il nuovo governo a un democristiano di secondo piano, Fernando Tambroni, avvocato quasi sessantenne ed esponente della sinistra democristiana, attivo sostenitore di una politica di “legge ed ordine”. La sua designazione segna un punto di svolta all’interno di un’acuta crisi politica, con pesanti risvolti istituzionali. La politica del centrismo è ormai esaurita, ma le trattative con il Partito Socialista di Pietro Nenni per la formazione di un governo di centro-sinistra non sembrano in grado di partorire la svolta politica, auspicata e preparata dall’astro nascente della DC Aldo Moro, che nell’ottobre 1959 aveva aperto ai socialisti affermando il carattere “popolare e antifascista” della DC in occasione del congresso democristiano svoltosi a Firenze.

Il governo Tambroni ha al suo interno una forte presenza di uomini della sinistra democristiana, ma ottiene la fiducia alla camera solo grazie ai voti dei fascisti e dei monarchici. La direzione della DC sconfessa l’operato del gruppo parlamentare, e tre ministri (Sullo, Bo e Pastore) aprono una crisi che si conclude col rinvio alle Camere del Governo, con l’invito del presidente Gronchi a sostituire i tre ministri riottosi. In questo modo Gronchi esplicitava la proposta politica di un “governo del Presidente” che cercava spregiudicatamente i suoi consensi in aula con chiunque fosse disponibile ad appoggiarlo: una soluzione autoritaria, come lo era del resto la proposta di un “gollismo italiano” caldeggiata da Fanfani, volta a sminuire le prerogative del Parlamento davanti al rischio di un ingresso dei socialisti nella maggioranza. Degna di nota la presenza nel governo di due uomini del “partito-Gladio”: Antonio Segni (agli Esteri) e Paolo Emilio Taviani, (oltre all’immancabile Giulio Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro e Benigno Zaccagnini).

Da Genova a Reggio Emilia

Nel giugno il MSI annuncia che il suo congresso nazionale si terrà a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, e che a presiederlo è stato chiamato l’ex prefetto repubblichino Emanuele Basile, responsabile della deportazione degli antifascisti resistenti e degli operai genovesi nei lager e nelle fabbriche tedeschi. Alla notizia Genova insorge. Il 30 giugno i lavoratori portuensi (i cosiddetti “camalli”) risalgono dal porto guidando decine di migliaia di genovesi, in massima parte di giovane età, in una grande manifestazione aperta dai comandanti partigiani. Al tentativo di sciogliere la manifestazione da parte della polizia, i manifestanti rovesciano e bruciano le jeep, erigono barricate e di fatto si impadroniscono della città, costringendo i poliziotti a trincerarsi nelle caserme. In piazza De Ferrari viene acceso un rogo per bruciare i mitra sequestrati alle forze dell’ordine. Il prefetto di Genova è costretto ad annullare il congresso fascista.

In risposta alla sollevazione genovese Tambroni ordina la linea dura nei confronti di ogni manifestazione: il 5 luglio la polizia spara a Licata e uccide Vincenzo Napoli, di 25 anni, ferendo gravemente altri ventiquattro manifestanti. Il 6 luglio 1960 a Roma, a Porta San Paolo, la polizia reprime con una carica di cavalleria (guidata dall’olimpionico Raimondo d’Inzeo) un corteo antifascista, ferendo alcuni deputati socialisti e comunisti.

Il 7 luglio

La sera del 6 luglio la CGIL reggiana, dopo una lunga riunione (la linea della CGIL era sino a quel momento avversa a manifestazioni politiche) proclama lo sciopero cittadino. La polizia ha proibito gli assembramenti, e le stesse auto del sindacato invitano con gli altoparlanti i manifestanti a non stazionare. Ma l’unico spazio consentito – la Sala Verdi, 600 posti – è troppo piccolo per contenere i 20.000 manifestanti: un gruppo di circa 300 operai delle Officine Meccaniche Reggiane decide quindi di raccogliersi davanti al monumento ai Caduti, cantando canzoni di protesta. Alle 16.45 del pomeriggio una violenta carica di un reparto di 350 celerini al comando del vice-questore Giulio Cafari Panico investe la manifestazione pacifica: “Cominciarono i caroselli degli automezzi della polizia. Ricordo un’autobotte della polizia che in piazza cercava di disperdere la folla con gli idranti”, ricorda un testimone, l’allora maestro elementare Antonio Zambonelli. Anche i carabinieri, al comando del tenente colonnello Giudici, partecipano alla carica. Incalzati dalle camionette, dalle bombe a gas, dai getti d’acqua e dai fumogeni, i manifestanti cercano rifugio nel vicino isolato San Rocco, “dove c’era un cantiere, ricorda un protagonista dei fatti, Giuliano Rovacchi. Entrammo e raccogliemmo di tutto, assi di legno, sassi…”.

“Altri manifestanti, aggiunge Zambonelli, buttavano le seggiole dalle distese dei bar della piazza”. Respinti dalla disperata sassaiola dei manifestanti, i celerini impugnano le armi da fuoco e cominciano a sparare: “Teng-teng, si sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole, dice Rovacchi, e noi ci ritirammo sotto l’isolato San Rocco. Vidi un poliziotto scendere dall’autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza d’uomo”.

In quel punto verrà trovato il corpo di Afro Tondelli (1924), operaio di 35 anni. Si trova isolato al centro di piazza della Libertà. L’agente di PS Orlando Celani estrae la pistola, s’inginocchia, prende la mira in accurata posizione di tiro e spara a colpo sicuro su un bersaglio fermo. Prima di spirare Tondelli dice: “Mi hanno voluto ammazzare, mi sparavano addosso come alla caccia”. Partigiano della 76a Sap (nome di battaglia “Bobi”), è il quinto di otto fratelli, in una famiglia contadina di Gavasseto. Sposato, è segretario locale dell’Anpi.

Davanti alla chiesa di San Francesco è Lauro Farioli, 22 anni, orfano di padre, sposato e padre di un bimbo. Lo chiamavano “Modugno” grazie alla vaga somiglianza con il cantante. Era uscito di casa con pantaloni corti, una camicetta rossa, le ciabatte ai piedi: ai primi spari si muove incredulo verso i poliziotti come per fermarli. Gli agenti sono a cento metri da lui: lo fucilano in pieno petto. Dirà un ragazzo testimone dell’eccidio: “Ha fatto un passo o due, non di più, e subito è partita la raffica di mitra, io mi trovavo proprio alle sue spalle e l’ho visto voltarsi, girarsi su se stesso con tutto il sangue che gli usciva dalla bocca. Mi è caduto addosso con tutto il sangue”.

Intanto l’operaio Marino Serri, 41 anni, partigiano della 76a brigata si è affacciato piangendo di rabbia oltre l’angolo della strada gridando “Assassini!”: cade immediatamente, colpito da una raffica di mitra. Nato in una famiglia contadina e montanara poverissima di Casina, con sei fratelli, non aveva frequentato nemmeno le elementari: lavorava sin da bambino pascolando le pecore nelle campagne. Militare a 20 anni, era stato in Jugoslavia. Abitava a Rondinara di Scandiano, con la moglie Clotilde e i figli.

In piazza Cavour c’è Ovidio Franchi, un ragazzo operaio di 19 anni. Viene colpito da un proiettile all’addome. Cerca di tenersi su, aggrappandosi a una serranda: “Un altro, racconta un testimone, ferito lievemente, lo voleva aiutare, poi è arrivato uno in divisa e ha sparato a tutti e due”. Franchi è la vittima più giovane (classe 1941, nativo della frazione di Gavassa): figlio di un operaio delle Officine Meccaniche Reggiane, dopo la scuola di avviamento industriale era entrato come apprendista in una piccola officina della zona. Nel frattempo frequentava il biennio serale per conseguire l’attestato di disegnatore meccanico, che gli era stato appena recapitato. Morirà poco dopo a causa delle ferite riportate.

Ma gli spari non sciolgono la manifestazione: sono proprio i più giovani – tra i quali è Rovacchi – a resistere: “La macchina del sindacato girava tra i tumulti e l’altoparlante ci invitava a lasciare la piazza, che la manifestazione era finita. Ma noi non avevamo alcuna intenzione di ritirarci, qualcuno incitava addirittura alle barricate. Non avremmo sgomberato la piazza almeno fino a quando la polizia non spariva. E così fu. Mentre correvo inciampai su un corpo senza vita, vicino al negozio di Zamboni. Era il corpo di Reverberi, ma lo capii soltanto dopo”.

Emilio Reverberi, 39 anni, operaio, era stato licenziato perché comunista nel 1951 dalle Officine Meccaniche Reggiane, dove era entrato all’età di 14 anni. Era stato garibaldino nella 144a Brigata dislocata nella zona della Val d’Enza (commissario politico nel distaccamento Amendola). Nativo di Cavriago, abitava a Reggio nelle case operaie oltre Crostolo con la moglie e i due figli. Viene brutalmente freddato a 39 anni, sotto i portici dell’Isolato San Rocco, in piazza Cavour. In realtà non è ancora morto: falciato da una raffica di mitra, spirerà in sala operatoria.

Polizia e carabinieri sparano con mitra e moschetti più di 500 proiettili, per quasi tre quarti d’ora, contro gli inermi manifestanti. I morti sono cinque, i feriti centinaia: Zambonelli, riuscito a entrare nell’ospedale, testimonia di “feriti ammucchiati ai morti, corpi squartati, irriconoscibili, ammassati uno sull’altro”. Drammatica anche la testimonianza del chirurgo Riccardo Motta: “In sala operatoria c’eravamo io, il professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: non c’era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo,

pesantissimi, l’apprensione e il dolore dei parenti”.

La caduta del governo Tambroni

Nello stesso giorno altri scontri e altri feriti a Napoli, Modena e Parma. Il ministro degli Interni Spataro afferma alla Camera che ”è in atto una destabilizzazione ordita dalle sinistre con appoggi internazionali”. Invano il presidente del Senato Cesare Merzagora tenta una mediazione, proponendo di tenere le forze di polizia in caserma e invitando i sindacati a sospendere gli scioperi per “non lasciare libera una moltitudine di gente che può provocare incidenti”: la polizia continua a sparare ad altezza d’uomo. A Palermo la polizia carica con i gipponi senza preavviso, e quando i dimostranti rispondono a sassate, gli agenti estraggono i mitra e le pistole e uccidono Francesco Vella, di 42 anni, mastro muratore e organizzatore delle leghe edili, che stava soccorrendo un ragazzo di 16 anni colpito da un colpo di moschetto al petto, Giuseppe Malleo (che morirà nei giorni successivi) e Andrea Gangitano, giovane manovale disoccupato di 18 anni. Viene uccisa anche Rosa La Barbera di 53 anni, raggiunta in casa da una pallottola sparata all’impazzata mentre chiudeva le imposte. I feriti dai colpi di armi da fuoco sono 40.

A Catania la polizia spara in piazza Stesicoro. Salvatore Novembre di 19 anni, disoccupato, è massacrato a manganellate. Si accascia a terra sanguinante: “mentre egli perde i sensi, un poliziotto gli spara addosso ripetutamente, deliberatamente. Uno due tre colpi fino a massacrarlo, a renderlo irriconoscibile. Poi il poliziotto si mischia agli altri, continua la sua azione”. Il corpo martoriato e sanguinante di Salvatore viene trascinato da alcuni agenti fino al centro della piazza affinché sia da ammonimento. Essi impediscono a chiunque, mitra alla mano, di portare soccorso al giovane il quale, a mano a mano che il sangue si riversa sul selciato, lentamente muore. Le autorità imbastiranno successivamente una macabra montatura disponendo una perizia necroscopica al fine di “accertare, ove sia possibile, se il proiettile sia stato esploso dai manifestanti”. Altri 7 manifestanti rimangono feriti.

Il 9 luglio imponenti manifestazioni di protesta a Reggio Emilia (centomila manifestanti), Catania e Palermo rilanciano la protesta. Tambroni arriva a collegare le manifestazioni a un viaggio di Togliatti a Mosca, affermando che “questi incidenti sono frutto di un piano prestabilito dentro i palazzi del Cremlino”. Ma il governo è ormai nell’angolo: il 16 luglio la Confindustria firma con i sindacati l’accordo sulla parità salariale tra uomini e donne, il 18 viene pubblicato un documento sottoscritto da 61 intellettuali cattolici che intima ai dirigenti democristiani a non fare alleanza con i neofascisti. Il 19 luglio Tambroni si reca dal presidente Gronchi, il 22 viene conferito ad Amintore Fanfani l’incarico di formare un governo appoggiato da repubblicani e socialdemocratici.

Nel 1964 si svolge a Milano il processo a carico del vice-questore Cafari Panico e dell’agente Celani. Il 14 luglio la Corte d’Assise di Milano, presidente Curatolo, assolve i responsabili della strage: Giulio Cafari Panico, che aveva ordinato la carica, viene assolto con formula piena per non aver commesso il fatto; Orlando Celani, da più testimoni riconosciuto come l’agente che con freddezza prende la mira e uccide Afro Tondelli, viene assolto per insufficienza di prove.

Girolamo De Michele

fonte: http://www.terrelibere.it


Reggio Emilia 7 luglio 1960

REGGIO. «Il cielo era diventato improvvisamente di piombo, una cappa opprimente calò all’improvviso sulla città. Mentre lasciavamo la piazza, a occidente si stagliarono lingue rosse di fuoco…». Il ricordo di un tramonto è la prima immagine che viene in mente a un testimone-protagonista di quel 7 luglio. Assieme alle mani. Mani che oggi si muovono mentre rievocano i fatti di allora e che allora vissero quei momenti. Le mani che quel giorno fremevano mentre lanciavano sassi in risposta ai proiettili della polizia di Tambroni. Le mani ferme di chirurgo che cercavano di strappare alla morte i feriti. Le mani di un giovane cronista che tremavano al momento di scattare la foto del corpo senza vita di uno dei «Morti di Reggio Emilia».
E oltre le mani, gli occhi, le teste di coloro che oggi, a 42 anni di distanza, ricordano quel 7 luglio che verrà rievocato e onorato dal segretario della Cgil Sergio Cofferati.
Le mani che tremano, sono quelle di un giovane cronista, oggi storico della Resistenza, Antonio Zambonelli, all’epoca studente universitario e maestro elementare, che quell’anno passerà l’estate nella redazione reggiana dell’Unità.
LA REPRESSIONE. Quel giorno Zambonelli era in piazza, con la macchina fotografica al collo. Ma aveva un motivo in più, oltre il lavoro di cronista, oltre il desiderio di documentare una giornata che si annunciava carica di tensione: «Qualche settimana prima – racconta Zambonelli – il 30 aprile, avevo partecipato a una manifestazione contro Almirante, venuto a Reggio per un comizio. Camminavo in via Emilia San Pietro urlando slogan contro i missini che, cantando le canzoni del ventennio, stavano entrando nella sede di via Roma. Arrivarono i carabinieri e fui “catenato”: su di me usarono i “ferri”, quelle catene che si usavano per portare i detenuti in tribunale. Svenni, caddi a terra, mi sveglia all’ospedale e dove fui denunciato per adunata sediziosa».
L’aria, a Reggio, era quella: c’erano già state le lotte alle «Reggiane», il livello di conflittualità sociale non era mai stato così alto dal dopoguerra, la polizia reagiva con la forza a ogni manifestazione di piazza, e per contro, cresceva tra i giovani un movimento che il sindacato e il Pci faticavano a «disciplinare».
MAGLIETTE A RIGHE. Spiega Giuliano Rovacchi, ex consigliere comunale e ragazzo di allora: «Eravamo idealmente figli della Resistenza, eravamo quasi tutti iscritti alla Fgci, frequentavamo le riunioni del partito, ma non eravamo inquadrati. Vestivamo con roba importata, i jeans e le famose magliette a righe. Il nostro rapporto con il partito e lo stesso sindacato era spesso conflittuale». E la prova si ebbe proprio quel 7 luglio, come spiega lo stesso Rovacchi: «Aspettavamo che il sindacato si decidesse fin dalla sera prima. Allora la Cgil non era mai stata per scioperi politici. Così, c’era attesa dalla sera prima e i dubbi furono sciolti soltanto al mattino, quando cominciarono a girare le auto con gli altoparlanti».
E la manifestazione partì, ma non poteva restare sui binari decisi dalla questura che aveva a sua volta ricevuto ordini precisi da Roma: «Erano vietati gli assembramenti – ricorda Zambonelli – e la manifestazione avrebbe dovuto tenersi all’interno della Sala Verdi, dove però c’erano pochi posti».
Poco avvezzi ai diktat del Pci, i giovani con la maglietta a righe non vollero saperne di quello che aveva loro ordinato la polizia.
IN GRUPPO A CANTARE. «Ricordo – dice Rovacchi – che ci mettemmo davanti al monumento dei caduti, in un bel gruppo, a cantare…».
Un assembramento pacifico, ma pur sempre un assembramento è. E così, poco dopo le tre del pomeriggio, dopo che l’altoparlante fissato su un’auto della Cgil aveva inutilmente chiesto ai manifestanti di evitare gli assembramenti, ecco la reazione della polizia: «A un certo punto – ricorda Zambonelli – cominciarono i caroselli degli automezzi della polizia. Ricordo un’autobotte della polizia che in piazza cercava di disperdere la folla con gli idranti».
A quei getti d’acqua e ai primi fumogeni, i manifestanti risposero: «Eravamo nei pressi dell’Isolato San Rocco – ricorda Rovacchi – dove c’era un cantiere. Entrammo e raccogliemmo di tutto, assi di legno, sassi…». La mente corre al G8 di Genova e non sarà l’unico parallelo con quei giorni di un altro luglio di sangue. «Altri manifestanti – dice Zambonelli – buttavano le seggiole dalle distese dei bar della piazza».
LE RAFFICHE. Poi, all’improvviso, la colonna sonora di quel caos cambiò: «Si sentirono i primi colpi d’arma da fuoco, le prime raffiche, ricordo le fronde degli alberi che cadevano a terra» dice Zambonelli.
«Teng-teng, si sentiva questo rumore, teng-teng. Erano pallottole – dice Rovacchi – e noi ci ritirammo sotto l’isolato San Rocco. Vidi un poliziotto scendere dall’autobotte, inginocchiarsi e sparare, verso i giardini, ad altezza d’uomo». Più tardi, ai giardini, si troverà il corpo senza vita di Afro Tondelli, forse colpito da quei proiettili.
Zambonelli, nel frattempo, aveva smesso di fotografare: «Molti di noi pensavano a cercare un riparo, mentre il rumore delle raffiche s’infittiva sempre di più. C’è anche una foto che mi ritrae ingloriosamente mentre scappo». E Zambonelli, la macchina fotografica ancora al collo, fugge verso la chiesa di San Francesco, verso le Poste: «Allora – spiega lo storico reggiano – da quelle parti c’era la sede del Gaf, il Gruppo artigiani fotografi. Entrai e da lì chiamai a casa, per tranquillizzare mia madre, ma non vi riuscii, per via di un equivoco: le dissi che ero dentro al Gaf e lei capì soltanto che ero dentro, pensò che fossi in galera. Si sarebbe tranquillizzata solo qualche ora dopo, quando rientrai a casa».
NIENTE RITIRATA. Non aveva alcuna intenzione di rientrare a casa – e con lui gli altri ragazzi con le magliette a righe – il giovane Rovacchi: «La macchina del sindacato – ricorda – girava tra i tumulti e l’altoparlante ci invitava a lasciare la piazza, che la manifestazione era finita. Ma noi non avevamo alcuna intenzione di ritirarci, qualcuno incitava addirittura alle barricate. Non avremmo sgomberato la piazza almeno fino a quando la polizia non spariva. E così fu. Mentre correvo inciampai su un corpo senza vita, vicino al negozio di Zamboni. Era il corpo di Reverberi, ma lo capii soltanto dopo».
LA FOTO NON SCATTATA. Il racconto di Zambonelli è sempre più incalzante: «Da dentro il Gaf – spiega – sentivamo che le urla e gli spari non si placavano. L’hanno ucciso, e poi scappiamo. Voci che si sovrapponevano, voci mescolate agli spari. Ci affacciammo da un terrazzino e vedemmo un capannello di gente. Erano attorno al corpo senza vita di Lauro Farioli. Feci per scattare una foto ma le mani mi tremavano, non vedevo l’obiettivo, chiesi a Fulgenzio Codeluppi di aiutarmi. La foto la scattò lui…».
ALL’OSPEDALE. La giornata non era finita, per questi ragazzi protagonisti e spettatori di qualcosa di molto più grande di loro. «Volevamo notizie dei feriti – spiega Zambonelli – e così, cercai con altri di entrare in ospedale (che era ancora in via Dante), ma c’era la polizia in assetto di guerra: figuriamoci se si fermavano di fronte a uno pseudo-tesserino da giornalista». Qualcun altro, come Rovacchi, entrò con uno stratagemma: «Raggiungemmo la sede della Croce verde e convincemmo gli infermieri a caricarci sulle ambulanze. E su quelle entrammo». Alla fine anche Zambonelli riuscirà a passare da un’uscita secondaria: «Entrai in uno stanzone e quello che vidi mi portò, laico com’ero, a un gesto che non facevo mai. Con le mani tremanti feci il segno della croce: davanti a me c’erano feriti ammucchiati ai morti, corpi squartati, irriconoscibili, ammassati uno sull’altro».
IL RICORDO DEL SECOLO. Poche stanze più in là, i chirurghi erano alle prese con la loro «giornata particolare». Uno dei testimoni dell’epoca, il professor Riccardo Motta ricorderà quel giorno come il più importante del secolo.
«In sala operatoria c’eravamo io, il professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: Non c’era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l’appressione e il dolore dei parenti».
vedemmo un capannello di gente. Erano attorno al corpo senza vita di Lauro Farioli. Feci per scattare una foto ma le mani mi tremavano, non vedevo l’obiettivo, chiesi a Fulgenzio Codeluppi di aiutarmi. La foto la scattò lui…».
ALL’OSPEDALE. La giornata non era finita, per questi ragazzi protagonisti e spettatori di qualcosa di molto più grande di loro. «Volevamo notizie dei feriti – spiega Zambonelli – e così, cercai con altri di entrare in ospedale (che era ancora in via Dante), ma c’era la polizia in assetto di guerra: figuriamoci se si fermavano di fronte a uno pseudo-tesserino da giornalista». Qualcun altro, come Rovacchi, entrò con uno stratagemma: «Raggiungemmo la sede della Croce verde e convincemmo gli infermieri a caricarci sulle ambulanze. E su quelle entrammo». Alla fine anche Zambonelli riuscirà a passare da un’uscita secondaria: «Entrai in uno stanzone e quello che vidi mi portò, laico com’ero, a un gesto che non facevo mai. Con le mani tremanti feci il segno della croce: davanti a me c’erano feriti ammucchiati ai morti, corpi squartati, irriconoscibili, ammassati uno sull’altro».
IL RICORDO DEL SECOLO. Poche stanze più in là, i chirurghi erano alle prese con la loro «giornata particolare». Uno dei testimoni dell’epoca, il professor Riccardo Motta ricorderà quel giorno come il più importante del secolo.
«In sala operatoria c’eravamo io, il professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: Non c’era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l’appressione e il dolore dei parenti».

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